ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

La camera di Balbec


È la nostra attenzione a mettere gli oggetti in una stanza, ed è l'abitudine a toglierli e a farci spazio. E spazio, per me, non ce n'era nella mia camera di Balbec (mia soltanto di nome), traboccante di cose che non mi conoscevano e che restituirono la mia occhiata diffidente, facendomi capire, senza tenere alcun conto della mia esistenza, che io disturbavo il tran-tran della loro. La pendola - mentre la mia, a casa, non la sentivo che per pochi secondi alla settimana, solo quando uscivo da una profonda meditazione - s'ostinò a tenere in una lingua sconosciuta, senza un istante di tregua, discorsi che dovevano essere sgangherati nei miei confronti, giacché le grandi tende viola li ascoltavano senza rispondere, ma con l'espressione di chi alzi le spalle per significare che la vita d'un terzo lo indispone. A quella stanza così alta esse conferivano un'aura quasi storica, che avrebbe potuto renderla idonea all'assassinio del duca di Guisa e, in un secondo tempo, a una visita di turisti accompagnati da una guida dell'agenzia Cook - ma non certo al mio sonno. Ero tormentato dalla presenza di piccole librerie a vetri che correvano lungo le pareti, ma soprattutto da una grande specchiera piazzata trasversalmente alla stanza e a prescindere dalla cui rimozione sentivo che non ci sarebbe stata per me la minima possibilità di rilassamento. Alzavo di continuo lo sguardo - cui gli oggetti della mia camera di Parigi non davano più fastidio di quanto gliene potessero dare le mie proprie pupille, in quanto non erano altro che annessi dei miei organi, un'appendice della mia stessa persona - verso il soffitto troppo alto di quel belvedere posto in cima all'albergo che la nonna aveva scelto per me; ed era in una regione più intima di quella in cui vediamo e udiamo, nella regione in cui sperimentiamo la qualità degli odori, era quasi all'interno del mio io che l'esalazione della vetiveria veniva a sferrare contro i miei ultimi baluardi un'offensiva alla quale opponevo non senza fatica la risposta inutile e incessante d'un allarmato fiutare. Non avevo più universo, né camera, né corpo, se non questo corpo minacciato dai nemici che mi circondavano, invaso fin nelle ossa dalla febbre; ero solo, avevo voglia di morire. Fu allora che entrò la nonna; e all'espansione del mio cuore soffocato s'aprirono subitamente spazi infiniti.

M. Proust, Nomi di paesi: il paese

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori