Sulla Recherche

[…]

Á la recherche du temps perdu è la storia di una società e dei suoi meccanismi; è la storia di un Io che ritrova la pienezza di sé sull’orlo dell’estrema perdizione; ed è la storia di come le parole disposte in frasi possano modellare le cose più evanescenti lasciandosi impregnare da esse. In Proust ci sono più stili al lavoro, al punto da far sembrare a tratti che a scrivere la Recherche sia stato un gruppo e non un individuo. Lo stile non è unico: Proust sa essere secco e crudele, poi liberty e sinuoso, poi ironico e comico, poi oppiaceo e floreale, poi teoretico e acuminato, poi sociale e sociologico: e bisognerà assecondare senza resistenze questo moto sussultorio che percorre la Recherche, questo miscuglio inestricabile e spesso sfalsato e trascolorante in cui la massima evidenza sensibile e la massima asprezza concettuale si intrecciano, questo allargarsi dell’onda in un maroso immane che un attimo dopo può ridursi a un solo fiocco di spuma che ritorna acqua trasparente e poi cupa e poi ricomincia a formare onde e spume. Bisognerebbe entrare in Proust con attenzione: quel tessuto mobile di frasi chiede che tutti i sensi siano allertati e le facoltà siano sveglie, ma allo stesso tempo chiede alla svegliezza di scendere in un liquido amniotico della percezione psichica, in un buio denso di fosforescenza: qualcosa che è necessario assorbire con i pori, nel sonno e nel sogno, come gli odori di un corpo amato. E bisognerà leggere tutto, perché i dettagli sono in Proust il luogo in cui si concentra il fuoco della lente, un microcosmo che racchiude un macrocosmo: ma bisognerà anche imparare a non lasciarsi sopraffare dal dettaglio. Sarebbe necessario modellare se stessi come gli ascoltatori di una musica molto complessa, quel genere di musica che si volge e si svolge e ritorna da dove era iniziata ma con riflessi nuovi dai quali ricomincia, come la musica di Wagner: e conservare nella memoria l’eco di ciò che è accaduto prima mentre accade qualcosa ora, per ritrovarlo e risentirlo, potenziato fino all’insostenibile trecento o mille pagine dopo: solo allora il dettaglio brillerà della sua vera luce, solo chi non avrà cancellato dalla memoria il sussurrare di armonici del Longtemps con cui si apre la Recherche sentirà fino alla feccia e all’esaltazione il Temps su cui si arresta e si prolunga come su un cupo colpo di timpani il viaggio alla ricerca del sé perduto. Ma la Recherche è anche, e forse soprattutto, una immensa spettrografia dei rapporti sociali nell’era della Modernità: un modello di analisi di relazioni oppressive e sfruttamento dell’altro, di parassitismo psichico e di violenza interiore, di aggressività travestita da civilizzazione. In Proust non c’è nemmeno un grammo di sentimentalismo, ma sempre il microscopio aperto su sensi e sentimenti; e c’è il salotto, ma un salotto in cui dietro il chiacchiericcio la società porta avanti una guerra intestina in cui la sopraffazione tra gli individui giunge al culmine; e in Proust c’è, ossessivo e presente l’amore: ma come un evento che non è una facile soluzione, ma è l’inizio di un enigmatico e fascinoso problema, in cui si scontrano la fisiologia e ciò che si definisce cultura. Proust parla della trama sociale in cui l’individuo conta per ciò che possiede e per come appare, e ricostruisce il meccanismo della violenza coercitiva del vivere con gli altri secondo una visione che a Sartre faceva dire «l’inferno, sono gli altri»: quel meccanismo è vivisezionato da Proust con lucidità estrema, ma anche con l’ambigua sospensione che impedisce alla lucidità di diventare totalitaria, distruggendo così le complessità dell’oggetto reale. Nell’intransigente Maestro della Recherche non c’è nessun estetismo d’accatto o culto della «bellezza», sotto il cui orpello gli scrittori piccolo-borghesi mascherano il loro sentimentalismo cinico, e per saperlo basterebbe ascoltare il Maestro Marcel par luimême: «Accade così per tutti i grandi scrittori: la bellezza delle loro frasi è imprevedibile, come la bellezza d’una donna che ancora non conosciamo; è creazione, perché si applica a un oggetto esterno cui essi pensano – invece che a se stessi – e che ancora non hanno espresso…»

[…]

Ma chi tra gli esseri umani normali a cui quest’epoca sbriciola e rende affannoso il Tempo ha davvero la possibilità di leggere Proust? Non una o cento pagine: qui si tratta di divorare e di essere divorati dalle tremila pagine dell’oggetto misterioso che si intitola Á la recherche du temps perdu. Ma come fare! Per leggere Proust ci vorrebbe una di quelle febbri intense, che si portano dietro una lunga convalescenza in cui l’intelligenza e la sensibilità sono sveglissime, ma il corpo ha la scusa di essere sedentario; e forse non servirebbe la stanza foderata di sughero dell’asmatico e nevrotico Marcel, ma almeno sarebbe necessaria una stanza non devastata dal rumore dei vicini e dell’universo; e senza alcun dubbio bisognerebbe avere quella pazienza innamorata che forse non possiamo più concedere né a noi stessi né a qualsiasi altro essere, vivente o no che sia, e quella concentrazione che fa il vuoto e il silenzio anche in una folla. E allora, mentre decliniamo e perdiamo sensibilità, dovremmo aspettare che la fortuna ci regali tempo e agio? No, non possiamo aspettare le condizioni perfette, né per leggere Proust né per qualsiasi altra cosa: così lastricheremmo solo di buone intenzioni la strada della rassegnazione mortuaria. E allora si legga e si viva come si può: mezz’ora al giorno, dimenticando tutto; mezz’ora, come una preghiera; mezz’ora, aprendo un vortice nell’ottusità delle abitudini. Non è sempre così che è possibile vivere? Allora su, un ampio respiro, e dentro, nella lettura, là dove forse comincia la vita vera.

Giuseppe Montesano

Rievocando Combray

È così che, spesso, indugiavo fino al mattino a rievocare il tempo di Combray, le mie tristi sere senza sonno, i tanti giorni, anche, la cui immagine mi era stata di recente restituita dal sapore – che a Combray si sarebbe chiamato il “profumo” – di una tazza di tè e, per associazione di ricordi, quanto avevo appreso, molti anni dopo aver lasciato quella piccola città, intorno a un amore che Swann aveva avuto prima che io nascessi, con quella precisione di dettagli che risulta più facile da ottenere, a volte, per la vita di persone morte da secoli che non per le vicende dei nostri migliori amici, e che sembra impossibile come sembrava impossibile parlare da una città a un’altra – finché si ignora il trucco grazie al quale l’impossibilità è stata aggirata. Tutti quei ricordi sovrapposti gli uni agli altri formavano ormai una massa, ma questo non impediva di distinguere fra loro – fra i più antichi e i più recenti, nati da un profumo, e poi quelli che erano soltanto i ricordi di un’altra persona, dalla quale li avevo raccolti – se non delle fessure, delle faglie vere e proprie, almeno quelle venature, quelle screziature di colorazione che in certe rocce, in certi marmi, rivelano differenze d’origine, d’età, di “formazione”.

Certo, quando s’avvicinava il mattino la breve perplessità del mio risveglio era da tempo dissipata. Sapevo in quale camera mi trovavo realmente, l’avevo ricostruita intorno a me nell’oscurità e – orientandomi con la sola memoria, oppure servendomi, come indicazione, d’un debole chiarore che era filtrato e in base al quale sistemavo le tende della finestra – l’avevo ricostruita per intero, arredandola come un architetto e un tappezziere decisi a rispettare le aperture originarie di porte e finestre, riabbassando gli specchi, riportando il cassettone al suo solito posto. Ma appena il giorno – e non, da me scambiato prima per il giorno, il riflesso di un’ultima brace su una bacchetta di rame – tracciava nell’oscurità, come col gesso, la sua prima riga bianca e rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava subito il vano della porta dove l’avevo situata per errore mentre, per farle posto, lo scrittoio, installato là maldestramente dalla mia memoria, scappava velocissimo spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del corridoio; dove, un istante prima, si stendeva la stanza da bagno, regnava ora un cortiletto, e la casa che avevo ricostruita nelle tenebre  era andata a raggiungere le case intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga dal pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

Parte prima: Combray

pp. 226-227

traduzione di Giovanni Raboni

֎

C’est ainsi que je restais souvent jusqu’au matin à songer au temps de Combray, à mes tristes soirées sans sommeil, à tant de jours aussi dont l’image m’avait été plus récemment rendue par la saveur – ce qu’on aurait appelé à Combray le « parfum » – d’une tasse de thé, et par association de souvenirs à ce que, bien des années après avoir quitté cette petite ville, j’avais appris, au sujet d’un amour que Swann avait eu avant ma naissance, avec cette précision dans les détails plus facile à obtenir quelquefois pour la vie de personnes mortes il y a des siècles que pour celle de nos meilleurs amis, et qui semble impossible comme semblait impossible de causer d’une ville à une autre – tant qu’on ignore le biais par lequel cette impossibilité a été tournée. Tous ces souvenirs ajoutés les uns aux autres ne formaient plus qu’une masse, mais non sans qu’on ne pût distinguer entre eux – entre les plus anciens, et ceux plus récents, nés d’un parfum, puis ceux qui n’étaient que les souvenirs d’une autre personne de qui je les avais appris – sinon des fissures, des failles véritables, du moins ces veinures, ces bigarrures de coloration, qui dans certaines roches, dans certains marbres, révèlent des différences d’origine, d’âge, de « formation ».

Certes quand approchait le matin, il y avait bien longtemps qu’était dissipée la brève incertitude de mon réveil. Je savais dans quelle chambre je me trouvais effectivement, je l’avais reconstruite autour de moi dans l’obscurité, et – soit en m’orientant par la seule mémoire, soit en m’aidant, comme indication, d’une faible lueur aperçue, au pied de laquelle je plaçais les rideaux de la croisée – je l’avais reconstruite tout entière et meublée comme un architecte et un tapissier qui gardent leur ouverture primitive aux fenêtres et aux portes, j’avais reposé les glaces et remis la commode à sa place habituelle. Mais à peine le jour – et non plus le reflet d’une dernière braise sur une tringle de cuivre que j’avais pris pour lui – traçait-il dans l’obscurité, et comme à la craie, sa première raie blanche et rectificative, que la fenêtre avec ses rideaux, quittait le cadre de la porte où je l’avais située par erreur, tandis que pour lui faire place, le bureau que ma mémoire avait maladroitement installé là se sauvait à toute vitesse, poussant devant lui la cheminée et écartant le mur mitoyen du couloir ; une courette régnait à l’endroit où il y a un instant encore s’étendait le cabinet de toilette, et la demeure que j’avais rebâtie dans les ténèbres était allée rejoindre les demeures entrevues dans le tourbillon du réveil, mise en fuite par ce pâle signe qu’avait tracé au-dessus des rideaux le doigt levé du jour.

Marcel Proust, À la Recherche du temps perdu, Du Côté de Chez Swann, Première partie: Combray

La parte di Méséglise e la parte di Guermantes

Ma è soprattutto come a profondi giacimenti del mio sottosuolo mentale, come ai terreni resistenti che ancora mi sostengono, ch’io devo pensare alla parte di Méséglise e alla parte di Guermantes. Mentre percorrevo quegli itinerari, credevo alle cose, agli esseri, ed è per questo che le cose e gli esseri che vi ho conosciuti sono i soli che io prenda ancora sul serio e che mi diano ancora della gioia. O perché la fede che crea si è inaridita in me, o perché la realtà non si forma che nella memoria, i fiori che qualcuno mi mostra oggi per la prima volta non mi sembrano fiori veri. La parte di Méséglise con i suoi lillà, i suoi biancospini, i suoi fiordalisi, i suoi papaveri, i suoi meli, la parte di Guermantes con il suo fiume popolato di girini, le sue ninfee e i suoi bottondoro, hanno formato per me l’eterno volto del paese dove amerei vivere, dove esigo prima d’ogni altra cosa che si possa andare a pesca, fare gite in barca, vedere rovine di fortificazioni gotiche e trovare in mezzo ai campi di grano una chiesa monumentale, rustica e dorata come un pagliaio, quale era Saint-André-des-Champs; e i fiordalisi, i biancospini, i meli che ancora mi succede, quando viaggio, di incontrare nei campi, sono immediatamente in comunicazione con il mio cuore perché situati nella stessa profondità, al livello del mio passato. E tuttavia, dato che c’è qualcosa di individuale nei luoghi, quando mi assale il desiderio di rivedere la parte di Guermantes, non riuscireste a soddisfarmelo conducendomi sulla riva d’un fiume dove ci fossero ninfee altrettanto belle, ancora più belle che nella Vivonne, allo stesso modo che di sera, tornando a casa – nell’ora in cui si risvegliava in me quell’angoscia che più tardi emigra nell’amore, e può divenirne inseparabile per tutta la vita -, non avrei certo voluto che venisse a darmi la buonanotte una mamma più bella e più intelligente della mia. No; così come, per potermi addormentare felice, con quella pace senza turbamento che nessuna amante, dopo, e mai riuscita a darmi – giacché si dubita di loro nello stesso momento in cui si crede in loro e non si possiede mai il loro cuore come io ricevevo in un bacio quello di mia madre, tutto intero, senza la riserva di un pensiero inespresso, senza il residuo di un intenzione non dedicata a me -, ciò di cui avevo bisogno era che fosse lei, che chinasse lei verso me quel viso dove sotto l’occhio si vedeva qualcosa che era, pare, un difetto ma che io amavo esattamente come il resto; allo stesso modo ciò che voglio rivedere è la parte di Guermantes che ho conosciuta io, con la fattoria un po’ distante dalle altre due che si rinserrano invece l’una all’altra all’inizio del viale delle querce; sono i prati dove, quando il sole li rende specchianti come stagni, si disegnano le foglie dei meli; è quel paesaggio che a volte, la notte, nei miei sogni, mi afferra nella sua individualità con una potenza quasi fantastica che al risveglio non so più ritrovare. Certo, avendo congiunto dentro di me, indissolubilmente e per sempre, delle impressioni diverse, solo perché me le hanno fatto provare in uno stesso tempo, la parte di Méséglise e la parte di Guermantes mi hanno esposto, nel prosieguo della mia vita, a molte delusioni e persino a molti errori. Spesso, infatti, ho voluto rivedere una persona senza rendermi conto che lo desideravo semplicemente perché mi ricordava una siepe di biancospini, e sono stato indotto a credere, a far credere alla reviviscenza di un affetto dal semplice desiderio di un viaggio. Ma persino in quel modo, e continuando a essere presenti in quelle fra le mie impressioni attuali cui possono riallacciarsi, esse danno un loro fondamento, una profondità, una dimensione che le altre non possiedono. Danno loro anche un incanto, un significato che per me solo hanno valore. Quando, nelle sere d’estate, il cielo armonioso ringhia come una belva e tutti si aggrondano per timore della tempesta, è alla parte di Méséglise che devo il gusto di restarmene solo, in estasi, a respirare, attraverso il fruscio della pioggia, l’odore di invisibili, persistenti lillà.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

Parte prima: Combray

pp. 224-225-226

traduzione di Giovanni Raboni

֎

Mais c’est surtout comme à des gisements profonds de mon sol mental, comme aux terrains résistants sur lesquels je m’appuie encore, que je dois penser au côté de Méséglise et au côté de Guermantes. C’est parce que je croyais aux choses, aux êtres, tandis que je les parcourais, que les choses, les êtres qu’ils m’ont fait connaître, sont les seuls que je prenne encore au sérieux et qui me donnent encore de la joie. Soit que la foi qui crée soit tarie en moi, soit que la réalité ne se forme que dans la mémoire, les fleurs qu’on me montre aujourd’hui pour la première fois ne me semblent pas de vraies fleurs. Le côté de Méséglise avec ses lilas, ses aubépines, ses bluets, ses coquelicots, ses pommiers, le côté de Guermantes avec sa rivière à têtards, ses nymphéas et ses boutons d’or, ont constitué à tout jamais pour moi la figure des pays où j’aimerais vivre, où j’exige avant tout qu’on puisse aller à la pêche, se promener en canot, voir des ruines de fortifications gothiques et trouver au milieu des blés, ainsi qu’était Saint-André-des-Champs, une église monumentale, rustique et dorée comme une meule ; et les bluets, les aubépines, les pommiers qu’il m’arrive quand je voyage de rencontrer encore dans les champs, parce qu’ils sont situés à la même profondeur, au niveau de mon passé, sont immédiatement en communication avec mon coeur. Et pourtant, parce qu’il y a quelque chose d’individuel dans les lieux, quand me saisit le désir de revoir le côté de Guermantes, on ne le satisferait pas en me menant au bord d’une rivière où il y aurait d’aussi beaux, de plus beaux nymphéas que dans la Vivonne, pas plus que le soir en rentrant – à l’heure où s’éveillait en moi cette angoisse qui plus tard émigre dans l’amour, et peut devenir à jamais inséparable de lui – je n’aurais souhaité que vînt me dire bonsoir une mère plus belle et plus intelligente que la mienne. Non ; de même que ce qu’il me fallait pour que je pusse m’endormir heureux, avec cette paix sans trouble qu’aucune maîtresse n’a pu me donner depuis puisqu’on doute d’elles encore au moment où on croit en elles, et qu’on ne possède jamais leur coeur comme je recevais dans un baiser celui de ma mère, tout entier, sans la réserve d’une arrière-pensée, sans le reliquat d’une intention qui ne fût pas pour moi – c’est que ce fût elle, c’est qu’elle inclinât vers moi ce visage où il y avait au-dessous de l’oeil quelque chose qui était, paraît-il, un défaut, et que j’aimais à l’égal du reste, de même ce que je veux revoir, c’est le côté de Guermantes que j’ai connu, avec la ferme qui est peu éloignée des deux suivantes serrées l’une contre l’autre, à l’entrée de l’allée des chênes ; ce sont ces prairies où, quand le soleil les rend réfléchissantes comme une mare, se dessinent les feuilles des pommiers, c’est ce paysage dont parfois, la nuit dans mes rêves, l’individualité m’étreint avec une puissance presque fantastique et que je ne peux plus retrouver au réveil. Sans doute pour avoir à jamais indissolublement uni en moi des impressions différentes rien que parce qu’ils me les avaient fait éprouver en même temps, le côté de Méséglise ou le côté de Guermantes m’ont exposé, pour l’avenir, à bien des déceptions et même à bien des fautes. Car souvent j’ai voulu revoir une personne sans discerner que c’était simplement parce qu’elle me rappelait une haie d’aubépines, et j’ai été induit à croire, à faire croire à un regain d’affection, par un simple désir de voyage. Mais par là même aussi, et en restant présents en celles de mes impressions d’aujourd’hui auxquelles ils peuvent se relier, ils leur donnent des assises, de la profondeur, une dimension de plus qu’aux autres. Ils leur ajoutent aussi un charme, une signification qui n’est que pour moi. Quand par les soirs d’été le ciel harmonieux gronde comme une bête fauve et que chacun boude l’orage, c’est au côté de Méséglise que je dois de rester seul en extase à respirer, à travers le bruit de la pluie qui tombe, l’odeur d’invisibles et persistants lilas.

Marcel Proust, À la Recherche du temps perdu, Du Côté de Chez Swann, Première partie: Combray

La vita intellettuale

La parte di Méséglise e la parte di Guermantes restano in tal modo legate, per me, a tanti piccoli avvenimenti di quella che fra tutte le diverse vite parallele che noi viviamo è la più piena di peripezie, la più ricca di episodi, voglio dire la vita intellettuale. Certo questa vita progredisce insensibilmente dentro di noi, e delle verità che ai nostri occhi ne hanno cambiato il senso e il volto, che ci hanno aperto nuove strade, preparavamo da molto tempo la scoperta; ma non lo sapevamo, così che esse non risalgono per noi oltre il giorno, il minuto in cui ci sono divenute visibili. I fiori che allora scherzavano sull’erba, l’acqua che scorreva al sole, tutto il paesaggio che contornò la loro apparizione, continua ad accompagnarne il ricordo con il suo volto incosciente o distratto; e, certo, quando erano lungamente contemplati da quell’umile passante, da quel fanciullo sognante – come un re da un memorialista confuso tra la folla -, mai quell’angolo di natura, quel lembo di giardino avrebbero pensato che proprio grazie a lui sarebbero stati chiamati a sopravvivere nelle loro particolarità più effimere; eppure, quel profumo di biancospino che imperversa lungo la siepe dove presto lo sostituiranno le rose di macchia, un rumore di passi senza eco sulla ghiaia d’un viale, la bolla che l’acqua del fiume ha formato contro una pianta acquatica e che subito scoppia, la mia esaltazione li ha presi su di sé ed è riuscita a trasportarli attraverso il succedersi di tanti anni, mentre tutt’intorno le strade sono state cancellate e sono morti quelli che le percorsero e anche il loro ricordo è morto. A volte quella porzione di paesaggio trasportata così fino all’oggi è talmente staccata, talmente isolata da tutto, che fluttua incerta nel mio pensiero, simile a una Delo fiorita, senza ch’io sappia dire da che paese, da che tempo viene – forse, semplicemente, da quale sogno.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

Parte prima: Combray

pp. 223-224

traduzione di Giovanni Raboni

Aussi le côté de Méséglise et le côté de Guermantes restent-ils pour moi liés à bien des petits événements de celle de toutes les diverses vies que nous menons parallèlement, qui est la plus pleine de péripéties, la plus riche en épisodes, je veux dire la vie intellectuelle. Sans doute elle progresse en nous insensiblement et les vérités qui en ont changé pour nous le sens et l’aspect, qui nous ont ouvert de nouveaux chemins, nous en préparions depuis longtemps la découverte ; mais c’était sans le savoir ; et elles ne datent pour nous que du jour, de la minute où elles nous sont devenues visibles. Les fleurs qui jouaient alors sur l’herbe, l’eau qui passait au soleil, tout le paysage qui environna leur apparition continue à accompagner leur souvenir de son visage inconscient ou distrait ; et certes quand ils étaient longuement contemplés par cet humble passant, par cet enfant qui rêvait – comme l’est un roi, par un mémorialiste perdu dans la foule –, ce coin de nature, ce bout de jardin n’eussent pu penser que ce serait grâce à lui qu’ils seraient appelés à survivre en leurs particularités les plus éphémères ; et pourtant ce parfum d’aubépine qui butine le long de la haie où les églantiers le remplaceront bientôt, un bruit de pas sans écho sur le gravier d’une allée, une bulle formée contre une plante aquatique par l’eau de la rivière et qui crève aussitôt, mon exaltation les a portés et a réussi à leur faire traverser tant d’années successives, tandis qu’alentour les chemins se sont effacés et que sont morts ceux qui les foulèrent et le souvenir de ceux qui les foulèrent. Parfois ce morceau de paysage amené ainsi jusqu’à aujourd’hui se détache si isolé de tout, qu’il flotte incertain dans ma pensée comme une Délos fleurie, sans que je puisse dire de quel pays, de quel temps – peut-être tout simplement de quel rêve – il vient.

Marcel Proust, À la Recherche du temps perdu, Du Côté de Chez Swann, Première partie: Combray

I campanili di Martinville

«Soli, ergendosi dal livello della pianura e come sperduti in piena campagna, salivano verso il cielo i due campanili di Martinville. Presto ne vedemmo tre: venendo a collocarsi dinanzi agli altri con un volteggio ardito, un campanile ritardatario, quello di Vieuxvicq, li aveva raggiunti. I minuti passavano, noi viaggiavamo rapidamente e tuttavia i tre campanili restavano sempre in lontananza davanti a noi, come tre uccelli posati sulla pianura, immobili e ben visibili al sole. Poi il campanile di Vieuxvicq si fece da parte, si distanziò, e i campanili di Martinville rimasero soli, illuminati dalla luce del tramonto che anche a quella distanza vedevo giocare e sorridere sui loro tetti scoscesi. Ci avevamo messo tanto ad avvicinarci a loro che io pensavo al tempo che sarebbe occorso per raggiungerli quando, all’improvviso, la carrozza, dopo una svolta ci depositò ai loro piedi; ed essi le si erano parati davanti così bruscamente che avemmo appena il tempo di fermarci per non urtare contro il portico. Proseguimmo il nostro itinerario; avevamo già lasciato Martinville da un po’ di tempo e il villaggio, dopo averci accompagnati per qualche secondo, era già scomparso, quando, rimasti soli all’orizzonte a guardarci fuggire, i suoi campanili e quello di Vieuxvicq agitarono ancora in segno d’addio le loro cime lambite dal sole. A tratti uno si scostava perché gli altri due potessero vederci ancora un istante; ma la strada cambiò direzione, essi virarono nella luce come tre perni dorati e disparvero ai miei occhi. Ma, poco dopo, quando eravamo già nei pressi di Combray e il sole era ormai tramontato, li vidi un’ultima volta da molto lontano, e non somigliavano più che a tre fiori dipinti sul cielo al di sopra della bassa linea dei campi. Mi facevano pensare anche alle tre fanciulle di una leggenda, abbandonate in un luogo solitario quando già scendevano le tenebre; e mentre ci allontanavamo al galoppo, li vidi cercare timidamente il cammino e, dopo qualche maldestro sussulto delle loro nobili figure, serrarsi l’uno contro gli altri, scivolare uno dietro l’altro, non configurare più contro il cielo ancora rosato che un’unica forma nera, incantevole e rassegnata, e dileguarsi nella notte.»

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

Parte prima: Combray

pp. 220-221

traduzione di Giovanni Raboni

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«Seuls, s’élevant du niveau de la plaine et comme perdus en rase campagne, montaient vers le ciel les deux clochers de Martinville. Bientôt nous en vîmes trois : venant se placer en face d’eux par une volte hardie, un clocher retardataire, celui de Vieuxvicq, les avait rejoints. Les minutes passaient, nous allions vite et pourtant les trois clochers étaient toujours au loin devant nous, comme trois oiseaux posés sur la plaine, immobiles et qu’on distingue au soleil. Puis le clocher de Vieuxvicq s’écarta, prit ses distances, et les clochers de Martinville restèrent seuls, éclairés par la lumière du couchant que même à cette distance, sur leurs pentes, je voyais jouer et sourire. Nous avions été si longs à nous rapprocher d’eux, que je pensais au temps qu’il faudrait encore pour les atteindre quand, tout d’un coup, la voiture ayant tourné, elle nous déposa à leurs pieds ; et ils s’étaient jetés si rudement au-devant d’elle, qu’on n’eut que le temps d’arrêter pour ne pas se heurter au porche. Nous poursuivîmes notre route ; nous avions déjà quitté Martinville depuis un peu de temps et le village après nous avoir accompagnés quelques secondes avait disparu, que restés seuls à l’horizon à nous regarder fuir, ses clochers et celui de Vieuxvicq agitaient encore en signe d’adieu leurs cimes ensoleillées. Parfois l’un s’effaçait pour que les deux autres pussent nous apercevoir un instant encore ; mais la route changea de direction, ils virèrent dans la lumière comme trois pivots d’or et disparurent à mes yeux. Mais, un peu plus tard, comme nous étions déjà près de Combray, le soleil étant maintenant couché, je les aperçus une dernière fois de très loin qui n’étaient plus que comme trois fleurs peintes sur le ciel au-dessus de la ligne basse des champs. Ils me faisaient penser aussi aux trois jeunes filles d’une légende, abandonnées dans une solitude où tombait déjà l’obscurité ; et tandis que nous nous éloignions au galop, je les vis timidement chercher leur chemin et après quelques gauches trébuchements de leurs nobles silhouettes, se serrer les uns contre les autres, glisser l’un derrière l’autre, ne plus faire sur le ciel encore rose qu’une seule forme noire, charmante et résignée, et s’effacer dans la nuit.»

Marcel Proust, À la Recherche du temps perdu, Du Côté de Chez Swann, Première partie: Combray