Creato da fedelecarlo il 27/11/2007

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E. Di Capua, 'o sole mio ed altre storie

Compositore - autore

EDUARDO DI CAPUA Nato a Napoli il 12 maggio 1865 ricevette dal padre Giacobbe (1841-1913) i primi rudimenti musicali e si iscrisse poi al conservatorio, ma fu costretto ad abbandonare gli studi e a seguire il genitore in tournee in Italia e  in Europa.
Suo padre era un apprezzato violinista e si era poi dedicato alla posteggia a Napoli, in vari locali, ma anche all'estero ove si recava con un proprio complesso ed ove Eduardo mosse i primi passi nel mondo della musica.
A Napoli collaborò con Salvatore Di Giacomo, musicando nel 1893 i versi di Carcioffolà e con Giambattista  De Curtis, per il quale compose la musica di
E giesummine e 
Spagna
nello stesso anno. Nel 1898 Giovanni Capurro, poco prima che egli partisse per una tournee in Russia, gli consegnò i versi di O sole mio e durante il soggiorno a Odessa Eduardo Di Capua, in un albergo sul mar Nero, lontano dal sole di Napoli, scrisse la musica di quello che divenne, al suo ritorno, un capolavoro assoluto della canzone italiana e mondiale.
Accanito giocatore passò l' intera vita in attesa di una vincita al lotto, dilapidando i suoi pochi guadagni, e di ciò ne fecero le spese anche la moglie Concettina Coppola e i suoi tre figli, che vissero sempre in precarie condizioni, perennemente rassicurati da Di Capua circa una imminente vincita, che non avvenne mai.
Fu però proprio la passione per il gioco a fargli conoscere Vincenzino Russo un poeta poverissimo che aveva la fama di assistito; se l'incontro tra  i due non ebbe successo per le vincite al lotto, fu indubbiamente fondamentale nella storia della canzone napoletana. Nacquero dal loro lavoro pezzi davvero indimenticabili, pubblicati dall'editore Bideri, a partire dal 1897; tra i più noti ricordiamo: A serenata de rose; I' te vurria vasa'; Torna maggio. Capolavoro assoluto frutto del loro sodalizio fu la notissima e malinconica serenata Maria Marì lanciata sempre da Bideri nel 1899, con una musica ispirata all'Aida di Giuseppe Verdi.
Nel 1904 , poco prima di morire, ancora pervaso dalla voglia di vivere, Russo consegnò a Di Capua il testo di Canzone bella e poco dopo al musicista toccò il triste incarico di scrivere anche la musica per gli ultimi versi che Vincenzino Russo aveva vergato sul letto di morte, L'urdema canzone mia (tutto è fernuto), dopo aver assistito dal balcone al matrimonio dell' amata con un altro uomo.
Inutilmente anche in quella occasione Di Capua provò a giocare un  terno: 48 , il morto che parla, 63 la sposa e 82 la canzone. Negli anni successivi Di Capua continuò a scrivere canzoni, sbarcando il lunario miseramente, come direttore di un'orchestrina e come suonatore di pianoforte nei cinematografi.
Costretto a vendere i pochi oggetti di valore per pagarsi il ricovero in ospedale, Di Capua morì poverissimo, il 3 ottobre del 1917. La vedova, Concettina Coppola, fu per molti anni costretta a vivere con una misera  pensione e, solo nel 1952, alla camera dei Deputati fu presentato un disegno di legge affinchè le fosse assegnato un sussidio straordinario, che poi però non fu mai concesso.
La SIAE le concesse un modesto assegno mensile ed il presidente della Repubblica ed i lettori del The Roma Daily american le inviarono un contributo di 252.000 lire. Poi sulla triste storia di Di Capua calò per sempre il silenzio.
Continuarono invece a lungo i ricorsi del musicista Alfredo Mazzucchi e dei suoi eredi, affinchè fosse riconosciuto il contributo da lui apportato con piccoli ritocchi alla musica di O sole mio, in base ad un preciso incarico ricevuto dall'editore.
Anche se in vita Di Capua non ebbe alcun tipo di riconoscimento, e dopo morto fu ancora umiliato e dimenticato, le sue melodie immortali gli regaleranno di certo una fama eterna. Alcuni anni dopo la sua morte il poeta Pasquale Ruocco, riferendosi alla sua passione per il gioco del lotto, lo commemorò con questo epigramma : "Di Capua-come è stato raccontato-/ fu sempre un giocatore sfortunato/ e lui si rassegnava umile e pio/ ma un giorno vinse un terno: O sole mio"


(9 ottobre 2002) - Corriere della Sera
D' Errico Enzo:

NAPOLI - E tutti vissero felici e contenti. Come capita in ogni favola. E come invece non capita mai in un processo. A meno che per suggellare il lieto fine della storia non sia necessaria proprio una sentenza giudiziaria. Come è accaduto a Torino, dove il tribunale ha sovvertito lo status anagrafico di ' O sole mio, la canzone italiana più famosa nel mondo, assegnandole un nuovo genitore: Alfredo Mazzucchi, compositore vesuviano nato nel 1878 e morto nel 1972. Per il giudice Maria Alvau non ci sono dubbi: fu lui, insieme a Eduardo Di Capua (padre storico del brano), a tessere la melodia su cui il poeta Giovanni Capurro ricamò i celebri versi che accompagnarono milioni di emigranti. E fu ancora lui ad accendere, sempre con Di Capua, la scintilla che generò alcuni tra i capitoli più importanti del canzoniere napoletano, basti pensare a Torna Maggio, I te vurria vasa' e Maria Mari' . Bene, direte voi: finalmente un risarcimento morale. E non solo morale, perché la sentenza torinese riapre la partita sui diritti d' autore, archiviata da tempo, rendendo felici tutti: editori ed eredi. Proprio come in una fiaba. LA FAVOLA - C' era una volta un giovane musicista, Eduardo Di Capua, che girava il mondo insieme al padre, violinista e «posteggiatore». Nell' aprile del 1898, i due fecero tappa a Odessa, in Crimea. E lì, rapito dalla nostalgia per Napoli, Eduardo affidò a uno spartito le note di ' O sole mio che, successivamente, vennero arricchite dalle strofe di Giovanni Capurro, adepto di Carducci. Il guaio è che nessuno dei due sentì l' alito della fortuna entrare nella propria vita. Anzi, morirono entrambi nella povertà più nera. Il primo fu Di Capua. Era l' ottobre del 1917 e, negli ultimi mesi, sua moglie fu costretta a vendere il pianoforte per tirare avanti. Tre anni dopo, la stessa sorte toccò a Capurro. Triste, vero? Ma pensate anche all' oscuro destino di Alfredo Mazzucchi, che invece visse a lungo guardando correre le sue canzoni verso la celebrità. E senza mai poterle prendere per mano. Una tortura lunga, estenuante, se considerate che quando nacque ' O sole mio aveva appena vent' anni ed è morto che ne aveva 94. Un attimo, però: perché, durante tutto questo tempo, Mazzucchi non ha gridato «diamine, quelle canzoni le ho scritte anch' io»? Ecco, allora, che la favola s' intreccia al processo. LA SENTENZA - Tutto, per gli atti giudiziari, comincia nell' ottobre ' 99, quando un pronipote di Eduardo Di Capua rivendica, per conto del suo avo, la paternità unica di ' O sole mio. I familiari di Mazzucchi gli rispondono in aula, sostenendo la loro tesi documenti alla mano. E incassano il repentino dietrofront degli avversari, che ammettono d' un tratto la collaborazione fra i due compositori. Al punto che, nel verdetto emesso a marzo ed ora passato in giudicato, il giudice Maria Alvau scrive: «Mazzucchi frequentava con assiduità la casa di Di Capua per imparare e anche per collaborare alla creazione di brani musicali». A farla breve, il primo offriva il materiale grezzo e il secondo, facendo leva su una maggiore esperienza, limava lo spartito. L' EPILOGO - Siamo così giunti al lieto fine. Un capitolo che per raccontarlo bastano tre parole: diritti di autore. E cioè un bel mucchio di quattrini che tornano in circolo (circa 150 mila euro all' anno, secondo il maestro Carlo Alberto Rossi). Mazzucchi, infatti, è scomparso nel ' 72. E per 20 anni ancora i suoi eredi, gli editori delle canzoni e forse in qualche modo anche i parenti di Di Capua potranno attingere alla cornucopia. La sentenza è già stata inviata alla Siae per calcolare il pregresso. Ma i conti non scioglieranno un piccolo mistero: da anni, lo spartito originale di ' O sole mio recava, tra gli autori, pure il nome di Alfredo Mazzucchi. Perché? «La risposta si trova in tutti i libri sulla storia della canzone napoletana, compreso il mio - risponde Vittorio Paliotti -. Mazzucchi era uno dei musicisti che, per conto degli editori, apportava qualche ritocco alle musiche originali. Modifiche minime che, però, consentivano di rinverdire i diritti d' autore in scadenza. Questa è la verità storica. Che, com' è noto, non sempre coincide con quella processuale. E tantomeno con le favole».

 
 
 
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