CINEFORUM BORGOI film, i personaggi e i commenti della stagione 2019/2020 |
Messaggi di Febbraio 2015
Post n°222 pubblicato il 23 Febbraio 2015 da cineforumborgo
C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK
Titolo originale: The Immigrant Arredamento: David Schlesinger
C'è un grande regista americano da liberare dalla nicchia e da mettere in cornice. Si chiama James Gray. Ha alla spalle quattro film: “Little Odessa”, “'The Yard”, “I padroni della notte” e “Two Lovers”. Il quinto, “C'era una volta a New York” (......). Non è un caso che la denominazione originale, “The Immigrant”, echeggi l'omonimo capolavoro di Chaplin datato 1917: “C'era una volta a New York” è impastato e modellato di quel qualcosa che folgorava le pellicole mute. Già, il melodramma, che è poi, con la famiglia come tema e pendolo ispirativo, il fondamento del cinema di Gray: mélo, contaminato in passato dal thriller o dalla bizzarria di una commedia da alienazione comportamentale, che può, in questa dimensione totalizzante, esplodere e implodere, di emozioni, di dolore, di acuta sofferenza e dissipazione morale dove l'individuo e le regole della comunità non possono non entrare in conflitto. Attraverso una ricostruzione d'epoca esaltante, la macchina da presa arpeggia sui personaggi tuffandoli in un ingranaggio di depravazione, turpitudine, corruzione e sorprendenti scatti di generosità e non immacolato romanticismo. L'occhio di Gray commuove tra pietà, commiserazione e specchio di una normalità abietta dove le 'tortorelle' di Bruno sono in vetrina per i clienti sotto un tunnel di Central Park dopo la cacciata dall'Eden puzzolente del teatro bordello. E per la prima volta Gray sceglie un'eroina come metronomo della storia, come modello di chi lotta per sconfiggere un destino miserando: per Ewa l'interpretazione di Marion Cotillard è uno scandaglio recitativo di valenza indimenticabile con un volto-schermo sul quale scorre la linfa, l'essenza e l'umana cognizione del tradimento, della caduta e del riscatto. Joaquin Phoenix, l'attore feticcio di Gray, è un Bruno bipolare, aggressivo, disarmante, imprevedibile, innamorato, disposto al sacrificio grazie ad un talento che carica l'alter ego di un'energia ad orologeria, alla quale risponde il mago di un Jeremy Renner folletto intenso e dalla duplice marcia tra il seducente e l'ambiguo. La messa in scena di Gray, come nella sequenza dell'epilogo che cita ancora i finali del vagabondo chapliniano ma non con l'ausilio della tendina a cerchio che cattura l'immagine sino a farla sfumare bensì sdoppiando l'inquadratura e la sorte, possiede una maestria così rara nell'Hollywood del Terzo Millennio. “C'era una volta a New York” affascina e turba come l'Ellis Island che i migranti scambiavano per la porta del paradiso per entrare, invece, nei triboli di un inferno da poveracci.
Molto intelligente, forse troppo, James Gray nei quattro lungometraggi passati ci ha abituato a film che di fatto non erano che il loro scheletro, uno scheletro segnatamente letterario. Di carne intorno non se n'è mai vista, nemmeno nel caso di “Two lovers” che pure tentava di rimpolparsi in qualche maniera.
JAMES GRAY
Martedì 3 marzo 2015: NEBRASKA di Alexander Payne, con Bruce Dern, Will Forte, June Squibb, Bob Odenkirk, Stacy Keach
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Post n°221 pubblicato il 15 Febbraio 2015 da cineforumborgo
ZORAN, IL MIO NIPOTE SCEMO Regia: Matteo Oleotto
Come in un dipinto di Caravaggio un raggio di luce trapassa la finestra del bar in cui Paolo Bressan passa le sue giornate, trascinando il suo corpo disfatto tra un bicchiere di vino e l’altro, e lo illumina. Il messaggio di redenzione prefigura la rinascita e il cambiamento che sta per investire la sua vita. Zoran, la preziosa eredità di una zia slovena semi sconosciuta, entra nella sua vita come un angelo e con la sua disarmante semplicità lo sveglia dal torpore e gli concede la possibilità di essere un uomo nuovo.
Per quasi un secolo il territorio di Gorizia ha assistito a frizioni e scontri tra italiani e sloveni. La città divisa in due dal confine paragonata a Berlino tra rancori e risentimenti mai sopiti. Ora anche la Slovenia fa parte dell'Unione europea, il confine è solo un ricordo. Tutto tranquillo, se non ci fosse Paolo Bressan. Paolo si presenta come un alcolista corpulento, con un passato da sciupafemmine che gli è costato l'essere mollato dalla moglie, un presente in cui sembra intento a sciupare se stesso, e un futuro che sembra già sciupato dal passato. Lavora, si fa per dire, presso la mensa di un centro per anziani, il suo chiodo fisso è l'improbabile riconquista della moglie, il suo incubo i vigili che lo puntano ogni sera perché sanno che guida ubriaco. Una speranza si accende quando una zia, slovena e praticamente sconosciuta, muore e a lui spetta un'eredità. Non sono soldi, è Zoran, una ragazzotto con occhiali enormi che parla un italiano arcaico, imparato da tre vecchi libri. Paolo non vede l’ora di scaricarlo in comunità, ma deve aspettare che la burocrazia faccia il suo corso. Solo allora si accorge del particolare talento di Zoran: tira le freccette con abilità mostruosa. E se si potesse cavarne un po’ di Euro? Va subito detto che il racconto è spensierato, da canzone da osteria che magnifica le sorti del vino e rende funebri quelle dell'acqua. Del resto è l'osteria il palcoscenico prediletto da Paolo. E qui però cominciano le difficoltà perché il nostro eroe è un autentico cialtrone, profittatore e anche antipatico, una sorta di italiano medio all'Alberto Sordi con accento veneto e sbronza molesta. E anche l'entusiasmo alcolico rischia di essere arma a doppio taglio, e alla lunga si rischiano solo i postumi. Così si sorride in diverse occasioni di fronte a “Zoran”, ma talvolta la commedia sembra viaggiare con il freno a mano tirato per un protagonista triste e infelice contrapposto a una macchietta in salsa slava. Matteo Oleotto ci si è messo d'impegno per questa sua opera prima realizzata nelle terre natie dove è tornato dopo parentesi di studi di cinema romani. Lui stesso afferma di essere rientrato per occuparsi delle vigne di famiglia. Ma, come si dice, aveva fatto i conti senza l'oste perché il sacro furore dell'arte lo ha spinto a realizzare il suo film.
MATTEO OLEOTTO
Martedì 24 febbraio 2015:
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Post n°220 pubblicato il 09 Febbraio 2015 da cineforumborgo
A PROPOSITO DI DAVIS
Titolo originale: Inside Llewyn Davis
Greenwich Village, 1961. Tra i fumi di mille sigarette un cantante intona una canzone folk. Siamo in uno dei minuscoli locali che hanno reso celebre New York nel secolo scorso e questo momento è l’unico in cui la vita, il destino, la carriera di Llewyn Davis sembrano funzionare.
Nella galleria di perdenti mirabilmente tratteggiata, nella loro carriera, dai Coen, non ci si può sottrarre dal consegnare al loro ultimo nato, Llewyn Davis, un posto speciale. Siamo nel '61, in quel Greenwich Village che tanto ha dato al folk, anche se l'ambientazione precede quel vagito con il quale Bob Dylan cambiò un certo modo di fare musica. Llewyn è un musicista di talento ma è incompreso, è malinconico ma poco socievole, vaga da un divano all'altro cercando di sfuggire a una sfortuna che non lo vuole lasciar stare. (...) La scena più malinconica ed esemplificativa, in pieno stile Coen, è quella nel quale il protagonista, armato solo della sua chitarra, canta al possibile produttore la sua ballata struggente, sentendosi rispondere che con una simile roba di soldi non se ne fanno. La storia musicale dirà l'opposto, ma è chiaro il messaggio che Joel & Ethan lanciano su un certo modo di fare industria, quasi identificandosi con il destino del protagonista di questa Odissea in salsa americana. Il film finisce nello stesso vicolo da dove è partito, quasi a voler sottolineare la circolarità beffarda di certi destini che, come il Monopoli, ti fanno passare ineluttabilmente sempre dal via. Oltre a quella di Llewyn Davis, ottimamente restituita da Oscar Isaac, il film è un intelligente coacervo di figure indimenticabili, pur con rapide apparizioni nella storia. Colonna sonora da brividi, humour nero e pura poesia. I Coen al loro massimo splendore.
JOEL COEN, ETHAN COEN
Martedì 17 febbraio 2015:
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Post n°219 pubblicato il 02 Febbraio 2015 da cineforumborgo
STILL LIFE
Regia: Uberto Pasolini
South London. John May è un impiegato del Comune incaricato di rintracciare i parenti più retti di persone morte in solitudine. Per John non è solo un lavoro, ma - paradossalmente - è una ragione di vita. Quindi John si occupa anche di raggranellare quelle nozioni che gli permettano di scrivere un accalorato elogio funebre e di convincere amici e parenti del defunto a presenziare al funerale. Quando viene licenziato a causa di un ridimensionamento del personale, John dedica tutte le sue energie all’ultimo caso, quello del suo dirimpettaio alcolista morto in solitudine. E intraprende un viaggio che insinua poco a poco nella sua vita colori nuovi, abitudini nuove, atteggiamenti nuovi.
Che la vita di John May, timido e impacciato impiegato comunale, sia all’insegna della sobrietà e della solitudine, lo si può dedurre benissimo già a partire dal nome: comune e ordinario, come i gesti rituali che accompagnano le sue giornate. Il suo compito consiste nell’organizzare i funerali per chi non ha parenti reperibili, e lo svolge con meticolosa dedizione, ai limiti del maniacale. Fino a quando il suo ufficio sarà dislocato e si ritroverà senza lavoro, ma con la ferma intenzione di portare a termine l’ultimo incarico rimasto incompiuto.
UBERTO PASOLINI FILMOGRAFIA Machan (2008), Still life (2012) Martedì 10 febbraio 2015:
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Inviato da: PaceyIV
il 25/02/2020 alle 13:33
Inviato da: Recreation
il 08/02/2018 alle 13:37
Inviato da: minarossi82
il 11/11/2016 alle 18:03
Inviato da: generazioneottanta
il 16/07/2016 alle 19:27
Inviato da: generazioneottanta
il 20/03/2016 alle 10:30