L’esagerato Capote e l’immenso Proust

Truman Capote Biography - eNotes.com

“Il 5 gennaio 1966 Truman Capote firmò un contratto con la Random House per la pubblicazione di Preghiere esaudite (Answered Prayers), un romanzo che avrebbe dovuto descrivere i ricchi dell’alta società e della cafè society d’America. L’anticipo fu di 25.000 dollari e la data di consegna fu inizialmente concordata per il 1° gennaio 1968. Nel proporre l’opera, Capote affermò di voler scrivere la propria versione americana e moderna della Recherche di Marcel Proust. Ma quanto realmente Capote conosceva Proust e la sua opera e quanto, invece, pensava di esserne conoscitore?

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Tralasciando l’impatto devastante che Preghiere esaudite ha avuto sulla vita e sull’opera di Capote, torniamo alla prima domanda: quanto di Proust c’è in questo romanzo? La risposta è: poco.

Prima di addentrarsi in un’analisi comparata fra l’ultima opera di Truman Capote e il capolavoro di Proust, però, può essere interessante constatare quanto lo scrittore francese sia presente, e citato, o anche semplicemente quanto venga nominato en passant dal collega americano.

Scandagliando l’epistolario di Capote, È durata poco la bellezza, la presenza di Proust è paragonabile a quella di una comparsa: Capote lo nomina una sola volta in una lettera a Donald Windham datata 18 agosto 1958 e in questi termini: «Ho appena finito di leggere Ancora una notte, l’ultimo di Chandler in cui Ph. Marlowe si sposa. Ora sono tornato a Proust». Non un riferimento al romanzo che stava leggendo, non un accenno a qualche aspetto che gli interessasse o che lo affascinasse: viene quasi da pensare che lo abbia citato per non citare qualcun altro.

Se la quasi totale assenza di Proust nelle lettere di Capote non dovesse bastare a instillare il dubbio nel lettore – dopotutto Ezra Pound, a cui Capote dedicò uno splendido ritratto nel 1959, non viene mai nominato –, occorre constatare che questa assenza persiste anche negli scritti di carattere saggistico: tralasciando il fatto che a Proust non viene dedicato mai né un ritratto né uno scritto qualsiasi (cosa molto strana, visto che Capote era solito scrivere di ciò che amava e, a suo dire, amava Proust), la sua presenza, oltretutto, si riduce al semplice riferimento estemporaneo e fine a sé stesso o al cliché letterario (come «per me la dolcezza della rabbia della tromba di Armstrong e l’esuberanza delle sue smorfie da ranocchio sono una delle madeleines di Proust»), oppure è relegata in liste di autori letti, senza però che venga mai approfondito cosa di loro sia stato letto né quando.

Lo stesso accade nelle interviste, dove Proust viene nominato solo come modello o come scrittore ammirato, senza però che Capote entri mai nel merito di questa ammirazione. La prima volta che Capote menziona Proust come scrittore amato risale al 1948: si tratta di un’intervista concessa a Selma Robinson per il «Sunday Magazine»; in questo caso, Capote afferma che ama «some of Proust», senza ovviamente specificare niente di più.

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Se queste apparizioni sporadiche e quasi meccaniche di Proust tra le parole di Capote non bastassero a far già capire che la conoscenza di quest’ultimo era, in realtà, scarsa e labile, ci pensò Gore Vidal a sgombrare il campo da qualsiasi dubbio:

Truman era convinto che Proust avesse accumulato pettegolezzi sull’aristocrazia e ne avesse fatto letteratura. Si aggrappava a questa fantasia. Ma non aveva mai letto Proust. Una volta lo interrogai abbastanza severamente sull’argomento. Era incapace di leggere Proust: non possedeva quel tipo di concentrazione e, chiaramente, non sapeva il francese né aveva interessi storici. Non si rendeva conto che, sebbene Proust scrivesse di un mondo realmente esistito, non era assolutamente un mondo da café society. Era un mondo, un grande mondo […] di cui aveva fatto qualcosa di straordinario. Truman credeva che spettegolando sulla gente famosa e su come Mona Williams, per esempio, venisse da una famiglia di allenatori di cavalli di Lexingron, si ottenesse una storia da raccontare. Ma non conosceva neppure quel mondo abbastanza bene da scriverne. Per essere uno scrittore nella linea di Proust o, perché no, di James o di Louis Auchincloss, devi conoscere i tuoi personaggi. Lui in realtà non imparava mai nulla, il che mi lasciava sorpreso. Faceva sempre confusione. Non sapeva la differenza tra alta società e café society, una divisione esistente a quei tempi e sulla quale Proust avrebbe tessuto una ragnatela scintillante. Pensava che tutti fossero come lui: fasulli, arrampicatori, maligni.

Tralasciando le cattiverie gratuite di Vidal su Capote (i due si odiavano e non hanno mai nascosto l’antipatia reciproca, offendendosi pubblicamente in ogni occasione possibile), il punto è centrato: Capote non conosceva Proust, o almeno non lo conosceva abbastanza bene da poterlo prendere come modello. È probabile che Vidal sbagli nel dire che non l’aveva mai letto, ma è certo che la sua lettura della Recherche era stata approssimativa e totalmente priva di una base critica. Ciò che Capote ha preso da Proust l’ha preso da una sua personalissima idea di Proust che poco ha a che vedere con quello vero.

Nonostante la scarsa conoscenza che Capote aveva di Proust, comunque esistono dei punti in comune tra l’ultima opera di Capote e la Recherche.

Se prendiamo in esame i narratori delle due opere (P. B. Jones per Capote, Marcel per Proust), ci accorgiamo di alcune affinità evidenti: sono entrambi omodiegetici e raccontano di un’élite sociale: la high society e la café society americana nel caso di Jones, l’alta società francese (il “monde”) per Marcel. Se questo è un punto d’incontro tra i due autori, Capote cambia subito qualcosa rispetto a Proust: il suo P. B. Jones non è solo narratore dei fatti accaduti, ma è anche il protagonista assoluto del romanzo, la causa di tutti gli eventi, il fulcro della storia, cosa che non si può certo dire del Marcel proustiano, quasi uno spettatore dei fatti accaduti che talora partecipa ai fatti narrati, ma perlopiù si limita a raccontarli; è parte della storia, non è il perno su cui su basano tutti gli eventi narrati nella Recherche. Inoltre, P. B. Jones è palesemente ispirato a Capote: pur non essendo una diretta trasposizione letteraria dell’autore, ne condivide l’aspetto, gli atteggiamenti e tutte le conoscenze accumulate attraverso anni di frequentazioni e amicizie altolocate. Al contrario, non è così semplice definire Marcel. Ha scritto, infatti, Citati:

Il narratore, questo uomo senza nome e cognome, questo essere nullo, questo ragazzo goffo e infantile, non ha niente a che fare con Proust. Nessuno potrebbe confondere la vita tragica di Proust con questa vita amorfa e spettrale, sempre ai confini dell’inesistenza; e credere che la voce eloquente, sarcastica, immaginosa dell’ambiente di boulevard Haussmann abbia qualcosa a che fare con la timida e silenziosa voce del Narratore. C’è una prova evidente. Il Narratore sembra non scrivere mai: non lo sorprendiamo mai con in mano una penna; come lo accusa Charlus, è colpevole di procrastinazione. […] Subito dopo, dobbiamo dare la risposta opposta, senza dimenticare la prima. Il Narratore è Proust. Porta il suo nome, Marcel, che gli attribuisce due volte, a voce e per iscritto, Albertine. Condivide esperienze archetipiche della sua vita […]. Marcel è un personaggio antichissimo, che porta sulla spalle almeno diciassette secoli di letteratura, e coincide con una larga parte della storia del romanzo. Marcel è Lucio, l’eroe delle Metamorfosi: Wilhelm Meister, l’eroe dei Lehrjahre di Goethe; e molti altri personaggi, che discendono da loro. […] Una delle loro funzioni essenziali è quella di diventare lo specchio, dove si riflette la colorata realtà del romanzo. […] Marcel è passivo perché deve essere un lago vuoto che riceve ogni specie di esperienze: uno specchio dove tutto il mondo possa riflettersi; un testimone onnipresente, capace di spiare dietro le porte tutto ciò che accade e di ascoltare tute le parole che i personaggi pronunciano. […] Marcel, nella Recherche, non parla quasi mai: per lo più le sue domande sono delle didascalie, abbastanza sciocche.

In questa descrizione Citati coglie tutta la complessità del narratore della Recherche. Se paragonato alla “semplicità” di P. B. Jones – sicuro di sé, narcisista, spigliato, arrampicatore sociale, animato da un costante desiderio di affermarsi come scrittore –, Marcel è veramente un archetipo letterario più che un semplice narratore, cosa che non è possibile dire del personaggio creato da Capote, troppo legato ad aspetti biografici del suo autore per potersi smarcare da lui e aspirare all’universalità.

Lo stesso punto di vista è differente, questo anche a causa dell’esperienza biografica dei due scrittori: se Proust racconta di una società agiata di cui egli stesso faceva parte sin dall’infanzia, e che quindi conosceva benissimo, Capote decide di parlare di persone con cui era entrato in contatto solo a partire da un certo punto della sua vita e verso le quali provava un misto di ammirazione e invidia; inoltre, le sue conoscenze della high e della café society si riducevano a pettegolezzi, storie e racconti vissuti o, spesso, sentiti raccontare. Il Marcel di Proust, quindi, non solo risulta più sfaccettato e complesso come narratore, ma possiede una voce nettamente più efficace e credibile di quella di P. B. Jones, troppo spesso ricalcato sullo stesso Capote e sul suo desiderio di stigmatizzare e castigare i ricchi che frequentava attraverso pettegolezzi carpiti in anni e anni. Questa volontà castigatoria, inoltre, in Proust non è presente. Il suo racconto della nobiltà francese non mira a ridicolizzarla; Capote, invece, intendeva espressamente mostrare la vacuità dei ricchi di cui scriveva.

Altro aspetto che lega Capote a Proust è certamente il tema dell’omosessualità. Preghiere esaudite è il romanzo più esplicitamente omosessuale di tutta la sua produzione; l’orientamento sessuale di P. B. Jones è chiaro al lettore sin da subito:

Sin dalla più tenera età, a sette o otto anni, avevo fatto di tutto con molti ragazzi più grandi, con qualche prete e anche con un bel giardiniere negro. Ero in effetti una sorta di marchetta da tavoletta Hershey: non erano molte le cose che non fossi disposto a fare per due soldi di cioccolata.

Spregiudicato, sfrontato, caratterizzato da un certo cattivo gusto e da un gergo volutamente scurrile; e questa è solo la prima di tante esternazioni di P. B. Jones. L’omosessualità non è mai celata nel romanzo di Capote, sia nel caso del protagonista sia in quello di altri personaggi (Boatwright, Fouts, il signor Wallace ecc.).

[…]

Contrariamente ad altre opere dove la bisessualità e l’omosessualità non erano presenti o erano a malapena accennate, in Preghiere esaudite Capote decide di usare l’omosessualità e la bisessualità come uno dei fulcri della vicenda. Lo stesso non si può ovviamente dire di Proust. Nella Recherche, infatti, l’omosessualità è sì presente, ma non è così centrale nel racconto. Anzi, il personaggio più smaccatamente omosessuale dell’opera, il Barone di Charlus, è un personaggio molto difficile da definire, a metà tra maschera comica e personaggio tragico a cui toccano in sorte molte sofferenze, ma queste stesse sofferenze, di cui si lamenta in continuazione, lo portano a ridiventare una macchietta ridicola, come sottolinea Stefano Brugnolo:

[Charlus] è dotato di un’altissima coscienza di classe, solo che diversamente dalla principessa pretenderebbe che questa sua supremazia venisse riconosciuta anche da quegli individui che lo attraggono sessualmente e che però sono del tutto insensibili al suo prestigio aristocratico. Ne deriva che il barone è continuamente costretto a ricordare loro chi sia, e a pretendere una dedizione che in realtà poi non può ottenere se non con il denaro. Ciò lo espone al ridicolo ma lo rende anche figura patetica.

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Se Charlus è a tutti gli effetti una tante, quello che Burroughs avrebbe definito queer (e che in italiano trova il corrispettivo nell’ancora più volgare “checca”), Proust non dà giudizi morali, anzi mostra il destino sfortunato di questi uomini «meno contraddittori di quel che non sembrino», pur portando argomentazioni che oggi possono apparirci vetuste e stereotipate. Pur essendo, dunque, più complessa la rappresentazione omosessuale di Proust, con tutte le sue contraddizioni, rispetto a quella di Capote, si può affermare che i due scrittori non differiscano nella sostanza: non c’è giudizio morale e non c’è colpevolizzazione; c’è semmai, nel caso di Proust, una sorta di ambiguità rispetto all’omosessualità, forse una specie di reticenza a trattare un tema ancora tabù ai suoi tempi, reticenza che ovviamente Capote non ha, visto che fra la Recherche e Preghiere esaudite la tematica omosessuale era stata ampiamente sdoganata da altri autori.

Un altro aspetto che Capote non ha considerato della Recherche è quello politico. Pur essendo apparentemente un’opera non di stampo politico, il romanzo di Proust è punteggiato da continue allusioni a vari personaggi esistenti e a eventi di cronaca, uno su tutti l’affaire Dreyfus, sua vera e propria ossessione. L’affaire viene utilizzato da Proust non tanto per parlare dell’evento in sé, quanto per mostrare le posizioni prese nei vari salotti parigini; attraverso un fatto di cronaca noto al mondo intero (forse il primo grande caso politico a diventare un caso mediatico globale), Proust tratteggia pensieri, pose e posizioni politiche e ideologiche di una classe sfaccettata e varia come la nobiltà francese. Questo aspetto è assente in Preghiere esaudite, dove l’attualità americana non solo è quasi del tutto ignorata, ma – in quei rari casi in cui viene raccontata – è per di più ridotta a chiacchiericcio e pettegolezzo (il caso della Woodward). Non ci sono riferimenti alla scena politica, sebbene Capote avesse avuto la possibilità di ottenere informazioni su vari personaggi politici nazionali e internazionali; anzi, tutto viene raccontato come fosse un continuo chiacchiericcio, il che finisce con lo svilire ogni racconto (non come nel caso di A sangue freddo, dove tutto è documentato in modo meticoloso e preciso da Capote, che non appare mai nel romanzo e che nasconde la propria voce dietro quella di un narratore impersonale e onnisciente).

In conclusione, è possibile affermare che Truman Capote non abbia realmente compreso la profondità e la complessità dell’opera di Marcel Proust, ma che, per il suo Preghiere esaudite, si sia limitato ad accostare il proprio nome a quello del grande autore francese più per dar lustro al proprio prestigio personale e per via di una visione semplicistica della Recherche – da lui vista come un gigantesco romanzo sui ricchi francesi – che in virtù di una vera e propria affinità. A Preghiere esaudite mancano, infatti, troppi elementi e troppe dinamiche perché la si possa definire una versione americana dell’opera proustiana. Ciononostante, non è possibile dire con certezza che Capote non conoscesse affatto l’opera di Proust, dato che alcuni aspetti del suo ultimo romanzo muovono da intuizioni che Proust ha avuto o da tematiche che ha trattato. Forse, il giorno in cui verrà ritrovato il manoscritto completo, potremo dire che davvero Capote aveva scritto una personale rivisitazione della Recherche, ma ad oggi, sulla base dei tre capitoli pubblicati possiamo solo constatare che paragonare Preghiere esaudite all’opera di Proust è stata l’ennesima esagerazione di Truman Capote.” Francesco Merciai

Versione integrale dell’articolo qui.

Marcel Proust – Centenario della scomparsa | Ettore Viola

Sulla Recherche

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À la recherche du temps perdu è la storia di una società e dei suoi meccanismi; è la storia di un Io che ritrova la pienezza di sé sull’orlo dell’estrema perdizione; ed è la storia di come le parole disposte in frasi possano modellare le cose più evanescenti lasciandosi impregnare da esse. In Proust ci sono più stili al lavoro, al punto da far sembrare a tratti che a scrivere la Recherche sia stato un gruppo e non un individuo. Lo stile non è unico: Proust sa essere secco e crudele, poi liberty e sinuoso, poi ironico e comico, poi oppiaceo e floreale, poi teoretico e acuminato, poi sociale e sociologico: e bisognerà assecondare senza resistenze questo moto sussultorio che percorre la Recherche, questo miscuglio inestricabile e spesso sfalsato e trascolorante in cui la massima evidenza sensibile e la massima asprezza concettuale si intrecciano, questo allargarsi dell’onda in un maroso immane che un attimo dopo può ridursi a un solo fiocco di spuma che ritorna acqua trasparente e poi cupa e poi ricomincia a formare onde e spume. Bisognerebbe entrare in Proust con attenzione: quel tessuto mobile di frasi chiede che tutti i sensi siano allertati e le facoltà siano sveglie, ma allo stesso tempo chiede alla svegliezza di scendere in un liquido amniotico della percezione psichica, in un buio denso di fosforescenza: qualcosa che è necessario assorbire con i pori, nel sonno e nel sogno, come gli odori di un corpo amato. E bisognerà leggere tutto, perché i dettagli sono in Proust il luogo in cui si concentra il fuoco della lente, un microcosmo che racchiude un macrocosmo: ma bisognerà anche imparare a non lasciarsi sopraffare dal dettaglio. Sarebbe necessario modellare se stessi come gli ascoltatori di una musica molto complessa, quel genere di musica che si volge e si svolge e ritorna da dove era iniziata ma con riflessi nuovi dai quali ricomincia, come la musica di Wagner: e conservare nella memoria l’eco di ciò che è accaduto prima mentre accade qualcosa ora, per ritrovarlo e risentirlo, potenziato fino all’insostenibile trecento o mille pagine dopo: solo allora il dettaglio brillerà della sua vera luce, solo chi non avrà cancellato dalla memoria il sussurrare di armonici del Longtemps con cui si apre la Recherche sentirà fino alla feccia e all’esaltazione il Temps su cui si arresta e si prolunga come su un cupo colpo di timpani il viaggio alla ricerca del sé perduto. Ma la Recherche è anche, e forse soprattutto, una immensa spettrografia dei rapporti sociali nell’era della Modernità: un modello di analisi di relazioni oppressive e sfruttamento dell’altro, di parassitismo psichico e di violenza interiore, di aggressività travestita da civilizzazione. In Proust non c’è nemmeno un grammo di sentimentalismo, ma sempre il microscopio aperto su sensi e sentimenti; e c’è il salotto, ma un salotto in cui dietro il chiacchiericcio la società porta avanti una guerra intestina in cui la sopraffazione tra gli individui giunge al culmine; e in Proust c’è, ossessivo e presente l’amore: ma come un evento che non è una facile soluzione, ma è l’inizio di un enigmatico e fascinoso problema, in cui si scontrano la fisiologia e ciò che si definisce cultura. Proust parla della trama sociale in cui l’individuo conta per ciò che possiede e per come appare, e ricostruisce il meccanismo della violenza coercitiva del vivere con gli altri secondo una visione che a Sartre faceva dire «l’inferno, sono gli altri»: quel meccanismo è vivisezionato da Proust con lucidità estrema, ma anche con l’ambigua sospensione che impedisce alla lucidità di diventare totalitaria, distruggendo così le complessità dell’oggetto reale. Nell’intransigente Maestro della Recherche non c’è nessun estetismo d’accatto o culto della «bellezza», sotto il cui orpello gli scrittori piccolo-borghesi mascherano il loro sentimentalismo cinico, e per saperlo basterebbe ascoltare il Maestro Marcel par luimême: «Accade così per tutti i grandi scrittori: la bellezza delle loro frasi è imprevedibile, come la bellezza d’una donna che ancora non conosciamo; è creazione, perché si applica a un oggetto esterno cui essi pensano – invece che a se stessi – e che ancora non hanno espresso…»

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Ma chi tra gli esseri umani normali a cui quest’epoca sbriciola e rende affannoso il Tempo ha davvero la possibilità di leggere Proust? Non una o cento pagine: qui si tratta di divorare e di essere divorati dalle tremila pagine dell’oggetto misterioso che si intitola Á la recherche du temps perdu. Ma come fare! Per leggere Proust ci vorrebbe una di quelle febbri intense, che si portano dietro una lunga convalescenza in cui l’intelligenza e la sensibilità sono sveglissime, ma il corpo ha la scusa di essere sedentario; e forse non servirebbe la stanza foderata di sughero dell’asmatico e nevrotico Marcel, ma almeno sarebbe necessaria una stanza non devastata dal rumore dei vicini e dell’universo; e senza alcun dubbio bisognerebbe avere quella pazienza innamorata che forse non possiamo più concedere né a noi stessi né a qualsiasi altro essere, vivente o no che sia, e quella concentrazione che fa il vuoto e il silenzio anche in una folla. E allora, mentre decliniamo e perdiamo sensibilità, dovremmo aspettare che la fortuna ci regali tempo e agio? No, non possiamo aspettare le condizioni perfette, né per leggere Proust né per qualsiasi altra cosa: così lastricheremmo solo di buone intenzioni la strada della rassegnazione mortuaria. E allora si legga e si viva come si può: mezz’ora al giorno, dimenticando tutto; mezz’ora, come una preghiera; mezz’ora, aprendo un vortice nell’ottusità delle abitudini. Non è sempre così che è possibile vivere? Allora su, un ampio respiro, e dentro, nella lettura, là dove forse comincia la vita vera.

Giuseppe Montesano

Rievocando Combray

È così che, spesso, indugiavo fino al mattino a rievocare il tempo di Combray, le mie tristi sere senza sonno, i tanti giorni, anche, la cui immagine mi era stata di recente restituita dal sapore – che a Combray si sarebbe chiamato il “profumo” – di una tazza di tè e, per associazione di ricordi, quanto avevo appreso, molti anni dopo aver lasciato quella piccola città, intorno a un amore che Swann aveva avuto prima che io nascessi, con quella precisione di dettagli che risulta più facile da ottenere, a volte, per la vita di persone morte da secoli che non per le vicende dei nostri migliori amici, e che sembra impossibile come sembrava impossibile parlare da una città a un’altra – finché si ignora il trucco grazie al quale l’impossibilità è stata aggirata. Tutti quei ricordi sovrapposti gli uni agli altri formavano ormai una massa, ma questo non impediva di distinguere fra loro – fra i più antichi e i più recenti, nati da un profumo, e poi quelli che erano soltanto i ricordi di un’altra persona, dalla quale li avevo raccolti – se non delle fessure, delle faglie vere e proprie, almeno quelle venature, quelle screziature di colorazione che in certe rocce, in certi marmi, rivelano differenze d’origine, d’età, di “formazione”.

Certo, quando s’avvicinava il mattino la breve perplessità del mio risveglio era da tempo dissipata. Sapevo in quale camera mi trovavo realmente, l’avevo ricostruita intorno a me nell’oscurità e – orientandomi con la sola memoria, oppure servendomi, come indicazione, d’un debole chiarore che era filtrato e in base al quale sistemavo le tende della finestra – l’avevo ricostruita per intero, arredandola come un architetto e un tappezziere decisi a rispettare le aperture originarie di porte e finestre, riabbassando gli specchi, riportando il cassettone al suo solito posto. Ma appena il giorno – e non, da me scambiato prima per il giorno, il riflesso di un’ultima brace su una bacchetta di rame – tracciava nell’oscurità, come col gesso, la sua prima riga bianca e rettificatrice, la finestra con le sue tende lasciava subito il vano della porta dove l’avevo situata per errore mentre, per farle posto, lo scrittoio, installato là maldestramente dalla mia memoria, scappava velocissimo spingendo davanti a sé il camino e spostando il muro divisorio del corridoio; dove, un istante prima, si stendeva la stanza da bagno, regnava ora un cortiletto, e la casa che avevo ricostruita nelle tenebre  era andata a raggiungere le case intraviste nel turbine del risveglio, messa in fuga dal pallido segno tracciato sulle tende dal dito levato del giorno.

Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann

Parte prima: Combray

pp. 226-227

traduzione di Giovanni Raboni

֎

C’est ainsi que je restais souvent jusqu’au matin à songer au temps de Combray, à mes tristes soirées sans sommeil, à tant de jours aussi dont l’image m’avait été plus récemment rendue par la saveur – ce qu’on aurait appelé à Combray le « parfum » – d’une tasse de thé, et par association de souvenirs à ce que, bien des années après avoir quitté cette petite ville, j’avais appris, au sujet d’un amour que Swann avait eu avant ma naissance, avec cette précision dans les détails plus facile à obtenir quelquefois pour la vie de personnes mortes il y a des siècles que pour celle de nos meilleurs amis, et qui semble impossible comme semblait impossible de causer d’une ville à une autre – tant qu’on ignore le biais par lequel cette impossibilité a été tournée. Tous ces souvenirs ajoutés les uns aux autres ne formaient plus qu’une masse, mais non sans qu’on ne pût distinguer entre eux – entre les plus anciens, et ceux plus récents, nés d’un parfum, puis ceux qui n’étaient que les souvenirs d’une autre personne de qui je les avais appris – sinon des fissures, des failles véritables, du moins ces veinures, ces bigarrures de coloration, qui dans certaines roches, dans certains marbres, révèlent des différences d’origine, d’âge, de « formation ».

Certes quand approchait le matin, il y avait bien longtemps qu’était dissipée la brève incertitude de mon réveil. Je savais dans quelle chambre je me trouvais effectivement, je l’avais reconstruite autour de moi dans l’obscurité, et – soit en m’orientant par la seule mémoire, soit en m’aidant, comme indication, d’une faible lueur aperçue, au pied de laquelle je plaçais les rideaux de la croisée – je l’avais reconstruite tout entière et meublée comme un architecte et un tapissier qui gardent leur ouverture primitive aux fenêtres et aux portes, j’avais reposé les glaces et remis la commode à sa place habituelle. Mais à peine le jour – et non plus le reflet d’une dernière braise sur une tringle de cuivre que j’avais pris pour lui – traçait-il dans l’obscurité, et comme à la craie, sa première raie blanche et rectificative, que la fenêtre avec ses rideaux, quittait le cadre de la porte où je l’avais située par erreur, tandis que pour lui faire place, le bureau que ma mémoire avait maladroitement installé là se sauvait à toute vitesse, poussant devant lui la cheminée et écartant le mur mitoyen du couloir ; une courette régnait à l’endroit où il y a un instant encore s’étendait le cabinet de toilette, et la demeure que j’avais rebâtie dans les ténèbres était allée rejoindre les demeures entrevues dans le tourbillon du réveil, mise en fuite par ce pâle signe qu’avait tracé au-dessus des rideaux le doigt levé du jour.

Marcel Proust, À la Recherche du temps perdu, Du Côté de Chez Swann, Première partie: Combray