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MEDEA DI EURIPIDE (2/6)

Post n°77 pubblicato il 25 Agosto 2010 da Margherita281028
 
Tag: LIBRI

TESTO GRECO

Traduzione di Ettore Romagnoli


PERSONAGGI:

NUTRICE
AIO
I FIGLI di Medèa
Medèa
CORO di donne Corinzie
CREONTE
GIASONE
Egèo
MESSO


L'azione si svolge a Corinto, dinanzi alla casa di Giasone.
NUTRICE:
Deh, mai varcate non avesse a volo
le Simplègadi azzurre il legno d'Argo,
verso il suolo dei Colchi, e mai non fosse
nei valloni del Pelio il pin caduto
sotto la scure, e al remo non si fossero
strette le mani degli eroi gagliardi,
che, per mercè di Pelia, a cercar vennero
il vello d'oro! Navigato allora
non avrebbe Medèa, la mia signora,
alle torri di Iolco, in cuor percossa
dall'amor di Giasone; e mai, le vergini
Pelie convinte alla paterna strage,
col suo sposo in Corinto e coi suoi figli
dimora eletta non avrebbe, cara
ai cittadini alla cui terra giunse
esule, e in tutto ligia ella a Giasone:
grande saldezza d'una casa, quando
non fa contrasto la sposa allo sposo.
Ma tutto infesto è adesso, e affligge il morbo
ogni piú cara cosa. In regio talamo
Giasone or dorme, ed ha traditi i figli
suoi, la consorte: ché sposò la figlia
di Creonte, signor di questa terra.
E Medèa, l'infelice, abbandonata,
ad alta voce i giuramenti invoca,
e della destra la solenne fede;
e del ricambio che Giasone or le offre,
a testimoni gli Dei chiama. E giace,
sfatte le membra nel dolore, e cibo
non prende, e tutto il dí si strugge in lagrime,
poiché si sente dal consorte offesa,
né l'occhio leva, né distoglie il viso
mai dalla terra; e, come rupe, o flutto
marino, degli amici ode i conforti.
Salvo, se il bianco suo collo talora
volge, ed il padre suo, la casa sua,
la patria, seco stessa ella rimpiange,
ch'ella ha traditi, per seguir quest'uomo
ch'or la disprezza. Sotto i colpi, misera,
della sventura, appreso ha quanto giovi
il non lasciar la propria patria. E i figli
odia, e a vederli non s'allegra; e temo
che disegni novelli essa non volga;
perché l'animo ha fiero; e sopportare
sí mali tratti non saprà: pavento
che immerga in cuore un'affilata lama,
entrando in casa dov'è steso il talamo,
nascostamente, ed il suo sposo e re
uccida, e n'abbia danno anche maggiore:
ch'essa è tremenda; e contro lei chi mosse
a nimicizia, facil non sarà
che riporti trofeo. Ma questi pargoli
già qui, lasciati i loro giochi, muovono,
che nulla sanno dei materni mali:
fanciullesco pensier cruccio non cura.
AIO:
O vecchia ancella, dalla casa addotta
della signora, perché dunque sola
stai su la soglia, e teco stessa gemi?
Come senza di te Medèa rimase?
NUTRICE:
Aio dei figli di Giasone antico,
la mala sorte dei signori affligge
i buoni servi, e al cuore lor s'appiglia.
A tal dolore io son giunta, che brama
di qui venir mi vinse, ed alla terra
narrare e al ciel della Signora i mali.
AIO:
Non desisté la trista, ancor, dai gemiti?
NUTRICE:
Semplice! Appena adesso il mal comincia.
AIO:
Stolta, se posso ciò della regina
dire, che nulla sa dei nuovi mali!
NUTRICE:
Vecchio, che c'è? Non rifiutarti, parla.
AIO:
Non vo': di quanto già dissi, mi pento.
NUTRICE:
No, per la bianca tua barba, confidalo
alla compagna: io tacerò, se occorre.
AIO:
Senza aver l'aria d'ascoltare, fattomi
vicino al luogo ove dei dadi al gioco
seggono gli anzïani, all'acque sacre
di Pirene vicino, un tale udii
dir che Creonte, il re di questa terra,
da Corinto scacciar questi fanciulli
vuole, e la madre. Se poi vera sia
la nuova, ignoro. Deh, vera non fosse!
NUTRICE:
E patirà Giasone, anche se in lotta
con la madre, che ciò soffrano i fig1i?
AIO:
Cedono ai nuovi i parentadi antichi,
né di Medèa la casa ama Creonte.
NUTRICE:
Siamo perduti, ove all'antico, prima
d'averlo scosso, un nuovo mal s'aggiunge.
AIO:
Non dir parola, tu, taci: momento
questo non è che la signora sappia.
NUTRICE:
O fig1i, udite l'animo del padre
qual è verso di voi? Morte imprecargli
non voglio, ch'esso è mio signor; ma certo
è chiaro ch'egli è pei suoi cari un tristo.
AIO:
Chi non è tale, fra i mortali? Impara
che ciascuno ama sé piú che il suo prossimo,
quando vedi che piú non ama il padre,
per le nozze novelle, il proprio sangue.
NUTRICE:
In casa entrate, sarà bene, o fig1i.
E tu tienili quanto è piú possibile
in disparte, e fa' sí che non accostino
la madre esacerbata: io già l'ho vista
che li guardava con occhio di furia,
come se accinta a qualche male; e l'ira
non deporrà, bene lo so, se prima
su qualcun non s'abbatta. Oh, sui nemici
possa però piombar, non sugli amici!
(Dal di dentro si ode la voce di Medèa)
Medèa:
Ahimè!
Ahi me misera! Me sventurata!
Quali pene! Oh, potessi morire!
NUTRICE:
Questo è ciò, fig1i miei, ch'io temevo.
Della madre il cuor s'agita, l'ira
si ridesta. Affrettatevi, entrate
nella casa, lontani tenetevi
dal suo sguardo, e a lei presso non fatevi,
dall'umor suo selvaggio guardatevi,
dall'indole infesta dell'animo
orgoglioso. Via, subito entrate.
Ben chiaro è fin d'ora,
che ben presto, con alto furore
scoppierà questo nembo di gemiti
ch'or s'innalza. Che cosa farà,
cosí morsa dai mali, quell'anima
superba, che ignora pietà?
Medèa:
Ahimè!
Ho patite, ho patite sciagure
d'alti gemiti degne. O figliuoli
maledetti di madre odïosa,
deh, possiate morire col padre,
tutta vada la casa in rovina!
NUTRICE:
Ahi me misera, ahi me sventurata!
E che colpa hanno dunque i tuoi figli
del fallo del padre? Perché
li aborrisci? Ahimè, figli, che cruccio
nel mio cuor, che vi colga sventura!
Son tremende le audacie dei principi,
poco avvezzi a ricever comandi,
molto a darne, è ben raro che l'ira
a deporre s'inducano. Uguali
meglio è viver fra uguali. Invecchiare
vo' fra piccoli beni e sicuri.
Ché la vita medíocre, basta
dirne il nome, e prevale, ed a viverla
di gran lunga migliore è per gli uomini.
Ciò che fugge misura, non può
niun vantaggio recare ai mortali;
e maggiori sciagure, se il Dèmone
mai s'adira, procaccia alle case.
(Si avanza il coro, componto di donne corinzie)
CORO: Preludio
Della misera donna di Colco
udito ho la voce, le grida,
ché ancor non si placa. Su, vecchia, tu parla:
ché un ululo dentro al palagio
udii dalla gemina porta.
Né, donna, m'allegro pei guai della casa,
che cara è per me divenuta.
NUTRICE:
Piú non è questa casa: è finita:
ché letti di principi accolgono
Giasone; e si strugge nel talamo
la nostra signora; né v'ha
parola d'amico che possa
molcirne lo spirito.
Medèa:
Ahimè!
Sul mio capo la fiamma celeste
piombasse! A che viver mi giova?
Ahi, ahi, nella morte disciogliermi
potessi, lasciare
la vita odïosa!
CORO: Strofe
O Giove, o Terra, o Luce, udiste i gemiti
che intona questa misera?
Qual brama hai tu dell'ultimo
sonno? A che affretti il termine di morte?
Il voto, oh! non esprimerne.
Se vago il tuo consorte
è di novello talamo,
non esser tu soverchiamente acerba.
Non ti strugger, non sia troppo il rammarico
per lui: ché Giove a te vendetta serba.
Medèa:
O tu, Giove santissimo, o Tèmide
veneranda, le mie sofferenze
vedete, da poi che lo sposo
maledetto, con gran giuramenti
a me strinsi! Deh, possa io vederlo
con la sposa, con tutta la casa
stritolato! Ché primi d'obbrobrio
mi copersero. O padre, o città
donde mossi raminga, poi ch'ebbi
turpemente trafitto il germano!
NUTRICE:
Non udite che dice, che grida
leva a Tèmi, patrona dei supplici,
ed a Giove, dei giuri custode
pei mortali? Che plachi il suo sdegno
la signora per piccol conforto
possibil non è.
CORO: Antistrofe
Essere non potrà che a noi la misera
venga, ed ascolti il sònito
dei miei detti, e dall'impeto
del cuore, e dalla grave ira s'affranchi?
La cura mia sollecita
agli amici, oh, non manchi.
Or tu muovi, e conducila
qui, pria che in casa faccia un qualche danno.
Annuncia a lei che amiche qui l'attendono:
ché qui prorompe luttuoso affanno.
NUTRICE:
Lo farò; non credo io che convincere
la signora potrò; ma la grazia
pur vo' darvi di questo mio sforzo.
Sebbene, essa lo sguardo sí fiero
sui famigli rivolge, che sembra,
quando alcuno a parlarle si appressa,
lionessa che guardi i suoi cuccioli.
Se dicessi che sciocchi, che in nulla
sapïenti fûr gli uomini antichi,
non diresti menzogna: ché cantici
per conviti, per feste e per cene
ritrovâr, pei sonori sollazzi
della vita; e nessuno trovò
come i tristi cordogli degli uomini
con la musa e i multísoni canti
mitigare potesse; e di qui,
stragi e orrende sventure devastano
le magioni. Eppur, questo sarebbe
gran vantaggio, i mortali coi cantici
risanare. Ma dove son lauti
banchetti, levare le voci
perché, se il piacer della mensa
procura, nell'ora fuggevole,
da se stesso, delizia ai mortali?
CORO: Epodo
Udii di flebili gemiti il grido.
Con urli acuti, penosi, i triboli
geme, e al suo talamo lo sposo infido;
e, soverchiata, s'appella a Tèmide,
ch'è, presso a Giove, vindice ai giuri.
Essa, alle opposte spiagge de l'Ellade,
lei, per lo stretto del mare impervio,
spinse, sui tramiti del mare oscuri.
(Dalla reggia esce Medèa)

(segue)

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