ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

Françoise intuiva la mia felicità


E, cambiando ad ogni istante paragone via via che mi raffiguravo meglio, e più materialmente, l'impresa cui mi sarei dedicato, pensavo che sul mio grande tavolo di legno bianco, guardato da Françoise, giacché tutti gli esseri senza pretese che ci vivono accanto riescono in qualche modo a intuire i nostri compiti (e avevo abbastanza dimenticato Albertine per perdonare a Françoise quanto d'ostile le aveva fatto), avrei lavorato vicino a lei e quasi come lei (almeno come lei lavorava un tempo: adesso, così vecchia, non vedeva più niente); infatti, spillando qua e là un foglietto supplementare, avrei costruito il mio libro, non oso dire ambiziosamente come una cattedrale, ma semplicemente come un vestito. Quando non avessi avuto accanto a me tutta la mia carterìa, come diceva Françoise, e mi fosse mancato proprio il foglio di cui avessi bisogno, Françoise avrebbe capito bene il mio nervosismo, lei che diceva sempre di non poter cucire se non aveva il numero di fili e i bottoni che ci volevano. E poi perché, a forza di vivere della mia vita, si era fatta del lavoro letterario una sorta di comprensione istintiva, più precisa di quella di tante persone intelligenti e, a maggior ragione, di quella degli stupidi. Così quando, un tempo, avevo fatto il mio articolo per il "Figaro", mentre il vecchio maggiordomo, con quel genere di compassione che accentua sempre un po' i lati penosi di un lavoro che non si pratica, che nemmeno si concepisce (e anche di un'abitudine che non si ha, come quelli che dicono: "Chissà come vi stanca starnutire così"), commiserava sinceramente gli scrittori dicendo: "Dev'essere un vero rompicapo", Françoise, al contrario, intuiva la mia felicità e rispettava il mio lavoro. Si seccava soltanto che raccontassi in anticipo il mio articolo a Bloch, temendo che mi precedesse, e dicendo: "Tutta quella gente, vi fidate troppo, sono dei copioni". E Bloch si procurava, in effetti, un alibi retrospettivo dicendomi, ogni volta che gli accennavo qualcosa che gli sembrava buono: "Toh, che strano, ho fatto qualcosa di abbastanza simile, bisognerà che te lo legga". (Ancora non avrebbe potuto leggermelo, ma l'avrebbe scritto la sera stessa).

Marcel Proust, Il Tempo ritrovato

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori