Mattina verso le otto e trenta.
Sto nuotando.
Da alcuni giorni grazie a dio riesco a seguire questo rituale che volerà via da me non appena saranno finite le ferie.
Niente di grave.
Avrò un’altra possibilità il prossimo anno per bramare tutto questo, visto che si desidera sempre ciò che non abbiamo.
E quindi sperimentare quella sensazione di freddo iniziale non appena ti immergi.
Quel brivido improvviso lungo la schiena.
Accorgerti che ti abbandona dolcemente e si trasforma in “freschezza”.
E i movimenti della nuotata che diventano morbidi e sciolti.
La mente che si distrae dalla fatica e si lascia condizionare da quello che si propone alla vista.
E così salta agli occhi la ritmica sinuosità del fondale sabbioso, il volteggiare delle bollicine d’aria create dalle bracciate, il banco di mormore fermo immobile che a raccontarlo si passa per bugiardi.
E quell’orata solitaria che nuota in disparte in questo mare sempre più devastato dall’uomo.
E infine, la sensazione dirompente di felicità che va per logica a braccetto col sentirsi così fortunati.
Ma questa mattina c’è stato un altro pensiero che si è insinuato nella mia mente.
Ho riflettuto su tutte quelle circostanze in cui vale la regola “chi ha il pane non ha i denti”.
Ed ho pensato a tutte quelle persone che snobbano la fortuna e la relativa prospettiva di felicità che viene loro concessa gratuitamente dalla vita.
Come nascere nelle vicinanze del mare ad esempio.
E allora, con un impeto inatteso, sono salite a galla alcune parole che avevo letto in un bellissimo post qui su Libero, dove una madre descriveva la nascita del proprio figlio dicendo che quel giorno lei la felicità aveva deciso di andarsela a prendere.
Ecco.
Io ho provato esattamente la medesima sensazione: di esser fortemente andato a prendermi quella felicità che stavo vivendo.