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Storia. Le responsabilità nella Guerra d'Etiopia. Parte Seconda.


LE RESPONSABILITA' NELLA GUERRA DI ETIOPIA. LA POSIZIONE INGLESE A DIFESA DEI PROPRI INTERESSIda BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Cap. VIII. Guido Mussolini e Filippo GianniniParte seconda. Segue da Parte Prima <<<Su queste considerazioni, il Duce preparò una relazione e la presentò al Re. Così Vittorio Emanuele III rispose al suo Primo Ministro: "Sapevo quasi tutto quello che lei m’ha schiettamente riferito. So pure dell’opposizione, cauta ma viva, che si è diffusa tra i suoi principali collaboratori. M’hanno informato e so i nomi di molti generali e ammiragli che paventano e discutono troppo. Ebbene: adesso proprio che gli inglesi sono nel nostro mare e credono di averci spaventati, adesso il suo vecchio Re le dice: - Duce, vada avanti. Ci sono io alle sue spalle. Avanti, le dico!".Ricevuto l’ordine di Mussolini, il 3 ottebre le truppe di De Bono varcarono il fiume Mareb, che segnava il confine fra l’Eritrea e l’Etiopia.Il giorno prima, alle 18,30, dal balcone di Palazzo Venezia, oltre all’annuncio dell’inizio delle ostilità, Mussolini frà l’altro disse: "Non è soltanto un esercito che tende verso i suoi obiettivi, ma è un popolo intero di quarantaquattro milioni di anime, contro il quale si tenta di consumare la più nera delle ingiustizie: quella di toglierci un pò di posto al sole (...) noi faremo tutto il possibile perché questo conflitto di carattere coloniale non assuma il carattere e la portata di un conflitto europeo".Il 7 ottobre l’Italia fu dichiarata Paese aggressore e il 10 ottobre 1935, in virtù dell’art. 16 dello Statuto della Società delle Nazioni, il Ministro britannico riuscì a mettere insieme una maggioranza di 51 Stati su 54 che votarono a favore dell’applicazione di sanzioni economiche contro l’Italia. Era la prima volta, dalla costituzione della Società delle Nazioni, che tale procedura veniva applicata; iniziava quella fase che avrebbe fatalmente portato l’Italia a schierarsi dall’altra parte (come vedremo più avanti) e questo per la difesa di un Paese che, come disse poi il Segretario degli Affari Esteri inglese, Lord Simon alla Camera dei Comuni il 24 giugno 1936: "Io non ero disposto a veder andare una sola nave in una battaglia navale anche vittoriosa per la causa dell’indipendenza abissina".E allora, perché le sanzioni?Questa domanda assume un aspetto ancor più inquietante leggendo quanto disse un altro membro della Camera, Lord Mottiston, rispondendo alla domanda perché non si opponeva all’impresa italiana in Abissinia: "Volevo distruggere la ridicola aberrazione per cui sembrava una cosa nobile simpatizzare per le bestie feroci. La legge abissina era di mutilare i vivi e poi seppellirli nella sabbia affinché morissero. C’era allora un milione di questa genia; io speravo che coloro i quali volevano indire manifestazioni contro gli italiani si ricordassero che i prodi figli d’Italia affrontavano proprio allora quegli sciagurati (...). Avevo telegrafato al generale De Bono sul problema della schiavitù in Abissinia, rispose che le truppe italiane erano state accolte col più commovente entusiasmo non solo da quelli che erano stati ridotti in schiavitù ma anche dalla popolazione media (...). Rivelai tutto ciò alla Camera dei Lords il 23 ottobre 1935. Io dissi che era un’infamia mandare armi o cooperare all’invio di armi ai brutali, crudeli abissini e negarne agli altri che combattevano con onore (...). Il comandante italiano in Abissinia aveva telegrafato a Mussolini: "Come sapete ho viveri e vestiario sufficiente per le truppe per i prossimi mesi, ma non vedo come potrei nutrire anche 120 mila uomini, donne e bambini che vengono a porsi sotto la nostra protezione". Mussolini rispose: "Dobbiamo assumerci tale rischio. Continuate a nutrire la popolazione indigena come prima" (...)".Iniziava così l’avventura etiopica che, come disse Churchill a pag. 192: "Il ricordo della disfatta umiliante che l’Italia aveva subito quarant’anni prima ad Adua, e della vergogna quando il suo esercito era stato non solo distrutto, ma i prigionieri erano stati oscenamente seviziati, si annidava esacerbato nella mente di tutti gli italiani".In ogni caso, mai il consenso del popolo per Mussolini fu più alto; per rispondere alle inique sanzioni, fu indetta la Giornata della Fede, tendente a raccogliere oro per far fronte alle difficoltà dovute al provvedimento della Società delle Nazioni. Solo a Roma 250 mila spose donarono le loro fedi, 180 mila a Milano. Tutta l’Italia fu percorsa da un’ondata di entusiasmo come mai si verficò nei secoli passati. Si può dire che l’Italia aveva, finalmente, il suo popolo omogeneo, da Nord a Sud.Gli stessi antifascisti si allinearono alla politica mussoliniana: Benedetto Croce donò la sua quantità d’oro e la sua medaglia di senatore, seguito dal liberale ed ex direttore del Corriere della Sera Albertini; nello stesso modo agirono Vittorio Emanuele Orlando e il socialista aventiniano Arturo Labriola, rientrato in Italia dal suo esilio a Bruxelles, dopo aver comunicato la sua solidarietà all’Italia fascista.Gli stessi comunisti lanciarono il loro appello ai fratelli in Camicia Nera.La dichiarata tradizionale amicizia italo-britannica era in frantumi. Il Governo inglese agiva come se la pace europea si difendesse nel Corno d’Africa e non, invece, per quanto stava accadendo in Europa.Molto acutamente Trevelyan nella sua Storia d’Inghilterra, a pag. 834: "E l’Italia, che per la sua posizione geografica poteva impedire i nostri contatti con l’Austria e coi Paesi balcanici, fu gettata in braccio alla Germania dalle - sanzioni economiche - decretate e si e no applicate per l’aggressione di Mussolini contro l’Etiopia (1935-1936). In questo disgraziato episodio, l’Inghilterra non ebbe la risolutezza né di rifiutare il suo intervento né di intevenire sul serio. Si sacrificò l’Europa all’Abissinia, senza salvare l’Abissinia"."Fu gettata nelle braccia della Germania (...)" Questa frase richiama singolarmente quella di Churchill, citata all’inizio del presente lavoro: "Adesso che la politica inglese aveva forzato Mussolini (...)". Tutto ciò non era che la logica conseguenza dei fallimenti di tutte le iniziative per il disarmo e le soluzioni negoziate, fallimenti dovuti agli egoismi e alla cecità che generarono dal famigerato Trattato di Versailles. Alle sanzioni non aderirono Stati Uniti, Giappone e Germania. Fu quest’ultimo Paese i cui diplomatici, approfittando della singolare situazione politica europea, furono abili nel cogliere il momento favorevole e sfruttarlo a proprio vantaggio.Nel tentativo di esporre le ragioni del Governo italiano, Guglielmo Marconi si recò a Londra, ma non solo cozzò contro l’intransingenza britannica, ma la Corona inglese giunse a tal punto d’arroganza da offrire al nostro grande scienziato un titolo nobiliare purché si astenesse dal dimostrare la sua adesione all’impresa etiopica. È superfluo aggiungere che Guglielmo Marconi rifiutò sdegnato l’oltraggiosa offerta.Chi si avvantaggiò di questa situazione fu Hitler che vedeva prendere sempre più forma il suo disegno tracciato nel Mein Kampf: un’alleanza politico-militare tra Italia e Germania. A tal scopo mobilitò abilmente la stampa tedesca che, sull’onda emotiva delle sanzioni, si prodigò in dichiarazioni di simpatia e di amicizia per il nostro Paese e, in particolare, per Mussolini. E Mussolini si trovò a subire il dinamismo hitleriano in quanto i margini di manovra per altra politica si erano paurosamente ristretti, ma anche perché e soprattutto perché l’Italia dipendeva principalmente dalla Germania per le forniture delle materie prime. Peraltro, anche durante il conflitto italo-etiopico, Mussolini non dette mai seguito agli inviti che venivano da oltr’Alpe. Come disse giustamente, a nostro avviso, Renzo De Felice in un’intervista rilasciata in occasione del cinquantenario dell’entrata in guerra dell’Italia: "Mussolini aveva un’atavica paura dei tedeschi". In quest’ottica, riteniamo, va letta la politica estera mussoliniana nella seconda metà degli anni ’30.La sera del 5 maggio 1936, di fronte a una folla immensa, dal balcone di Palazzo Venezia, Mussolini annunciò la vittoriosa conclusione dell’impresa africana e, fra l’altro, proclamò: "Nell’adunata del 2 ottobre, io promisi solennemente che avrei fatto tutto il possibile onde evitare che un conflitto africano si dilatasse in una guerra europea. Ho mantenuto tale impegno e più che mai sono convinto che turbare la pace in Europa significa far crollare l’Europa". Poche volte una profezia si è trasformata in storia come nel caso appena citato.Il 9 maggio dello stesso anno, tra le 22,30 e le 22,45, Mussolini pronunciò un altro discorso: "Il discorso della proclamazione dell’Impero". Quando si affacciò al balcone un urlo immenso si levò dalla folla: "Anche stavolta l’adunata oceanica è impressionante" "(...) L’Italia ha finalmente il suo Impero, Impero fascista, perché porta i segni indistruttibili della volontà e della potenza del Littorio romano, perché questa è la meta verso la quale durante quattordici anni furono sollecitate le energie prorompenti e disciplinate dei giovani, gagliarde generazioni italiane. Impero di pace, perché l’Italia vuole la pace per sé e per tutti e si decide alla guerra soltanto quando vi è forzata da imperiose, incoercibili necessità di vita. Impero di civiltà e umanità per tutte le popolazioni d’Etiopia. Questo è nelle tradizioni di Roma, che dopo aver vinto, associava i popoli al suo destino". Questi principi di civiltà sono confermati da Renzo De Felice ne: Intervista sul fascismo, pag. 52: "Non si tratta di imperialismo di tipo inglese o francese: è un imperialismo, un colonialismo che tende all’emigrazione, che spera cioè che grandi masse di italiani possano trapiantarsi in quelle terre per lavorare, per trovare quelle possibilità che non hanno in patria. Insomma non si parte tanto dall’idea di sfruttare le colonie, quanto soprattutto dalla speranza di potervi trovare terra e lavoro".È quello che francesi e inglesi non intendevano tollerare: sarebbe stato un esempio pericoloso per la politica coloniale di quei Paesi che non volevano saperne di cambiare, cioè mantenere il principio che le colonie erano terre da sfruttare.Cessata la guerra in Africa, cessò anche a Ginevra: qui il 30 maggio 1936 Hailè Selassiè avanzò una proposta tendente a non far riconoscere la conquista italiana; venne respinta con 28 voti contro 1 e 25 astensioni. Il 4 luglio successivo l’Assemblea, quasi all’unanimità votò per la fine delle sanzioni. Fu un innegabile successo di Mussolini, ma una sconfitta del buon senso.Osserva Trevelyan in Storia d’Inghilterra, pag. 834: "Gli storici futuri avranno lo sgradevole compito di ripartire la colpa dei molti errori commessi fra i successivi Governi inglesi e l’opposizione e l’opinione pubblica i cui umori mutevoli sono stati spesso accarezzati dai Governi con troppa docilità".Infatti il danno era compiuto: Inghilterra e Francia avevano mostrato la propria ostilità al Governo fascista. Ma altri errori, forse (semmai possibile) ancora più gravi, saranno posti in atto addirittura nelle settimane successive.Anche la Chiesa di Roma elogiò l’impresa etiopica: il gesuita Antonio Messineo su Civiltà Cattolica plaudì con due saggi intitolati: L’annessione territoriale nella tradizione cattolica e Necessità economica ed espansione coloniale.Fu il Cardinale Ildefonso Schuster a richiamare la volontà divina: "Cooperiamo con Dio in questa missione nazionale e cattolica in bene, in questo momento in cui sui campi d’Etiopia il vessillo d’Italia reca in trionfo la Croce di Cristo, spezza la catena degli schiavi, spiana la strada ai missionari del Vangelo".Pochi anni dopo, nel momento del maggior bisogno, tutto sarà nascosto e dimenticato.Il clero anglicano prese posizione ma, al contrario della Chiesa cattolica era allarmato dei successi italiani (e aveva fondati motivi per preoccuparsi) perché l’Italia cattolica (che non era più l’Italietta) minacciava di erodere l’impero britannico anche per mezzo della religione. Scrive in merito Franco Monaco a pagina 76 del Quando l’Italia era Italia: "Di qui le prediche contro l’Italia, feroci e calunniose, del primate Arcivescovo di Canterbury e del Vescovo di York. Agli inglesi non si poteva dare torto. In effetti le nostre aspirazioni andavano molto più in là delle loro stesse paure. Un giorno tutta intera la fascia orientale africana, con l’Egitto, il Sudan e giù giù fino all’Uganda e al Kenya, avrebbe potuto vederli finalmente partire per sempre. L’Etiopia non era che il primo passo, il primo di un cammino non solo politico: poiché la Nazione giovane portava nel suo seno il cuore del Cattolicesimo e le due forze si integravano (...)". Certamente i timori britannici erano fondati; si consideri, oltretutto, che il Governo italiano prevedeva di inviare in Etiopia ben 15 milioni di coloni e all’uopo stava predisponendo grandiosi lavori strutturali.Per il leone britannico era troppo!Anche se l’argomento sarà trattato con maggior rilievo nel volume Uno scudo protettivo - Mussolini, il Fascismo e gli ebrei, è opportuno rilevare in questa sede, che la conquista dell’Etiopia e la successiva proclamazione dell’Impero, furono salutate dalla stampa ebraica e dalla stragrande maggioranza degli ebrei italiani, con esultanza.Su Israel del 10 ottobre 1935, in occasione del Kippur, i Rabbini invocarono il favore divino "in quest’ora storica e su chi regge i destini e sui valorosi soldati italiani".In ampie zone dell’Etiopia, fra Gondar e il lago Tana, vivevano popolazioni di religione giudaica: i falascià. L’Unione delle Comunità giudaiche, nel 1936, prese contatto con il Ministro delle Colonie, Lessona, allo scopo di assistere e organizzare gli ebrei etiopici. Da parte del Ministro ci fu la massima disponibilità. L’incarico di questa operazione fu assunto dal Rabbino Carlo Alberto Viterbo.A fine luglio 1936 C.A. Viterbo partì per l’Africa Orientale e il 22 agosto successivo si incontrò ad Addis Abeba con il Maresciallo Rodolfo Graziani "che gli manifestò la sua comprensione e simpatia per gli israeliti" e lo assicurò che: "le popolazioni falascià, note per il loro spirito laborioso, avrebbero ottenuto la particolare benevola attenzione del Governo".Uno dei risultati di questa iniziativa fu che molti ebrei etiopici vennero a studiare, negli anni successivi, in Italia.Prima di chiudere l’argomento del conflitto italo-etiopico, non è male riportare quanto in questi giorni (febbraio 1996) alcuni giornali titolano: Il Duce in Etiopia usÒ i gas. Sono scoperte ripetute da Denis Mac Smith e immediatamente ampliate da Angelo Del Boca. Le smentite vengono proprio da coloro che erano sul posto e sono innumerevoli. Ne riportiamo solo due perché racchiudono nei concetti le motivazioni delle altre.Il Signor Toni Summanga di Venezia, l’8 maggio 1991 su Il Giornale fra l’altro ricorda: "Francia e Inghilterra deluse del mancato fallimento dell’operazione diffusero subito la voce che gli italiani avevano usato i gas. Io in Africa Orientale ci sono stato. Appena arrivato ad Addis Abeba, mi fu chiesto da un commerciante francese che risiedeva sul posto se avevamo usato i gas. Da Massaua ad Addis Abeba, non ho mai visto né sentito parlare di maschere che pure avremmo dovuto usare se avessimo lanciato i gas. Abbiamo impiegato le armi convenzionali (moschetto, cannone, qualche velivolo e truppe coloniali (...)".Per avere un altro giudizio più diretto, l’8 febbraio 1996 abbiamo contattato il generale Angelo Bastiani, presidente del gruppo Medaglie d’Oro del Nastro Azzurro. Oggi ha 82 anni, all’epoca della guerra in Africa Orientale era un sottufficiale al comando di una banda coloniale. Il generale Bastiani ci ha detto: "È una vigliaccata, rieccoci con le carognate. Io e i miei indigeni eravamo le avanguardie di ogni assalto, ci avrebbero dato almeno le maschere antigas… Alla battaglia conclusiva di Maiceo, al lago Ashraghi, quella a cui partecipò anche il Negus… a proposito del Negus: perché lui che ne avrebbe avuto tutto l’interesse, mai disse che lo combattemmo coi gas?". (…) da BENITO MUSSOLINI, L'UOMO DELLA PACE - DA VERSAILLES AL 10 GIUGNO 1940. Guido Mussolini e Filippo GianniniAnno di Edizione: 1998. Greco&Greco editori. (Indirizzo e telefono: vedi EDITORI)