BOLINA NEWS
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Il ritorno del proletariatoIl ritorno, dopo un non troppo lungo periodo di imborghesimento
incontrollato (che ha comunque fatto la sua parte nella situazione lavorativa-culturale italiana), di una classe sociale di lavoratori sfruttati che si contrappone ad una classe di padroni sfruttatori. Il proletariato ormai da anni era storia vecchia, svanito con la diffusione dei beni propri della cultura borghese alla portata di tutti. Il posto fisso e la sicurezza economica, oltre agli elettrodomestici, alla televisione e all'automobile, veri e propri simboli di benessere per la stessa generazione che, fino a pochi anni prima di possederli, vedeva quegli oggetti come un sogno irraggiungibile. La cultura borghese è così dilagata, tra gli anni '60 e gli anni '80, inglobando anche quelli che fino a due decenni prima si chiamavano proletari, operai, sfruttati. La certezza economica intorpidisce, come ogni certezza. Mentre l'ex-operaio, in questo modo, perdeva di vista la sua eterna lotta con l'oppressore-padrone, sentendo intimamente di aver vinto quella guerra, ecco che i padroni si spersonalizzavano, diventando società per azioni, cooperative, compagnie, multinazionali. Forti di questa spersonalizzazione hanno potuto reclamare quella caratteristica che gli era stata, temporaneamente, tolta: la possibilità di sfruttare. La legge Biagi (l. 30/2003) ha ridato nelle mani di questi padroni spersonalizzati (e quindi per molti versi inattaccabili) la vita degli impiegati. La regolarizzazione del precariato ha portato il ritorno di una vera e propria classe proletaria, la cui unica caratteristica distintiva, rispetto a quella di cento anni fa, è l'impossibilità di avere una prole, proprio per la certezza di non poter sfamare questa prole. In questo modo viene meno la forza della classe sociale, come anche l'identità, già minata dall'imborghesimento della cultura. Molto facile è abituarsi al lusso mentre molto difficile è accettare di non poter più permetterselo. Se a questo si aggiunge la vertiginosa disoccupazione che permette di trovare facile rimpiazzo all'impiegato licenziato per aver alzato troppo la testa, ci troviamo davanti una vera e propria classe sociale di sfruttati, la cui unica capacità è la forza-lavoro, privi di una identità vera e propria e privi della possibilità di ottenerla, pieni della paura di perdere quel lusso borghese acquisito dopo generazioni di lotte. Le statistiche attribuiscono a questa legge il pregio di aver diminuito esponenzialmente la disoccupazione ma, in realtà, l'ha semplicemente nascosta sotto un velo di carta. E' una legge per le statistiche, non per le persone, una legge inumana. Lo sfruttamento del nuovo proletariato non è estremo come nel secolo scorso, però è più subdolo, generalmente non riduce alla fame vera, anzi, lascia una speranza, nella maggior parte dei casi tradita, lascia l'illusione di avere qualcosa da perdere, qualcosa per cui non vale la pena rischiare e ribellarsi. Qualcosa di cui il nuovo proletario non ha bisogno ma a cui sacrifica la propria libertà. I nuovi padroni hanno capito che spingere alla disperazione è anticostruttivo, hanno capito che non c'è voglia libertà più forte di quella di chi non ha niente da perdere, hanno forse imparato la lezione di Francois Rabelais. Secondo
la buona arte militare, non bisogna mai spingere il nemico alla disperazione perché ridotto agli estremi gli si moltiplicano le forze e gli s'accresce il coraggio che già veniva meno e mancava. Nulla val meglio, con gente sbalordita e sfinita, che lasciarli privi d'alcuna speranza di salvezza. Quante vittorie sono state strappate dai vinti ai vincitori quando questi senza moderazione tentarono di metter tutto a sacco e distruggere totalmente i nemici senza voler lasciarne un solo per diffondere le notizie. A nemico che fugge spalancate tutte le porte e strade e fate loro un ponte d'oro perché scappino. Da IL WRITER - Un giornale libero sulla rete |
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