in camicia e senza corsivo

Mi piacciono gli uomini che non indossano la cravatta perché quella striscia di stoffa, per setosa e colorata che sia, m’appare come un cappio al collo, un traslato in salsa western che a dispetto della tesi di molti – francamente anacronistica – non contribuisce a creare un’allure elegante, anzi: sono innumerevoli le volte in cui è di un kitsch assoluto.

D’estate, soprattutto la sera, preferisco l’uomo in camicia, magari bianca e con colletto alla coreana; le t-shirt, pur griffate, dopo le diciotto hanno un che di sciatto, di forzatamente disinvolto. Insomma, sono una flâneuse del paesaggio urbano e in un certo senso dell’uomo ben vestito. A condizione che non parli (in) corsivo, perché in tal caso sarei io a stringergli un cappio intorno al collo.

gli anni

A loro imputi d’essere stati inadempienti, ma l’inadempiente sei stata tu. Li hai creduti infiniti, gli anni, e ora che le sliding door sbeffeggiano la tua irresolutezza, ti defili per non essere sottoposta a giudizio. Ma a giudicarti sarà il tuo stesso tribunale, e non poteva andarti peggio.

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come Palomar

L’occhio del signor Palomar, quello di calviniana memoria, segue la luna con studiato disincanto. Non la percepisce come un possibile approdo né aspira a piegarne la distanza con voli improbabili, a imitazione di Astolfo che andò a riprendere il senno perduto di Orlando.

Per molti aspetti sono come Palomar, più propensa all’osservazione empirica della luna che non alle sue implicazioni fantasmagoriche. Ma quando guardo le stelle tutto cambia: consapevole che il loro brillìo appartiene a corpi celesti morti – una sfida alla finitudine del tutto – le stesse si offrono da compendio per rotte risalenti ai cieli notturni dell’infanzia. E dicono dello struggimento di un’assenza. Come sempre, da troppo tempo ormai.

poesie

Il mio amico F., che pure è un fine intenditore dell’animo umano, detesta cordialmente la poesia, a meno che non intraveda tra gli “a capo” una prosa sotto mentite spoglie, quasi che il poeta si fosse divertito a spiegazzarla modulandola in versi. Certa di poter arginare la sua diffidenza, se ora fosse qui gli chiederei: e di questa poesia di Scarabicchi che ne pensi? ti spaventa al pari delle altre o t’appare per quello che è, un domandare inconciliato che s’apparenta al monologare comune?

Nei mattini di maggio

dove crescono,

liberi dall’offesa,

la gioventù e i gerani?

C’è che i nostri tempi hanno reso la lettura della poesia un rito superstizioso, avulso da ogni residuo di pensiero critico. Inteso non come mera analisi metrica, ma come capacità di sconfinamento del pensiero. Nella meraviglia e nell’oltre.

Andrea

I gradini smussati dall’uso secolare portavano al piano nobile di un edificio risalente ai primi del Novecento, suddiviso in due appartamenti e un seminterrato nascosto alla curiosità di chi vi si recava in visita. Ai miei occhi il punto di forza dell’intero stabile era costituito dal terrazzo che s’apriva su uno scenario mozzafiato; singolare, poi, che quel fazzoletto di mattoni non si adombrasse fino al tramonto, sfidando la logica che avrebbe richiesto una reazione contraria, giacché più edifici lo tiranneggiavano su due lati. Per una decina d’anni, quando il tepore invernale del primo pomeriggio era ispessito dalla mollezza dell’afa, presi l’abitudine di passare da Andrea per il caffè. Ricordo che a volte, mentre mi inerpicavo su per le scale, mi raccomandava di lasciare fuori la diffidenza metafisica, ma in realtà avrebbe potuto risparmiarmi l’afflato affettuoso giacché in sua presenza mi abbandonavo ad audacie discorsive indifferenti alla logica.

“Non è già abbastanza portare questa immagine di cui ci ha rivestito la natura? Bisognerà anche permettere che di questa immagine rimanga un’altra immagine, più duratura della prima, quasi si trattasse di una cosa degna di essere vista?”

Andrea non era un uomo brusco però si sa, in un mondo governato dalle convenzioni, chiunque abbia l’ardire di manifestarsi senza orpelli è considerato un arrogante, uno da blandire. Quando lo conobbi, in una sera d’estate che aveva l’aria di passare sotto traccia, come ogni anno si era trasferito nella masseria di famiglia dove riceveva gli amici, e gli amici degli amici, a ogni ora del giorno riuscendo ad assemblare tipologie umane che, fuori contesto, avrebbero inalberato un vessillo di scoraggiante altezzosità pur di assicurarsi la tutela del proprio status. In una delle leggendarie cene al chiaro di luna arrivai con la faccia di chi presenzia non per convinzione ma per irresolutezza; niente lasciava presagire quello che sarebbe avvenuto di lì a un mese: diventammo amanti, forse per una banale combinazione astrale o forse per l’ingerenza di una deità in vena di conciliare personalità contrapposte.

***

In autunno, prima che la luce del pomeriggio cedesse al metamorfico delle tenebre, quando eravamo liberi dagli impegni di lavoro passeggiavamo per il centro storico di Noto le cui facciate barocche, altere nella loro fissità, sembravano farsi un punto d’onore di non partecipare al flusso di vita che precedeva l’ora di cena. Quell’intimità pomeridiana con Andrea mi era più cara di quanto non lo fossero le notti traslucide di umori e parole della cui infruttescenza dubitavo: aveva goduto allo stesso modo con le altree per quanto tempo avrebbe trovato la mia sensualità imprescindibile? Non era un domandare ozioso perché il sesso, a cui siamo tutti debitori per il solo fatto di essere al mondo, ha un modulato che lo apparenta alla transitorietà, mentre la comunione di coscienze, quali eravamo noi due durante quelle passeggiate, non presenta alcun carattere di indefinitezza essendo in tutto simile a un monolito consacrato da liturgia millenaria.

Andrea parlava molto e io rapita lo stavo ad ascoltare come succede sempre quando qualcuno ti tocca il cuore; tuttavia, di tanto in tanto, mi estraniavo a fantasticare, ma rinserravo le fantasie più audaci in un angolo della mente perché è di pudore che s’ammantano i sogni.

***

La drammatizzazione nel sangue e la leggerezza nel cuore: questo eravamo stati fino all’alba dei quarant’anni Andrea ed io. Ci eravamo nutriti di schermaglie cervellotiche e di notti di eccessi di cui il giorno dopo parlavamo con levità, al riparo da interpretazioni simil-freudiane che lasciavamo a chi non ne aveva di proprie. Ma su un punto ci eravamo giurati intransigenza: poiché era la transitorietà la cifra del nostro rapporto dovevamo tenerlo a mente. Infatti, il nostro fu un addio sobrio. Riuscimmo perfino a sorridere.

se non ti avessi incontrata

Al netto dell’ipocrisia che suggerisce di non confessarlo, sentirselo dire è bello. Riscalda il cuore. Se poi a parlare è una giovane donna di successo, è un attimo prendere in considerazione che ciò che si è fatto ha avuto un senso. Per dirla tutta, lei incarna quello che io non sono riuscita a diventare – per paura, pigrizia, scarsa consapevolezza del potenziale in fieri. E oggi, mentre mi raccontava dell’ennesima sfida professionale e poi ripetendo, prima di andare, di dovermi tanto, avrei voluto dirle, Tu sei l’altra parte di me che si è persa nel ventre della balena. Quella parte che, nonostante tutto, non mi rinfaccia niente.

geometrie sentimentali mal riuscite

Dicono sia prerogativa degli scrittori rifuggire le interiezioni sociali che banalizzano un individuo fino a farne, anzitempo, materia per vermi. Tuttavia ci sono persone che, lungi dal potersi dire maestre nell’arte del periodare, si dibattono istintivamente a salvaguardia della propria soggettività, consce che le influenze nocive sono centrifughe che presto o tardi le trasformeranno in qualcos’altro. Un qualcosa che, pur foriero di soddisfazioni, si configurerà comunque come oltraggio alla loro natura.

Nelle ore in cui non mi sono di conforto le geometrie sentimentali, ossia gli ologrammi ottenuti escludendo le digressioni che di norma mi accompagnano con maniacalità spettrale, contengo l’ansia escludendo la presenza umana. È così da sempre, fin da quando, bambina, mi rifugiavo nel sottoscala e, indifferente ai richiami di mia madre, ci restavo fino al momento in cui una nota di esasperazione nella sua voce mi convinceva ad abbandonare il cono d’ombra. In cui però sarei tornata più e più volte, pur sapendo di non essere ancora arbitro della mia vita.

auguri

La festa di paese si è appena conclusa. Non che io vi abbia partecipato – lo sai che sono sempre stata refrattaria alle esternazioni pacchiane di giubilo – ma. anche volendo, folla più banda sarebbe stato davvero eccessivo. Stamattina mi sono arrivati un po’ di messaggi per te. Tre per l’esattezza. Ora la domanda è: come si inoltrano i messaggi per l’aldilà?

Domani cancellerò questo post. Nel frattempo tu trova il modo di leggerlo.

come back to me

Ho comprato un geranio rosso per dare più colore alla veranda. L’ho messo a dimora nella luce ferma del pomeriggio che, più della temperatura, dice dell’arroganza della bella stagione. Ti ho pensata perché i gerani ti piacevano tanto, e non solo a livello estetico ma anche, o forse soprattutto, per quel loro essere privi di pretese. Chiedono solo acqua e sole me l’hai ripetuto di anno in anno, quasi temessi che prima o poi me ne sarei dimenticata. Non avevi molta fiducia nelle mie capacità e di certo immaginavi, come poi è stato, che avrei comprato altre piante di cui non avrei saputo prendermi cura. A conti fatti dev’essere stata un’impresa rapportarsi a una figlia avara di parole e di slanci affettivi, una figlia che si dava per frammenti, e spesso per compiacere.

“Ma da chi hai preso?”, sbottavi a volte, esasperata.

“Non da te”, era la mia risposta piccata.

Il caldo afoso è di nuovo alle porte. Il geranio lo affronterà con baldanza, io meno. Non è un problema, me ne starò al riparo. Del resto, da quando non ci sei più, è tutto un sottrarre per sottrarsi. Solo alla rassegnazione non so assegnare il segno meno. È troppo presto per lasciarti andare definitivamente.