parole e favole

A lungo ho annotato parole da assemblare e donare a coloro che portavo nel cuore; erano funzionali a raccontare il mio stato d’animo che altrimenti sarebbe rimasto in ombra, puntualmente avversato dalla timidezza. Poche righe per comunicare gioia riconoscenza delusione amarezza, talvolta solo l’essenzialità dei giorni. I destinatari, fatte salve pochissime eccezioni, assicuravano all’oblìo le mie sillabe che, poverine, sapevano già in partenza di consegnarsi a una resa senza onore. Nondimeno speravo nel loro potere taumaturgico, se non in maniera strumentale almeno come forma di suggestione. A conti fatti mi era di conforto sapere che è così che deve andare: gli istanti sono gemme in liquefazione, il per sempre una delle favole più belle che ci siamo raccontati.

horrific

Se per la paralisi del sonno la letteratura scientifica si è pronunciata a sufficienza fornendo risposte rassicuranti e in un certo qual modo banali, lo stesso non può dirsi per i graffi che compaiono su alcune parti del corpo al risveglio. Per dirla meglio, le ipotesi a riguardo sono tante e, proprio in ragione dei numeri, il suggerimento più gettonato è quello di filmarsi notte dopo notte e poi tirare le somme. Per un’appassionata di paranormale la questione non è di poco conto: viene qualcuno a tracciare rotte sulle mie braccia o sono io stessa a trovare un modo per punirmi? È la paura del futuro a lasciare quelle scie rosse o forse il rimorso? Bel rebus. E dire che ho fatto di tutto per costruirmi una vita tranquilla, lontano dai guai. Ma stando ai fatti, pare che perfino rallentare i battiti del cuore serva a poco.

L'Incubo di Johann Heinrich Füssli: analisi

Amalia e Guido, un amore impossibile e malato

Mio buon Amico,

io vorrei ora sapere una cosa da Voi. Vorrei vedere me stessa chiaramente nel vostro intimo, conoscere con certezza quale immagine nuova s’è foggiato di me il vostro pensiero, sapere quello che io sono in questo momento per Voi.

Io temo di non apparirvi che come una creatura degna di pietà, di compassione, e non voglio, capite, non voglio il vostro compianto. Ditemi quanto più potete sinceramente ciò che pensate di me e di tutto quello che sapete di me. Io credo che vi stanca questo “avido cuore”, questo cuore che ha dato sempre tanto ed ha ricevuto sempre tanto poco…

A.

No, no, no. È meglio non vederci più. (…) Ci siamo salvati dalla sorte comune dei piccoli amanti e dobbiamo uscire da questa ribellione più sereni e più franchi. Io sono felice di non dovervi più rivedere. E non soffrirò. Voi soffrirete anche meno. Forse presto vi coglierà una passione forte per un uomo forte. Ve l’auguro – beato il cuore vostro che sa ammalarsi di questi mali! – io mi sento irrevocabilmente sano, fasciato di analisi e di malinconia. Addio, mia buona, buona e cara Amalia, io fuggo un’altra volta da Voi: e non so perché rido a questo pensiero.!

Guido

Amalia Guglielmetti – per D’annunzio “l’unica poetessa che abbia oggi l’Italia” -, aveva occhi magnetici e fascino incantatore, qualità che il bel mondo della Torino di inizio Novecento invidiava e ammirava. Femminista ante litteram, scelse fino alla fine di restare sola, ovvero di sottrarsi a ogni legame per tutelare il bisogno innato di indipendenza. Guido Gozzano, nevroticamente infermo oltre che malato di tisi, aveva in grande considerazione la produzione poetica di Amalia, molto meno il  côté femminile della stessa e non già per l’incapacità di scorgervi il confluire di tante qualità, ma per l’impossibilità genetica di amare. E infatti le scrisse:

“Perdonami. Ragiono perché non amo: questa è la grande verità. Io non t’ho amata mai. (…) Già altre volte t’ho confessata la mia grande miseria: nessuna donna mai mi fece soffrire; non ho amato mai”.

Sarebbe dunque un errore  bollare Gozzano come un bastardo tra i tanti, perché nel suo caso l’impossibilità di amare era conclamata e benché Amalia si ostinò, a livello epistolare, a cercare spiegazioni per dinamiche passionali arenatesi dopo un unico incontro, Gozzano restò fermo sulla decisione di allontanarsi. Ora, con buona pace del bisogno squisitamente umano di credere che non è così, vi sono ragioni ineffabili che decretano l’univocità dell’amore. Con qualche eccezione che tiene viva la speranza.