Creato da sfogliatellaaa il 14/09/2007

Lo zingarello

Il blog dei trasfertisti

 

 

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Sopra e Sotto (prima parte)

Post n°16 pubblicato il 22 Ottobre 2007 da mimo_cucienz

Quello che segue è un racconto inventato da me medesimo che per motivi di comodità pubblicherò in più parti. E' il modo in cui ho voluto esprimere quel sentimento, quella strana forza che ci spinge ad andare in trasferta. Provate a chiedere ad un trasfertista se vorrebbe cambiare il proprio lavoro con un impiego stabile nella propria città. Tutti vi diranno subito di sì. Ma poi? Poi succede che nessuno lo fa veramente. Alla fine sono sempre tutti in giro come zingari. E come per gli zingari tutto il mondo è casa. Nessun altro lavoro da quell'insieme di libertà, indipendenza, smarrimento. Crea dipendenza.

Così succede che tutti i trasfertisti dicano che il proprio lavoro sia un lavoro di merda perchè non sei mai a casa e tutto questo per qualche spicciolo in più. Ma è proprio questo il punto. Non lo si fa solo per gli spiccioli. Come dice il detto"Casa non è il posto in cui sei, ma il posto verso il quale stai andando".

Ecco quindi una storia di persone che cercano se stesse nei posti più impensati.

Sopra

È incredibile cosa un cervello ancora assonnato riesca a elaborare pur di strappare ancora qualche minuto di riposo. Me ne sono reso conto nel corso degli anni e dopo innumerevoli sperimentazioni finalizzate ad un unico e imperante scopo: arrivare puntuale a lavoro.

Dopo anni e anni di sveglia alle sette sono diventato un automa nell’allungare il braccio verso il comodino e premere il tastino che interrompe il beep elettronico. Stava cominciando ad accadere un po’ troppo spesso che mi svegliassi due ore dopo non ricordando affatto di aver spento l’allarme.

Per rimediare cominciai con un piccolo espediente. Spostai la sveglia dal comodino al tavolino poco più in là. In quella posizione dovevo alzarmi per spegnerla. Ma avevo sottovalutato le capacità inconsce della mia psiche. Erroneamente pensavo che alzarsi dal letto e fare due metri per premere il bottoncino magico richiedesse un livello di coscienza abbastanza elevato da farmi capire che era ora di andare a lavoro e non potevo indugiare ancora tra le coperte. Ingenuo fui.

Molte altre mattine arrivai tardi in ufficio, completamente ignaro di come fossi riuscito a rimanere a letto nonostante la sveglia facesse inesorabilmente il suo infame dovere. E non potevo neanche più dubitare che fosse difettosa. Avevo già superato quella fase sottoponendola ad accurati test.

In seguito la sveglia occupò nell’ordine: una mensola a due metri e mezzo di altezza, svariati cassetti qua e là, portasapone in bagno. In quest’ultimo caso ero arrivato in ufficio puntuale, ma solo perché avevo urtato il mignolo del piede contro il piatto doccia appena entrato in bagno. Decisi però, nonostante il buon risultato, che sarebbe stato meglio conservare tutte le articolazioni integre.

Oggi è lunedì. Quale giorno migliore per provare una nuova strategia? Sveglia sul comodino alle 6,50. Sveglia sulla scrivania alle 6,55. Sveglia sulla mensola alle 7 in punto.

Se da sveglio fossi efficiente come quando dormo probabilmente sarei ricco. Tre sveglie messe a tacere nel giro di dieci minuti e mi trovo ancora tra le coperte. Poi arriva lei come un dono del Signore e i miei occhi sono spalancati in un attimo. Siano benedette le zanzare. Quando ronzano nelle orecchie non c’è niente che mi tenga più sveglio. Dovrei brevettare una sveglia che ronza come loro.

In un attimo sono in piedi, lavato, vestito, caffè e giù in strada. Il passo veloce, la borsa in una mano, la giacca nell’altra. Mancano una decina di metri alla mia auto. Comincio a frugare nella tasca della giacca in cerca delle chiavi. Le mie dita toccano il portachiavi, ricordo di Napoli con su scritto “cca nisciun è fess”. Lo tiro fuori dalla tasca. Un filo di cotone blu scucitosi dalla fodera interna si aggancia all’anello delle chiavi. Nell’istante stesso in cui il filo si strappa le mie dita perdono la presa. Il mazzo di chiavi precipita liberamente per un metro e finisce dritto dentro il tombino proprio accanto alla portiera della macchina, senza neanche urtare il coperchio in ghisa. Canestro perfetto.

Sotto

Oggi l’acqua è leggermente più bassa del solito. In questo periodo normalmente mi arriva alle caviglie. Oggi no.

Il sole dovrebbe già essere spuntato, ma credo che qualcuno abbia parcheggiato di nuovo là fuori impedendo ai raggi di raggiungere le aperture sopra la mia testa. Eppure c’è un divieto di sosta grosso come una casa.

Ma non importa. Prima o poi la macchina se ne andrà e io potrò vedere se il sole è bello come al solito o se per una volta potrò tenere gli occhi chiusi perché non val la pena guardar fuori.

Infilo le mani nelle aperture del coperchio di ghisa e mi sollevo per osservare meglio cosa accade in strada. Sembrerebbe tutto tranquillo. Distendo le braccia e poi di nuovo su e nuovamente giù per dieci, venti, trenta volte. Così tutte le mattine. È importante che il fisico non cada a pezzi se voglio rimanere qua sotto. Sempre appeso al tombino faccio mulinare le gambe per qualche minuto. Poi ritorno giù e prendo fiato.

Là fuori, di sopra, qualcuno urla a una certa Silvia di prendere solo una baguette perché oggi il papà non viene a pranzo.

Dei mocassini dal tacco duro e il passo veloce si avvicinano al tombino e si fermano proprio sopra di me. Sembrerebbe un 43 suola di cuoio, scarpe nuove di un paio di giorni, tre al massimo.

Il tizio armeggia con qualcosa che ha in mano. Forse una giacca. Qualcosa di lucido esce da una tasca si libera dalla presa e cade giù. Prendo l’oggetto al volo. È un  mazzo di chiavi.

Il bello della mia posizione è che sai esattamente da quale parte arriveranno le novità. Belle o brutte che siano non devi fare altro che guardare in quella direzione e puoi star sicuro che non ti sfuggirà mai niente.

Sopra

Non posso crederci. Per una volta che riesco a partire da casa ad un’ora decente, la sfiga, il destino o qualsiasi altra roba metafisica si diverta a giocare con la mia vita, doveva tirarmi una simile fregatura.

Guardo giù per pura curiosità, consapevole che non ci sarà nulla da fare, che dovrò tornare a casa a cercare le chiavi di riserva, che sicuramente non le troverò e che dovrò telefonare in ufficio per avvisare il capo del ritardo,  raccontargli la verità o inventarmi una scusa. In un caso o nell’altro non mi crederanno. Il mio posto di lavoro è a rischio come non mai.

Aspetto che gli occhi mettano a fuoco le ombre sotto il chiusino. Delle chiavi neanche a parlarne, ma il tempo si blocca nel momento in cui il mio cervello cerca di convincersi che quello che i miei occhi vedono là sotto, in un posto in cui ti aspetteresti di vedere solo acqua o mozziconi di sigaretta o monete o mazzi di chiavi, sono altri due occhi.

 
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