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Messaggi di Novembre 2014

Cineforum 2014/2015 | 25 novembre 2014

Post n°212 pubblicato il 24 Novembre 2014 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

 

LUNCHBOX

Titolo originale: Dabba
Regia: Ritesh Batra
Sceneggiatura: Ritesh Batra
Fotografia: Michael Simmonds
Musiche: Max Richte
Montaggio: John F. Lyons
Scenografia: Shruti Gupte
Interpreti: Irrfan Khan (Saajan Fernandez), Nimrat Kaur (Ila), Nawazuddin Siddiqui (Shaikh), Denzil Smith (signor Shroff), Bharati Achrekar (signora Deshpande), Nakul Vaid (marito di Ila), Yashvi Puneet Nagar (Yashvi), Lillete Dubey (mamma di Ila
Produzione: Anurag Kashyap, Guneet Monga, Arun Rangachari per Sikhya Entertainment/Dar Motion Pictures/NFDC, Roh Films/Asap Films/Cine Mosaic
Distribuzione: Academy Two
Durata: 105’
Origine: India, Francia, Germania, 2013


Quello dei Dabbawallahs ("Dabba" è il titolo originale del film) è uno dei tanti ‘miracoli’ di Mumbai, la città più densamente popolata dell'India: sono i trasportatori che ogni giorno consegnano circa 200.000 pasti caldi direttamente dai fornelli delle abitazioni nelle periferie fino alle scrivanie degli uffici del centro. Un sistema di consegna impeccabile, studiato anni fa anche dall'Università di Harvard, che è rimasto praticamente immutato dalla fine dell'800 e che consente a impiegati e studenti di mangiare ogni giorno il cibo preparato a casa: una staffetta di più di cinquemila fattorini che si muovono tra biciclette e treni locali, un sistema perfetto nel caos dei milioni di abitanti che a loro volta si muovono da casa al lavoro, che mediamente contempla un solo errore ogni milione di consegne. E proprio questo lunchbox, quell'uno su un milione che viene consegnato per errore all'indirizzo sbagliato, fornisce all'esordiente regista Ritesh Batra, il pretesto per raccontare questa sorprendente storia di amore ‘epistolare’ che è molto di più di una commedia sentimentale in agrodolce. "The Lunchbox", premiato dal pubblico a Cannes alla Settimana della Critica, prodotto e sviluppato in collaborazione con il TorinoFilmLab, è un piccolo miracolo di poesia e semplicità, che parla di cibo, di solitudine e di sentimenti che si risvegliano; e di come il caso, il destino e soprattutto la speranza di un amore possano rimettere in moto il desiderio di vita. Ila (Nimrat Kaur) è una casalinga che riversa tutta la sua passione nelle ricette che prepara per il marito che invece la trascura. Ma per errore il suo paniere viene recapitato ogni giorno sulla scrivania di Saajan (Irrfan Khan), impiegato alle soglie della pensione dopo 35 anni di lavoro all'ufficio reclami, vedovo e solitario.
La frustrazione di Ila per la mancanza di attenzioni del marito, che non sembra neanche accorgersi che il cibo che mangia non è preparato da sua moglie, la spinge a scrivere a questo sconosciuto che invece sembra apprezzare le sue ricette e la sua cucina, per ringraziarlo di questa soddisfazione involontaria che gli ha provocato facendole tornare a casa il cestino completamente ripulito. Tra Ila e Sajjan comincia uno scambio di lettere, che porta i due a confessarsi le loro solitudini, le loro paure, le nostalgie per i sogni andati. Nella grande città, tra milioni di individui che ogni giorno si accalcano l'uno sull'altro, scontrandosi senza mai incontrarsi, senza mai fermarsi a pensare alla propria vita, un uomo e una donna che non si sono mai visti, che una possibilità su un milione ha messo per caso in contatto, condividono invece un'intimità che la metropoli rende impossibile e si soffermano a pensare a cosa ne sarà delle proprie vite. E grazie al miraggio di un amore ricominciano a sperare. Un film assolutamente off-Bollywood, fuori dai canoni colorati e variopinti del chiassoso cinema di genere indiano, una commedia sentimentale totalmente inedita nel suo rigore formale e soprattutto nel non abbandonarsi mai, neanche per un momento, ad alcun cliché o al facile romanticismo, inevitabile di solito nelle commedie rosa di genere di produzione internazionale.
«La strada del cuore passa attraverso lo stomaco», ma questa non è una commedia culinaria che segue la moda del momento: le riflessioni sull'esistenza che si scambiano per lettera i due protagonisti, il risveglio delle loro speranze imprigionate nella solitudine di un matrimonio incolore o dalla gabbia invisibile di un passato perduto, sono sorprendentemente profonde, mai banali, come le righe che i due si scrivono, e che raggiungono dei momenti di delicatezza e poesia non comuni nella loro semplicità. I due straordinari protagonisti, misurati, intensi nella loro austera serietà, sono sempre credibili anche quando la storia assume i contorni della favola: sentono le stesse canzoni, vedono le stesse immagini, vivono le stesse situazioni, condividono senza conoscersi, ed è il potere della condivisione e il desiderio di essa che li risveglia, ancora prima dell'amore, che rimane inespresso, solo evocato, perché «dimentichiamo le cose quando non abbiamo qualcuno a cui raccontarle».
La metropoli sullo sfondo è l'altra protagonista, con i suoi ritmi e la sua frenesia, le persone in continuo movimento, le molteplici realtà all'interno di Mumbai, mondi diversi uniti da un filo sottile: nella versione originale i protagonisti parlano in inglese o in hindi a seconda della classe sociale, e questo li rende ancora più distanti, e rende ancora più miracoloso il loro trovarsi. «A volte il treno sbagliato ti porta alla stazione giusta», la fiducia nel caso e nel destino, che ci lascia con la possibilità di credere che tutto possa accadere nella vita, che si possa ritornare a sperare, sono la vera forza del film: il desiderio di cambiamento, di tornare ad essere felici, che grazie ad un piccolo miracolo avviene dentro di noi, è più importante di qualsiasi scontato happy ending. Si esce dal cinema con pudica commozione, voglia di un piatto di agnello speziato con naan, e di cercare sull'atlante il Bhutan, dove «invece del prodotto interno lordo, hanno la felicità interna lorda».
Alessandro Antinori, Movie Player


Un piccolo film indiano. (……) un film, delicato e gustoso, esattamente come i manicaretti che fanno da motore a questa storia d'amore e di riscatto. Ambientato in una Mubai contemporanea, caotica ed indifferente, sospesa tra modernità e tradizione, il film ci racconta l'incontro del destino tra una giovane moglie prigioniera del suo infelice matrimonio ed un impiegato di mezza età, vedovo e «prigioniero» a sua volta del ricordo della sua vita precedente. Come avviene l'incontro? Lo dice il titolo: "Lunchbox", le ‘gavette’ per il pranzo che a Mubai sono un'istituzione da oltre cent'anni. Madri e mogli a casa preparano i pasti per i loro cari che poi, nei lunchbox, è affidano ai dabbawallahs, un esercito di fattorini che attraverso bici, treni e carretti li recapitano ancora caldi sulle scrivanie degli uffici o sui banchi di scuola, per poi riconsegnarli vuoti alle casalinghe nel pomeriggio. Un sistema infallibile, ma che in questo caso il destino vuole fallace. Così che il pranzo destinato al marito della giovane e bella Ila finisce sulla scrivania di Saajan! Da vedere.
Gabriella Gallozzi, L’Unità


RITESH BATRA
Filmografia:
Lunchbox (2013)


Martedì 2 dicembre 2014:
IL VENDITORE DI MEDICINE di Antonio Morabito, con Claudio Santamaria, Isabella Ferrari, Evita Ciri, Marco Travaglio

 

 

 

 

 

 
 
 

CIneforum 2014/2015 | 18 novembre 2014

Post n°211 pubblicato il 17 Novembre 2014 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

 

VIA CASTELLANA BANDIERA

Regia: Emma Dante
Soggetto: dal romanzo omonimo di Emma Dante (ed. Rizzoli)
Sceneggiatura: Emma Dante, Giorgio Vasta, Licia Eminenti (collaborazione)
Fotografia: Gherardo Gossi
Musiche: Fratelli Mancuso
Montaggio: Benni Atria
Scenografia: Emita Frigato
Costumi: Italia Carroccio
Suono: Paolo Benvenuti, Simone Paolo Olivero
Interpreti: Emma Dante (Rosa), Alba Rohrwacher (Clara), Elena Cotta (Samira), Renato Malfatti (Saro Calafiore), Dario Casarolo (Nicolò), Carmine Maringola (Filippo Mangiapane), Sandro Maria Campagna (Santo), Elisa Parrinello (Concetta), Giuseppe Tantillo (Salvatore), Daniela Macaluso (Maria Grazia), Marcella Colaianni (Patrizia), Giacomo Guarneri (Natale)
Produzione: Marta Donzelli, Gregorio Paonessa, Mario Gianani, Lorenzo Mieli, Elda Guidinetti, Andres Pfaeffli, Marianne Slot per Vivo Film/Wildside/Ventura Film/Slot Machine con Rai Cinema in coproduzione con Rsi Radiotelevisione Svizzera/Srg Ssr, in collaborazione con Istituto Luce Cinecittà
Distribuzione: Istituto Luce Cinecittà
Durata: 90'
Origine: Italia, Svizzera, Francia, 2013
Coppa Volpi a Elena Cotta per la migliore interpretazione femminile, premio Francesco Pasinetti a Elena Cotta e Alba Rohrwacher come migliori attrici, premio Lina Mangiacapre, menzione speciale del premio Giovani Giurati del Vittorio Veneto Film Festival e premio Soundtrack Stars per la miglior colonna sonora alla 70. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia (2013)

Quando nel celebre racconto di Melville, Bartleby lo scrivano decide senza motivo di fermarsi, rispondendo a ogni ordine che gli viene dato la stessa identica frase - «preferirei di no» - il mondo intorno va nel panico. Perché l'avrà fatto? Cosa ci starà dicendo? L'effetto è quello dell'immediato cataclisma. Basta che per un momento, nel susseguirsi degli eventi ripetitivi della quotidianità, vi sia un piccolo atto di sottrazione e rottura, che tutto da un momento all'altro crolla.
Succede questo in "Via Castellana Bandiera", bell'esordio cinematografico della regista di teatro Emma Dante: due macchine, guidate da due donne, si incontrano in una stretta via della periferia di Palermo. Non c'è spazio, una delle due deve tornare indietro, ma entrambe 'preferirebbero di no'. Nessuna ha intenzione di cedere. Passano i secondi, i minuti, le ore... persino i giorni. Che si fa?
Lo stallo attorno cui si costruisce tutto il film diventa uno spazio di tensione dialettica a metà tra l'impasse che paralizza negativamente e il momento di verità in cui tutti gli attori in campo mettono in discussione le loro vite. Via Castellana Bandiera è teatro di un evento indecidibile: può andare in una qualunque direzione eppure nulla si muove. Molte persone compaiono sulla scena, si muovono attorno alle macchine, si conoscono, succedono tante cose, nascono amicizie, rivelazioni, ma tutto rimane - anche per convenienza di qualcuno - bloccato.
Ma Emma Dante non si limita a questo, perché non si capirebbe il suo film senza la riflessione sul femminile che lo attraversa. Alla guida delle due macchine ci sono due donne: giovane, lesbica, appena entrata in una crisi di coppia l'una; anziana, muta e cocciuta l'altra. Sono diversissime eppure i loro destini si legano l'un l'altro. Tra le due inizia 'una lotta di puro prestigio', come direbbe Hegel, senza alcun motivo eppure anche senza pietà. Non dormono, non mangiano, si scrutano. Quando una fa la pipì in mezzo alla strada anche l'altra la segue. Quando una butta il cibo in segno di sfida, anche l'altra ripete lo stesso gesto. Perché questo sono le lotte di puro prestigio: si è nemici ma ci si specchia anche l'uno nell'altro. Le due donne sono cocciute («vediamo chi ha le corna più grandi») ma in questo gioco di sguardi silenzioso si riconoscono anche. Se però Emma Dante avesse davvero voluto fare un western, avrebbe dovuto spingere più convintamente sulla plasticità dello stallo, deprivarlo fino in fondo di profondità, storia, motivazioni. Invece non resiste alla tentazione di dirci che Sonia è già stata lì, che Samira sta rielaborando un lutto. Lo stallo viene riportato a una causa, a una biografia, a un motivo. Ci viene spiegato, in poche parole. Come si vede persino un po' didascalicamente nella frase di Giorgio Caproni che chiude un film comunque convincente: «Constatazione. Non c'ero mai stato, m'accorgo che c'ero nato».
Pietro Bianchi, Cineforum

(......) tradurre per il cinema "Via Castellana Bandiera" (romanzo scritto dalla stessa Dante, edito da Rizzoli nel 2009) è già di per sé un'idea che poteva presentare più di qualche insidia; "impazienza", la stessa che - immaginiamo - ha condizionato la regista siciliana nel mettere in scena quella che, a tutti gli effetti, è una metafora neanche troppo velata sul pantano in cui ci troviamo da qualche tempo: una domenica pomeriggio qualsiasi, nel caldo torrido di Palermo, due autovetture si ritrovano muso contro muso in un budello di strada, Via Castellana Bandiera appunto. Rosa e Clara (Dante e Rohrwacher) da una parte, la numerosissima famiglia Calafiore dall'altra, con al volante l'anziana Samira (Elena Cotta): basterebbe che una delle due macchine facesse qualche metro in retromarcia per permettere all'altra di procedere, ma non se ne parla. Rosa e Samira hanno deciso di sfidarsi in un duello che non prevede prigionieri, e la situazione di stallo assume con il passare dei minuti contorni sempre più grotteschi, poi drammatici.
Il film di Emma Dante sorprende per la ricerca mai artificiosa di un linguaggio che si mischia, anche esteticamente, al territorio, reso quanto mai naturale dalla prova di tutti gli interpreti secondari, quasi tutti provenienti dalla Compagnia Sud Costa Occidentale della regista, più le due 'scoperte' Renato Malfatti (il carismatico e massiccio genero di Samira), nella vita parcheggiatore dell'Arenella, e Dario Casarolo (minorenne palermitano che interpreta il nipote della donna).
Un atipico western governato dal gentil sesso, con gli uomini convinti di poterne manovrare le gesta (al punto di organizzare anche delle scommesse 'pilotate' sull'esito della sfida...): il muro contro muro, però, non si risolverà così facilmente. Perché da una parte c'è quello che la stessa Dante definisce un 'frangiflutti', Samira, muta per tutto il film (ma resa fortemente espressiva dalla gestualità e dagli sguardi dell'ottima Elena Cotta, premiata con la Coppa Volpi a Venezia), monolite al di sopra di ogni cosa, immobile anche di fronte al corso degli eventi, portatrice di un ostruzionismo (quello del quartiere) che prende le mosse da una 'questione di principio'; dall'altra una donna, Rosa, tornata controvoglia (e per sbaglio) nei vicoli della propria infanzia, bloccata in una situazione - anche sentimentale, con Clara - che la vede impossibilitata a scegliere: davanti a lei c'è il crash, alle spalle un precipizio (letteralmente). Basterebbe fare una piccola "manovra", ma retrocedere da un'impuntatura - a volte - è più facile a dirsi che a farsi. Bellissimo il finale, camera fissa sulla via popolata dalla corsa affannata e sgraziata dell'intero quartiere, contrappuntata da "Cumu è sula la strata" dei fratelli Mancuso: chapeau.
Valerio Sammarco, Cinematografo.it

EMMA DANTE
Filmografia:      
Via Castellana Bandiera (2013)

Martedì 25 novembre 2014:
LUNCHBOX di Ritesh Batra, con Irrfan Khan, Nimrat Kaur, Nawazuddin Siddiqui, Denzil Smith

 

 
 
 

Cineforum 2014/2015 | 11 novembre 2014

Post n°210 pubblicato il 10 Novembre 2014 da cineforumborgo
 
Foto di cineforumborgo

DIETRO I CANDELABRI

Titolo originale: Behind the candelabra
Regia: Steven Soderbergh
Soggetto: basato sul libro di memorie “Dietro i candelabri. La scandalosa vita di Valentino Liberace, il più grande showman di tutti i tempi” di Scott Thorson e Alex Thorleifson (ed. Newton Compton)
Sceneggiatura: Richard LaGravenese
Fotografia: Steven Soderbergh, Peter Andrews
Musiche: Marvin Hamlisch
Montaggio: Steven Soderbergh, Mary Ann Bernard
Scenografia: Howard Cummings
Arredamento: Barbara Munch
Costumi: Ellen Mirojnick
Effetti: Josh Hakian
Interpreti: Michael Douglas (Liberace), Matt Damon (Scott Thorson), Dan Aykroyd (Seymour Heller), Scott Bakula (Bob Nero), Rob Lowe (dott. Jack Startz), Debbie Reynolds (Frances Liberace), Tom Papa (Ray Arnett), Paul Reiser (mr. Felder), Bruce Ramsay (Carlucci), Nicky Katt (Mr. Y), Cheyenne Jackson (Billy Leatherwood), Mike O'Malley (Tracy Schnelker), Boyd Holbrook (Cary James), Jane Morris (Rose), Garrett M. Brown (Joe Carracappa), Eric Zuckerman (Schumacher), Deborah Lacey (Gladys), Barbara Brownell (Angie Liberace), Nikea Gamby-Turner (Dorothy), Pat Asanti (George Liberace), Casey Kramer (Dora Liberace), Kiff VandenHeuvel (Wayne), Shaunt Benjamin (Raymond Carrillo), Jerry Clarke (dott. Ronald Daniels)
Produzione: Susan Ekins, Gregory Jacobs, Michael Polaire per HBO Films
Distribuzione: 01 Distribution
Durata: 118’
Origine: U.S.A., 2013

Virtuoso del pianoforte osannato e strapagato, tra gli anni ‘50 e i ’70, Valentino Liberace, Lee per gli intimi, fu la creatura più incredibile partorita dallo show-biz americano. I suoi spettacoli, quintessenza del kitsch a metà tra il look del ‘glam rock’ e la pura cafonaggine, sono ricostruiti da Steven Soderbergh in un film sorprendente, che prende in contropiede le regole del biopic d’artista: genere molto codificato, come si sa, tendente a procedere per tappe obbligate (la difficile ascesa, la fama, la caduta, il ritorno trionfale...) e per cliché. Niente di tutto questo in “Dietro i candelabri”; che, a rigore, non si può dire neppure un biopic. Liberace, infatti, è osservato attraverso gli occhi di un altro personaggio: Scott Thorson, giovane provinciale orfano che fu suo amante e convivente per cinque anni a partire dal 1977. Bisessuale, Scott ha quarant’anni meno di Lee, ma non è un gigolo che voglia approfittare dell’enorme ricchezza dello showman. All’inizio, anzi, si ritrova disarmato dinanzi al mondo frivolo e luccicante in cui è inaspettatamente immesso; tanto che deve compiere grossi sforzi per adattarvisi. Affascinato dalla personalità dominatrice di Lee, che con i suoi ‘protetti’ si comporta come un Dracula in paillettes, il giovane si lascia plagiare al punto di sottoporsi a un lifting del dottore-macellaio Startz per somigliare al suo mentore da giovane. Anche Liberace, del resto, prova un affetto sincero per Scott, che adotta (quasi) giuridicamente. Salvo poi stancarsi di lui, soppiantarlo con un nuovo ‘toy boy’ e cacciarlo di casa come una scarpa vecchia, deformato dalla chirurgia e succube della droga. A dispetto di ciò il film, sceneggiato da Richard LaGravenese sulla base del libro di memorie di Thorson, è una storia d’amore, intensa e con momenti di inaspettata dolcezza; e in cui la relazione omosessuale è trattata perfino con toni di prosaicità coniugale. Così sembra assurdo che gli studios hollywoodiani lo abbiano considerato ‘troppo gay’, rifiutando di produrlo; tanto che Soderbergh lo ha realizzato per la rete televisiva HBO (in America non è uscito nelle sale, ma si è visto solo in tv; anche se con un’audience eccezionale). La cosa migliore di tutte, però, è l’equilibrio tra il rispetto per i personaggi (tanto più notevole trattandosi di gente dalle vite abnormi) e l’ironia che traversa la maggior parte delle scene; senza scadere nella caricatura ma tenendo la giusta distanza critica tra l’osservatore e il mondo che rappresenta, regno della superficialità e dell’apparenza più estreme. Il contesto sovraccarico e terribilmente volgare in cui evolve la relazione (Liberace si immagina erede di Ludwig II di Baviera e vive in una villa trompe-l’oeil non meno cafona dei palcoscenici di Las Vegas dove si esibisce) non spegne la forza drammatica delle situazioni, che procedendo nel tempo assumono toni più seri e perfino dolorosi. E, alla fine, la rappresentazione di quell’universo artificiale arriva a evocare il cinema di Federico Fellini. D’obbligo spendere una parola sulle interpretazioni, che sono notevoli. Sia quella di Michael Douglas, capace di rendere umano e perfino simpatico un personaggio che, per le sue azioni, potrebbe risultare odioso. Sia quella di Matt Damon, che a quarant’anni suonati accetta la sfida di interpretare uno Scott molto più giovane (quando la relazione ebbe inizio aveva diciott’anni) senza che la cosa risulti mai ridicola.
Roberto Nepoti, La Repubblica

Virtuoso del piano, acclamato showman e per anni indiscussa star dell'Hilton di Las Vegas, Valentino Liberace usava presentarsi in scena sfavillante di lustrini e avvolto in pellicce come fosse una drag-queen. E gay lo era, però guai a scriverlo! Sulla base di una solida sceneggiatura di LaGravenese ispirata alle memorie “Behind the Candelabra” di Scott Thorson - schiavizzato amante dell'entertainer fra il 1976 e l''82 - il film ripercorre le tappe di quell'amore dal corteggiamento alla rottura, con Scott perso nella cocaina e Liberace in cerca di nuove prede prima di scivolare nella morte per Aids (1987). In una dosata miscela di commedia e dramma, la regia di Soderbergh assicura un'impeccabile intelaiatura formale in bilico fra vita e spettacolo, ma il valore assoluto della pellicola prodotta dalla televisiva HBO (e vincitrice di 11 Emmy) è la formidabile personificazione di Michael Douglas, che fra kimoni e parrucche fa emergere dell'istrionico professionista i contraddittori aspetti di genuina gentilezza e spietato calcolo. Nei panni del biondo, giovanissimo Scott, il quarantenne Matt Damon si intona al gioco indossando temerari slip di strass, e grazie ai due attori, la discutibile storia d'amore diventa autentica e persino commovente.
Alessandra Levantesi Kezich, La Stampa

STEVEN SODERBERGH
Filmografia:
Sesso, bugie e videotape (1989), Delitti e segreti (1991), Piccolo, grande Aaron (1993), Torbide ossessioni (1995), Out of Sight (1998), L'inglese (1999), Erin Brockovich - Forte come la verità (2000), Traffic (2000), Ocean's Eleven - Fate il vostro gioco (2001), Full Frontal (2002), Solaris (2002), Eros (2004) (ep."Equilibrio"), Ocean's Twelve (2004), Bubble (2005), Intrigo a Berlino (2006), Ocean's 13 (2007), Che - Guerriglia (2008), Che - L'Argentino (2008), The Girlfriend Experience (2009), The Informant! (2009), Contagion (2011), Knockout - Resa dei conti (2011), Magic Mike (2012), Dietro i candelabri (2013), Effetti collaterali (2013), A Confederacy of Dunces (2014), The Knick (2014)

 

Martedì 18 novembre 2014:
VIA CASTELLANA BANDIERA di Emma Dante, con Emma Dante, Alba Rohrwacher, Elena Cotta, Renato Malfatti

 

 

 
 
 

Cineforum 2014/2015 | 4 novembre 2014

Foto di cineforumborgo

SOLO GLI AMANTI SOPRAVVIVONO

Titolo originale: Only lovers left alive
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Fotografia: Yorick Le Saux
Musiche: Jozef van Wissem, Sqürl (musiche addizionali)
Montaggio: Affonso Gonçalves
Scenografia: Marco Bittner Rosser
Arredamento: Christiane Krumwiede, Selina van den Brink
Costumi: Bina Daigeler
Interpreti: Tom Hiddleston (Adam ), Tilda Swinton (Eve), Mia Wasikowska (Ava), John Hurt (Marlowe), Anton Yelchin (Ian), Jeffrey Wright (dott. Watson ), Slimane Dazi (Bilal), Carter Logan (Scott)
Produzione: Reinhard Brundig, Jeremy Thomas per Recorded Picture Company (RPC)/Pandora Filmproduktion, in coproduzione con ARDD Degeto/Lago Film/Neue Road Movies
Distribuzione: Movies Inspired (2014)
Durata: 123’
Origine: Germania, Gran Bretagna, Francia, Cipro, 2013

Jim Jarmusch non era tra i nostri registi preferiti (di solito chi lo ama tanto ama tanto anche John Fante, dobbiamo confessare che neppure Arturo Bandini è tra i nostri prediletti). Fino ai vampiri di questo film. Tilda Swinton e Tom Hiddleston sono belli, sexy, elegantissimi, innamorati dopo secoli di matrimonio, splendidi conversatori e grandi lettori. La prima idea geniale è stata accoppiarli. Lei in gara con David Bowie per la parte della donna ‘che cadde sulla terra’. Lui che già in “Thor” di Kenneth Branagh aveva un cappottone da dandy, i capelli lunghi e uno sguardo che nel fumetto della Marvel non avevamo notato. Joss Whedon in “The Avengers” aveva fatto un altro passetto avanti, e da lì al vampiro è un attimo. Gli sposi vampiri vivono uno a Detroit, dove Adam colleziona vecchie chitarre e vinili, e l’altra a Tangeri, dove Eve passeggia nei bar con Christopher Marlowe (l’attore è John Hurt, da secoli si lamenta perché Shakespeare gli ha rubato i drammi ed è diventato famoso al posto suo). Lei ha anche una sorella: Mia Wasikowska che decisamente preferiamo pallida tra i velluti, non abbronzata in cotonina a fiori tra i cammelli di “Tracks”. Il ricongiungimento familiare nella casa di Detroit crea qualche problema, con la cognata mina vagante. Mancano i deliziosi ghiaccioli sanguigni con cui Eve si rinfrescava a Tangeri, restano le fabbriche dismesse da visitare e i fan che stanno sotto casa di notte per sentire la musica appena composta (altre rivendicazioni «Ho dato un preludo a Chopin»). Noi umani per loro siamo ‘zombie’. Non per rendere omaggio a “The Walking Dead”. Perché non sappiamo godere le grandi cose della vita. Le piccole cose della vita hanno stancato noi, figuriamoci se i vampiri con secoli di esperienza (e di noia) cascano nella trappola.
Mariarosa Mancuso, Il Foglio

«La nuova creatura non fa che dare nomi a tutto ciò che la circonda» si lamentava il primo uomo in “Il diario di Adamo ed Eva” di Mark Twain, raccolta di scritti che dava voce ai pensieri impertinenti degli amanti del peccato originale. Una partitura a due sulla gioia e il dolore di nascere complementari, di essere gli unici umani viventi, di scoprire il mondo e la sua misura non fatta per l’uomo. Un testo che Jarmusch ammette di aver tenuto presente, senza citarlo, nell’intessere le traiettorie di Adam e Eve, amanti sempiterni che si congiungono e completano nella rotondità perfetta di un Tao disegnata dai loro corpi sul letto. Come la petulante Eva di Twain, anche Eve/Tilda Swinton chiama le cose col loro nome scientifico; ne conosce pure le date di nascita o di fabbricazione, che snocciola al compagno come in un’enciclopedia infinita. Lei è la forza costruttiva del ricordo e dell’archiviazione, l’amore che è sempre feticismo, la passione che si fa inventario per ripercorrere i secoli trascorsi insieme. Perché?Adam e Eve sono non morti, vampiri che hanno attraversato pestilenze e guerre, amandosi sempre, risposandosi di tanto in tanto, fino a giungere allo squallore dell’oggi. Dove gli zombi siamo noi, come Adam/Tom Hiddleston sprezzante ci etichetta: più morti di loro, vaghiamo senza meta, non conosciamo la bellezza. Adam è la forza distruttiva dell’oblio, della noia, dell’oggettività che impedisce di mettere a fuoco le sole cose che contino. Eve da Tangeri vola a Detroit per ricordargliele: una valigia piena di prime edizioni di libri epocali, la gioia di ballare senza una ragione, ghiaccioli al plasma per le giornate calde. Con gli occhiali da sole di notte come i Blues Brothers, i vampiri guidano nella città della Motown, si procurano il sangue con educata routine, come tossici decadenti, e si bastano. Non vale per la sorellina Ava, più primadonna di Eve, per cui l’amore è ancora l’egoistico dissetarsi prosciugando l’altro: gli amanti millenari sanno che il piacere si sorseggia a piccole dosi, si condivide, si offre. Jarmusch fa dei suoi vampiri due antiquari languidi, come lui innamorati dei lampi elettrici di Tesla e dei White Stripes, della lentezza analogica e del vinile, eroi di un romanticismo perduto, stilizzati come bellissime figurine. Parodia elegante, divertissement ironico su melodie di rock funereo, che annichilisce la triste deriva teen ed esangue da anni subìta dal filone dei non morti, Solo gli amanti sopravvivono restituisce ai vampiri la nobiltà perduta, con un canto funebre sorridente: freddo eppure spensierato come un ghiacciolo al sangue.
Ilaria Feole, Film Tv

JIM JARMUSCH

Filmografia: 
Vacation (1980), Stranger Than Paradise - Più strano del Paradiso (1984), Daunbailò (1986), Mystery Train - Martedì notte a Memphis (1989), Taxisti di notte (1991), Coffee and Cigarettes III (1993), Dead Man (1995), Year of the Horse. L'anno del cavallo (1997), Ghost Dog - Il codice del samurai (1999), Ten Minutes Older: The Trumpet (ep.) (2002), Coffee & Cigarettes (2003), Broken Flowers (2005), The Limits of Control (2009), Solo gli amanti sopravvivono (2013)

Martedì 11 novembre 2014:
DIETRO I CANDELABRI di Steven Soderbergh, con Michael Douglas, Matt Damon, Dan Aykroyd, Scott Bakula, Rob Lowe
 

 
 
 
 
 

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