ALLA RICERCA DEL TEMPO PERDUTO

La Chiesa di Combray


Intanto che la zia conversava così con Françoise, io accompagnavo i miei genitori a messa. Come l'amavo, e con quanta chiarezza la rivedo, la nostra Chiesa! Il vecchio portico dal quale entravamo, nero, butterato come un colabrodo, aveva gli angoli deviati e profondamente smangiati (non diversamente dall'acquasantiera verso la quale ci conduceva) come se il dolce sfioramento dei mantelli dei contadini che entravano in chiesa e attingevano con timide dita l'acqua benedetta avesse acquistato, ripetendosi nei secoli, una forza distruttiva, capace di curvare la pietra e di incidervi dei solchi simili a quelli che la ruota d'un carretto traccia sul cippo di confine andandovi a urtare giorno dopo giorno. Anche le sue pietre tombali*, sotto le quali la nobile polvere degli abati di Combray, colà sepolti, faceva da pavimento spirituale al coro, non erano più materia inerte e dura, giacché il tempo le aveva rese tenere e fatte colare come miele al di fuori del loro tracciato ortogonale con un fiotto biondo e sbordante che aveva trascinato alla deriva una maiuscola gotica fiorita o annegato le bianche violette di marmo; altrove, invece, esse si erano come riassorbite al di qua dei propri limiti contraendo ancora di più l'ellittica iscrizione latina, introducendo un altro capriccio nella disposizione dei suoi caratteri abbreviati, avvicinando due lettere di una parola nella quale le altre erano state smisuratamente distanziate. Le vetrate non erano mai tanto cangianti come nei giorni in cui il sole non si faceva quasi vedere, di modo che, quando fuori era grigio, si era sicuri che in chiesa ci sarebbe stato il bel tempo**; una era riempita in tutta la sua grandezza da un solo personaggio, simile a un re delle carte da gioco, che viveva lassù, sotto un baldacchino di pietra, fra cielo e terra (e nel cui riflesso obliquo e azzurro, durante la settimana, a mezzogiorno, quando non c'è funzione - uno di quei rari momenti in cui la chiesa vuota e arieggiata, più umana, lussuosa, con raggi di sole sul suo ricco mobilio, aveva un aspetto quasi abitabile, come la hall, di pietra scolpita e vetro dipinto, d'un albergo in stile medievale - si vedeva a volte Madame Sazerat inginocchiarsi un attimo, posando sull'inginocchiatoio vicino un pacchetto ben confezionato di pasticcini appena acquistati nel negozio di fronte, da portare a casa per colazione); da un'altra parte, una montagna di neve rosa, ai cui piedi era in corso una battaglia, sembrava aver spruzzato direttamente la vetrata alla quale dava corpo con il suo torbido nevischio, rendendola simile a una finestra sulla quale fossero rimasti dei fiocchi di neve, ma come rischiarati da un'aurora (la stessa, senza dubbio, che imporporava il retablo dell'altare con toni così freschi da far pensare che fossero stati posati là per un istante da qualche chiarore esterno ed effimero più che da colori fissati per sempre  alla pietra); e così antiche erano tutte, che qua e là si vedeva la loro età venerabile e argentata scintillare della polvere dei secoli e mostrare, brillante e logora fino alla corda, la trama del loro dolce arazzo vetroso. Una era una specie di alto casellario formato da un centinaio di piccoli pannelli rettangolari il cui colore dominante era l'azzurro, simile a quei giochi di carte che dovevano svagare il re Carlo VI; ma bastava che un raggio brillasse, oppure che il mio sguardo muovendosi, facesse scorrere attraverso la vetrata, via via spenta e riaccesa, un prezioso incendio mobile, perché un istante dopo essa assumesse lo splendore cangiante dello strascico d'un pavone, per poi tremare e ondeggiare in una pioggia fiammeggiante e fantastica che colava dall'alto della volta oscura e rocciosa lungo le pareti umide, come se al seguito dei miei genitori che portavano in mano i loro messali io fossi penetrato nella navata di qualche grotta iridata di sinuose stalattiti; ancora un istante, e le piccole vetrate a losanga acquistavano una trasparenza profonda, un'infrangibile durezza come di zaffiri giustapposti su un immenso pettorale dietro i quali si sentisse tuttavia, più amato di queste ricchezze, un sorriso brevissimo di sole, riconoscibile tanto nel fiotto azzurro e dolce in cui immergeva i gioielli quanto sul selciato della piazza o sulla soglia del mercato; anche nelle nostre prime domeniche, quando s'arrivava prima di Pasqua, esso mi consolava del fatto che la terra fosse ancora nuda e nera facendo sbocciare, come in una primavera storica che risaliva ai successori di San Luigi, quell'arazzo abbagliante e dorato di miosotidi di vetro [...] Tutto questo ne faceva, per me, qualcosa di completamente diverso dal resto della città: un edificio che occupava, per così dire, uno spazio a quattro dimensioni (la quarta era quella del Tempo) e che, dispiegando attraverso i secoli la sua navata, sembrava aver varcato e sconfitto, di campata in campata, di cappella in cappella, non solo qualche metro, ma epoche successive, dalle quali usciva in trionfo.

[Marcel Proust, Alla Ricerca del tempo perduto, Dalla parte di Swann, traduzione di Giovanni Raboni, I Meridiani Mondadori ] pp. 72-73-74

*Cfr. Painter, p. 451: "Tra le rovine dell'abbazia di Jumièges Proust vide la cripta merovingia e il pavimento delle tombe degli abbati, e trasferì l'una e l'altro a Saint-Hilaire".

**In una lettera a Mme Straus, datata da Philip Kolb alla fine di settembre o all'ottobre del 1907, Proust racconta una sua visita alla cattedrale di Évreux: "una cattedrale [...] con belle vetrate che riuscivano a essere luminose anche nell'ora crepuscolare in cui le ho viste, in una giornata grigia, sotto un cielo plumbeo. Alla stanchezza di un giorno che fin dal mattino era stato somigliante alla notte, e che stava per cederle il posto, quelle vetrate riuscivano a rubare dei gioielli di luce, una porpora scintillante, zaffiri pieni di fuoco: era inaudito".

Abbazia di Jumièges

Cattedrale di Évreux