Creato da fedelecarlo il 27/11/2007

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1600, muore la canzone popolaresca?

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Arriva il '600 stracarico di cultura musicale, portando con sè il declino della villanella e l'evolversi e il trasformarsi del madrigale e, da questi, l'avvento del melodramma. Le villanelle concludono il loro ciclo evolutivo nascendo prima anonime e popolare nei "villici" borghi di campagna, poi popolaresche in città e, infine, villanelle auliche d'autore alla "toscanese" nelle Corti dei vari regni, per decadere, definitivamente, venendo meno la spontaneità e la semplicità di quando erano anonime e popolari.
Il '600 dona alla nostra città i tre primi grandi poeti e scrittori: Filippo Sgruttendio da Scafati (?), Giulio Cesare Cortese (1575-1621) e Giambattista Basile (1575-1632). Nelle opere di questi tre grandi poeti del '600 si sente lo slancio puro e ardito del popolo che partecipa, con questa sua lingua corposa e "tosta", a tutta la cultura del tempo, descrivendone la vita, i costumi e offrendoci, così, una viva, diretta, fresca testimonianza di essa. Nonostante la rivoluzione di Masaniello nel 1647, la peste del 1656 e il terremoto del 1688, il popolo, anche in queste tragedie, continuava a cantare per levarsi di
malinconia.


Le opere del Cortese, le dialogate Egloghe del Basile e la 'Ntrezzata dello Sgruttendio prepararono la nascita della Commedia Dialettale e dell'Opera Buffa (1700).
E' anche il secolo di "Michelemma'" e di "Fenesta ca lucive": ognuno cerca di dare una paternità a questi due successi, ma  lo storico Sebastiano Massa dice che, le citate opere, non sono "canzoni popolaresche" bensì dei puri "canti popolari".
Le condizioni sociali e morali del popolo napoletano alla fine del '600 sono disastrose, dopo varie dominazioni straniere la città era caduta nel disordine e nella miseria più nera. Solo dopo il trattato di Acquisgrana (1668) si assicurerà all'Italia di allora, un cinquantennio di progresso e di pace ma subendo, poi, il dominio austriaco. La Napoli di fine '600 e inizio '700 riversa nelle strade la voglia eterna di cantare ballando sfrenatamente le tarantelle, un ballo di moda e, allora, di grande successo.
Il ‘600 è il secolo dei melodramma. L’opera lirica, nata a Firenze nel Carnevale del 1597, rappresentata a Venezia per la prima volta nei 1637, fa capolino a Napoli nel 1651, in un teatrino fatto erigere, nel suo palazzo, per l’occasione, dal Viceré Conte d’Onatte.
Voci sporadiche come quelle di Giulio Cesare Cortese, Sgruttendio e dei girovaghi poeti e musicisti Sbruffapappa, Masto Roggiero ed altri, non bastano a risollevare le sorti della canzone popolaresca.
Giambattista Basile affermava scoraggiato: "Queste canzoni di poeti moderni, che suonano di notte, non toccano il vivo! O bei tempi antichi, o canzoni belle, con parole ben fatte e concetti robusti, o musica da fare sbalordire... Oggi, tu non senti mai una buona cosa!".
Tuttavia, il segno di questo secolo è pur rimasto. E’ la celebre Michelemmà (Michela è mia!), attribuita a quel genio bizzarro  che fu Salvator Rosa, nata dopo la rivoluzione di Masaniello.
Nelle opere coeve del Cortese e del Basile affiora la nostalgia per il bel tempo passato, per le forme antiche e per gli effetti di abbellimento vocale tipici degli stili esecutivi dei musici locali.
Se penuria di canzoni c'è stata, probabilmente lo si deve anche alla mancata ricerca operata all'interno delle opere scritte per il teatro che grande fortuna cominciavano a trovare presso il popolo; cito qualche esempio: "Le figliole che n'hanno ammore" del Cortese, "La rosa", ecc. Altra considerazione importante è che il ‘600, il secolo del Barocco, vede anche la nascita di Pulcinella, di quel grandissimo attore comico che fu Silvio Fiorillo. Vediamo altresì nascere e affermarsi la letteratura in dialetto: il Cortese, con: "Li travagliuse ammure de Ciullo e Perna"; il Basile con "Lo cunto de li cunte" splendida raccolta di fiabe; e lo Sgruttendio (forse "travestimento" dello stesso Cortese) con "la tiorba a taccone": sono i soli a levare coraggiosamente in alto la loro voce

 

 

 

 

 

 
 
 
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