Sugli sdoppiamenti giovanili

Signore,

stamane ci parlavate dei giovani che troppo presto acquisiscono cattive abitudini mentali, per dirla in breve si sdoppiano, e non riescono a fare o pensare nulla senza che la loro coscienza studi o/e analizzi questi atti e questi pensieri. Credo che mi scuserete se, vostro allievo da soli due giorni, mi prendo la libertà di chiamarvi per così dire a consulto morale. Ho concepito una tale ammirazione per voi che provo l’irresistibile bisogno di chiedervi un importante consiglio prima di cominciare lo studio della filosofia. Parlavate così bene di questa malattia che, non fosse stato per la presenza dei miei compagni, quasi non avrei potuto impedirmi di chiedervi quale potrebbe essere il rimedio.

Quando ho cominciato, pressappoco a quattordici o quindici anni, a raccogliermi in me e a studiare la mia vita interiore, non è stata davvero una sofferenza, anzi. In seguito, verso i sedici anni, la cosa è diventata insopportabile, soprattutto fisicamente. Mi procurava un’estrema stanchezza, una sorta d’ossessione. Adesso non è più così. Essendo la mia salute, un tempo molto cagionevole, diventata quasi buona, ho potuto reagire contro lo sfinimento e la disperazione causati da questo continuo sdoppiamento. Ma se la mia sofferenza ha cambiato quasi interamente natura, non per ciò è meno intensa. Si è intellettualizzata. Non riesco più a trarre un completo diletto da ciò che prima era la mia suprema gioia, le opere letterarie. Quando per esempio leggo una poesia di Leconte de Lisle, mentre assaporo le infinite voluttà d’un tempo, l’altro io mi osserva, si diverte a esaminare le cause del mio piacere, le scorge in un certo rapporto fra me e l’opera, e in quel modo distrugge la certezza della bellezza propria dell’opera stessa, soprattutto configura prontamente condizioni di bellezza opposte, insomma uccide quasi tutto il mio piacere. Da più di un anno non riesco a valutare nulla letterariamente, sono divorato dal bisogno di avere regole fisse con cui giudicare con sicurezza le opere d’arte. Ma allora, per guarire, non potrò che annullare la mia vita interiore, o meglio quello sguardo sempre attento alla mia vita interiore, e ciò mi sembra spaventoso. Dev’essere un “caso” frequente fra i giovani della mia età, abituati dalla sofferenza fisica a vivere molto in compagnia di se stessi. Di sicuro voi saprete con quale tipo di riflessione ci si può liberare e guarire, se si tratta di una malattia. Spero che perdonerete, signore, in virtù della mia estrema ammirazione e del mio sconfinato desiderio di sapere cosa pensate di questa faccenda, la stravaganza e forse l’indiscrezione di confidenze così intime a uno sconosciuto. Ma credo di conoscervi già un po’ dai vostri discorsi. Vi supplico di non fare in aula nessuna allusione a questa lettera che da parte mia è soprattutto una specie di confessione. Il vostro allievo e profondo ammiratore,

Marcel Proust

Così il Marcel diciassettenne al suo professore di filosofia Darlu

Foto di classe di Filosofia al Liceo Condorcet (1888-89) con il professore Darlu