La fabbrica

Arrivammo nel paese del sud.

Era una di quelle strane giornate di nuvole cangianti, con vento umido e tiepido; la luce del sole trovava talvolta il pertugio per allargarsi in un’effimera raggiera, che anziché cancellare, esaltava il cupo grigiore degli ammassi nuvolosi.

I colori erano sbiaditi, le costruzioni basse e disordinate, talune senza intonaco o fatiscenti, ma le strade brulicavano di gente e automobili. Una piccola folla attendeva davanti alle poste, il cui logo giallo spiccava sulla facciata biancastra.

Mi resi conto che ritrovare la strada era più facile del previsto: via via riconoscevo i punti di riferimento e gli incroci in cui svoltare. Il cavalcavia sopra la stazione, il brutto (ma non forse per chi vi abitava) palazzo di un marrone stinto e screpolato, i giardinetti all’ombra scura e compatta degli alberi.

Nascosta dal lungo muro di cinta, la fabbrica non si vedeva finché non si arrivava all’ingresso, un cancello scorrevole che trovammo aperto. La nostra automobile entrò. Scendemmo e ci presentammo alla guardia, rintanata in una stanzina, dietro il vetro. Ci disse che era ancora presto, che prima delle otto e trenta di solito non arrivava nessuno degli impiegati, mentre gli operai erano già entrati da un po’.

Ma chi dovevamo contattare? Questo piccolo particolare era rimasto nel vago nella frettolosa organizzazione. Sapevamo abbastanza bene che cosa dovevamo fare, purché qualcuno fosse in grado di azionare la camera termica. Feci il nome del direttore, poi della persona che avevo incontrato la volta prima, poi del responsabile del macchinario. No, non c’era ancora nessuno.

Il vento di scirocco arrivava da dietro la casupola della sorveglianza ed avvolgeva i grandi platani facendo frusciare a terra le prime foglie secche. Mi sedetti su di un muretto a godermi quell’aria che sapeva d’autunno.

Dopo qualche minuto arrivarono tre persone con le loro auto.

<<Ecco è quello là con i capelli bianchi>> io non capivo chi fosse il nostro uomo, fra le tre persone ancora lontane una decina di metri. Mi voltai con sguardo interrogativo.

<<… è quello con gli occhiali>> aggiunse.

Ci salutammo velocemente ma cordialmente, con quella subitanea familiarità di chi sa di dover lavorare insieme.

<< Portate la macchina vicino a quell’ingresso>>, ci disse subito. Era quello che speravamo: non avevamo certo voglia di portare tutto il materiale dal parcheggio.

<< Ci vuole un carrello>>, sentenziò. Posò la sua borsa sul marciapiede e dopo pochi minuti tornò con una pedana e un carrello, di quelli capaci di sollevare il carico azionando una leva che funge anche da traino. Iniziammo a trasbordare gli strumenti di misura ed il resto del materiale, che avevamo preparato il giorno prima, sempre con il timore di avere dimenticato qualcosa.

Poi, entrammo.

Il nostro nuovo collega conduceva il carrello con mestiere, anche se ebbe qualche difficoltà ad aprire un’anta della porta a vetri, incastrata sul pavimento. Eravamo ancora in un ampio ingresso dove la luce riusciva ad entrare dall’esterno. Ma subito dopo, bruscamente, si giungeva nel ventre della fabbrica.

Era un unico enorme ambiente, con stanzoni interrotti solo dalle colonne portanti.

Nonostante vi fossero molte lampade e, sull’altissimo soffitto, larghe vetrate alternate a tettoie spioventi (il tipico profilo “a fabbrica”), si aveva una percezione di oscurità, come di grotta. La luce artificiale sembrava diluirsi faticosamente e quasi perdersi nella vastità del locale. Forse, anche perché alcuni reparti erano proprio bui e quasi vuoti: poche strutture, mestamente inutilizzate, emanavano il vissuto operaio degli anni addietro e mostravano il profilo contro lo sfondo di vetri e lamiere.

Sul pavimento, delle strisce gialle indicavano il percorso per i muletti, che ogni tanto sfrecciavano di fronte a noi. C’erano persino i percorsi pedonali, che mi sforzai di seguire.

<<Vedete, una volta ci lavoravano mille persone>> ci disse. Non so quanto esagerasse.

<<Adesso siamo qualche decina>> e su questo non esagerava.

Macchinari enormi e pesanti, sconosciuti e inimmaginabili per qualsiasi persona che in quello stesso momento passeggiava per le strade del paese, occupavano la navata centrale. Le targhe del costruttore, a rilievo, in metallo nero o dorato, si mostravano come piccole opere d’arte, alcune con nomi stranieri sofisticati, altre con firme italianissime e familiari. Menti di ingegneri, mani di artigiani avevano passato nottate a progettare e far funzionare quegli oggetti da iniziati, mentre la gente dormiva ignara nel proprio letto.

Finalmente vidi qualche operaio, in tuta blu, naturalmente, a lavorare con alcune di quelle macchine, sfornando pezzi metallici dalle forme indefinite e dalla funzione per me sconosciuta.

Strutture aeree con sostegni, cavi, tubazioni incombevano sopra di noi, forse trasportando linfa per il colosso.

Attraversammo un odore di olio disciolto nella tepida luce. Ci condusse in quello che sarebbe stato il nostro luogo di lavoro per quella giornata: uno stanzone polveroso, con due PC vetusti, scaffalature con materiali e pezzi di vario tipo, ai lati due o tre macchine dall’aspetto massiccio che puntavano dall’alto sottili e delicati meccanismi per lavori di precisione, il pavimento in alcuni punti screpolato, la volta precedente ci ero anche inciampato, quasi da fermo per la verità.

<<In due o tre anni abbiamo perso quello che era stato conquistato in decenni, non c’è più nemmeno l’infermeria>>, aggiunse il nostro amico.

In fondo, campeggiava la nostra macchina: un parallelepipedo di metallo di colore blu scuro, alto due metri. Sul davanti uno sportello, grande come tutta la facciata, si apriva a mostrare l’interno: la camera termica, in cui, di lì a poco, ci sarebbero stati 40 gradi sotto lo zero.

Sistemammo l’attrezzatura in un lungo carrello ed i nostri portatili su un tavolo che avevamo pulito con due o tre pezze di carta trovate lì vicino. Una decina di cavi di alimentazione, fibre ottiche, cavi di rete: in pochi minuti allestimmo il tutto, sapevamo ogni mossa a memoria.

Dentro il mostro sistemammo le schede elettroniche da testare.

Guardando tutto insieme, sembrava quasi qualcosa di professionale.

Con il suo aiuto, accendemmo la macchina, impostando la temperatura voluta: cominciò a urlare e vomitare calore dal compressore posto alla base, proprio verso di noi. Non potevamo che sopportare ed abituarci, si sarebbe calmata solo per brevi minuti in tutta la giornata. Ogni tanto mi allontanavo, restando seduto e spingendo la sedia con le ruote; bastava un metro perché il rumore si attenuasse e per uscire dal flusso d’aria. A volte, però, non restava che alzarsi e fare un giro nello stanzone. Del resto il lavoro consisteva nell’aspettare e prendere i dati ad intervalli regolari.

Ricordo comunque che mangiai di fronte al caldo alito della macchina.

Mi concessi poche pause per uscire e passeggiare nel reparto.

Quando incrociavo qualcuno, sempre salutava compostamente, forse per il mio esser nuovo di quel posto, forse per la camicia e i pantaloni da impiegato che spiccavano in quell’ambiente e che lasciavano immaginare forse la presenza di qualche pezzo grosso.

Andai al bagno, immancabilmente. Percorsi lentamente e rispettosamente uno dei lati del reparto oscurato. Trovai una ragazza che stava dando lo straccio per terra. Mi bloccai, ma lei mi disse <<Vada pure, non importa >>. Dentro, da alcuni rubinetti l’acqua colava ininterrotta, e ad uno era stato legato una striscia di tessuto per cercare di tenerlo chiuso. Al muro era appeso un contenitore di metallo arrugginito, non si sa per che cosa, con sopra scritto, “Poste Italiane”.

Ad un certo punto ebbi bisogno di una vera pausa, per respirare. Uscendo dal nostro ambiente, a sinistra, si intravvedeva lontana, in fondo al corridoio, la luce autunnale e il verde di alcune piante spontanee. Mi incamminai verso quella luce e verso quel verde, continuando a osservare a destra e a sinistra il lavoro degli altri.

Fui fuori dalla fabbrica; in realtà su uno stretto passaggio tra l’edificio e il muro di cinta.

Guardai verso le colline. Erano diventate gigantesche cave a gradoni, ove si era tentato, non senza qualche successo, di piantare degli alberi per nascondere lo scavo; sembravano abeti, a giudicare dalla forma e dal colore scuro; più grandi sul livello più alto e più piccoli, quasi graziosi nanetti, via via che si scendeva di piano. Bisognava solo avere pazienza, forse.

Intorno, altri capannoni, che non potei visitare.

Piovigginava in maniera impercettibile, anche se la luce intorno era quella di un sole non completamente nascosto.

Rientrai verso la mia occupazione.

Ogni tanto il nostro assistente si faceva vivo, per sapere se avevamo bisogno di aiuto.

<<Dovrebbero trasferirci, si parla di un’operazione di razionalizzazione>>, disse a un certo punto.

<<Abbiamo vissuto qualcosa di simile>>, risposi.

<<Cento chilometri da qui, come faremo? E pensare che, se fossi rimasto nell’azienda di prima, adesso con la mobilità avrei potuto sperare di andare in pensione in pochi anni>>.

Verso le cinque spegnemmo la macchina.

Riaprimmo lo sportello e ritrovammo le nostre schede ancora intatte, dentro quell’antro tecnologico.

Il collega ci accompagnò all’uscita, portando il materiale con il solito carrello.

Dovevamo fare altre 2 ore e mezza di viaggio, per poi riportare gli strumenti in ufficio e finalmente tornare a casa.

<<Ma questa è la macchina aziendale tua?>>, domandò ironicamente. Poi ci salutammo.

C’era ancora il vento, le nubi continuavano a cambiare forma e colore, ma ancora non pioveva.

La fabbricaultima modifica: 2019-11-17T12:28:22+01:00da Sisyphus2011