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Il ritorno del proletariato

Post n°63 pubblicato il 25 Maggio 2007 da Il_Writer
 

immaginefoto da www.immaginidistoria.it

Il ritorno, dopo un non troppo lungo periodo di imborghesimento
incontrollato (che ha comunque fatto la sua parte nella situazione
lavorativa-culturale italiana), di una classe sociale di lavoratori
sfruttati che si contrappone ad una classe di padroni sfruttatori.

Il
proletariato ormai da anni era storia vecchia, svanito con la
diffusione dei beni propri della cultura borghese alla portata di
tutti. Il posto fisso e la sicurezza economica, oltre agli
elettrodomestici, alla televisione e all'automobile, veri e propri
simboli di benessere per la stessa generazione che, fino a pochi anni
prima di possederli, vedeva quegli oggetti come un sogno
irraggiungibile.

La cultura borghese è così dilagata, tra gli
anni '60 e gli anni '80, inglobando anche quelli che fino a due decenni
prima si chiamavano proletari, operai, sfruttati.

La certezza economica intorpidisce, come ogni certezza.
Mentre
l'ex-operaio, in questo modo, perdeva di vista la sua eterna lotta con
l'oppressore-padrone, sentendo intimamente di aver vinto quella guerra,
ecco che i padroni si spersonalizzavano, diventando società per azioni,
cooperative, compagnie, multinazionali.

Forti di questa
spersonalizzazione hanno potuto reclamare quella caratteristica che gli
era stata, temporaneamente, tolta: la possibilità di sfruttare.

La legge Biagi (l. 30/2003)
ha ridato nelle mani di questi padroni spersonalizzati (e quindi per
molti versi inattaccabili) la vita degli impiegati. La regolarizzazione
del precariato ha portato il ritorno di una vera e propria classe
proletaria, la cui unica caratteristica distintiva, rispetto a quella
di cento anni fa, è l'impossibilità di avere una prole, proprio per la
certezza di non poter sfamare questa prole. In questo modo viene meno
la forza della classe sociale, come anche l'identità, già minata
dall'imborghesimento della cultura.

Molto facile è abituarsi al lusso mentre molto difficile è accettare di non poter più permetterselo.
Se
a questo si aggiunge la vertiginosa disoccupazione che permette di
trovare facile rimpiazzo all'impiegato licenziato per aver alzato
troppo la testa, ci troviamo davanti una vera e propria classe sociale
di sfruttati, la cui unica capacità è la forza-lavoro, privi di una
identità vera e propria e privi della possibilità di ottenerla, pieni
della paura di perdere quel lusso borghese acquisito dopo generazioni
di lotte.

Le statistiche attribuiscono a questa legge il pregio
di aver diminuito esponenzialmente la disoccupazione ma, in realtà,
l'ha semplicemente nascosta sotto un velo di carta. E' una legge per le
statistiche, non per le persone, una legge inumana.

Lo
sfruttamento del nuovo proletariato non è estremo come nel secolo
scorso, però è più subdolo, generalmente non riduce alla fame vera,
anzi, lascia una speranza, nella maggior parte dei casi tradita, lascia
l'illusione di avere qualcosa da perdere, qualcosa per cui non vale la
pena rischiare e ribellarsi.

Qualcosa di cui il nuovo proletario non ha bisogno ma a cui sacrifica la propria libertà.
I
nuovi padroni hanno capito che spingere alla disperazione è
anticostruttivo, hanno capito che non c'è voglia libertà più forte di
quella di chi non ha niente da perdere, hanno forse imparato la lezione
di Francois Rabelais.


Secondo
la buona arte militare, non bisogna mai spingere il nemico alla
disperazione perché ridotto agli estremi gli si moltiplicano le forze e
gli s'accresce il coraggio che già veniva meno e mancava. Nulla val
meglio, con gente sbalordita e sfinita, che lasciarli privi d'alcuna
speranza di salvezza.

Quante
vittorie sono state strappate dai vinti ai vincitori quando questi
senza moderazione tentarono di metter tutto a sacco e distruggere
totalmente i nemici senza voler lasciarne un solo per diffondere le
notizie. A nemico che fugge spalancate tutte le porte e strade e fate
loro un ponte d'oro perché scappino.




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