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Il teatro visto da Enrico Fiore

 

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Messaggi del 17/06/2012

Bond, i ricordi al posto della vita

Post n°589 pubblicato il 17 Giugno 2012 da arieleO
 

«La morte è la più certa di tutte le cose eppure è la cosa di cui si dubita di più». È questa, oltre ogni dubbio, la battuta-chiave di «Summer», il dramma di Edward Bond presentato al San Ferdinando, nell'ambito del Napoli Teatro Festival Italia, per la regia di Daniele Salvo. Infatti, centra perfettamente il cuore «filosofico» del testo: che risiede, per l'appunto, nel gioco disperato, e tuttavia inesausto, di mettere la morte fra parentesi.
   C'imbattiamo, qui, in due donne, Marta e Xenia, che si ritrovano in un'isola dell'ex Jugoslavia a quarant'anni di distanza dalla guerra e dall'occupazione nazista. Marta sta per morire. E dunque l'incontro/scontro fra lei e Xenia si svolge come in un limbo e assume i modi di un esorcismo. Bond, uno dei maggiori drammaturghi inglesi contemporanei, guarda nella circostanza a Ibsen: nella sospensione della vita, che si riduce all'attesa della morte, non resta che riempire quel vuoto con i ricordi; e il passato, poiché il teatro non conosce che l'opzione del presente, può rivivere appena sotto specie del processo a cui lo si sottopone.
   D'altronde, anche «Summer» conferma quella ch'è la caratteristica decisiva di Bond: la compresenza della visionarietà e della vicinanza al teatro didascalico di Brecht. Ecco, quindi, che - per esempio - alla tremenda evocazione (davvero degna di Hieronymus Bosch) dei cadaveri gettati in mare dai tedeschi, e che non vogliono saperne di affondare, fa riscontro la puntigliosa terminologia medica con cui Davide, il figlio di Marta, descrive la malattia della madre.
   Infine, a confermare ulteriormente l'alta qualità del testo in parola, arrivano gli squarci di un lirismo nello stesso tempo errabondo e motivatissimo: vedi il desiderio («Volevo volare nella linea di luce sotto la porta») in cui Marta riassume i pensieri sugli ultimi momenti che talora le sono venuti. Ma, rispetto a tutto questo, l'allestimento in scena al San Ferdinando è davvero la contraddizione fatta spettacolo.
   Infatti, non mancano i segni che, giustamente, rimandano all'astrazione: vedi le sette porte (il confine), i due manichini (il simulacro della vita) e, soprattutto, l'orologio senza lancette (il tempo negato). Però, sono segni che vengono neutralizzati da una rappresentazione strenuamente e protervamente attestata sul versante del realismo: vedi gli strilletti nevrotici di Elisabetta Pozzi (Xenia), la faccia imbiancata di Melania Giglio (Marta) e l'italiano stroppiato di Luca Lazzareschi (un tedesco). Peccato, un'occasione persa.

                                        Enrico Fiore

(«Il Mattino», 17 giugno 2012)

 
 
 

Il teatro a Napoli fra Troisi e Siani - 1

Post n°591 pubblicato il 17 Giugno 2012 da arieleO
 


Pubblico qui di seguito (dividendola in tre parti perché questo blog accetta solo messaggi di un certo numero di righe) l'intervista uscita oggi, a firma di Enzo Ciaccio, sul quotidiano on line «Lettera43.it».

   «È convinto che "certe morti sono emblematiche" e che la prematura scomparsa di personaggi come il drammaturgo Annibale Ruccello (che morì a 30 anni) o l’attore Massimo Troisi (che se ne andò a 40 anni) vada interpretata come una sorta di preveggente uscita di scena, anzi un atto di autodifesa "rispetto ai tempi beceri che oggi viviamo e con i quali Ruccello e Troisi mai si sarebbero ritrovati in sintonia".
   Enrico Fiore, critico teatrale nato a Napoli, per gli operatori culturali che contano rappresenta il teatro napoletano: ha raccontato - severo e giusto - quello degli Anni 60 dei grandissimi Totò, Nino Taranto, Peppino ed Eduardo De Filippo, e degli Anni 90 di Toni Servillo e Mario Martone ("Lo ricordo all’esordio, aveva 17 anni") e dello stesso Troisi, il cui talento Fiore scoprì grazie a un fortuito passaggio in auto. E quello di oggi, che a lui appare ridotto a "puro scambio commerciale" nel nome della "necessità di assicurarsi la sopravvivenza", ma anche in grado di far riempire gli stadi a interpreti come Alessandro Siani, uno "tutto forma e niente contenuto".
   Nell’intervista di Fiore con "Lettera43.it", il racconto e gli aneddoti legati all’epoca d’oro del teatro napoletano e lo sguardo - disincantato - sulla realtà attuale.
 
DOMANDA. Come ha conosciuto Massimo Troisi?
RISPOSTA. Una sera, dopo uno spettacolo, un giovanotto che ancora non si chiamava Enzo De Caro mi offrì un passaggio in auto. Non ho la patente, accettai. All’arrivo a casa, a Castellammare, il giovanotto disse: "dotto’, faccio teatro con due amici, presto le chiederemo di venire a vederci".
D. Mantenne la promessa?
R. Due mesi dopo, mi telefonò per invitarmi al teatro Sancarluccio. Era il 1977: lui, Lello Arena e Massimo Troisi (il trio de La Smorfia) recitavano in "Così è (se vi piace)", titolo che parafrasava il "Così è (se vi pare)" di Pirandello.
D. Come fu lo spettacolo?
R. Rimasi sbalordito dalla loro originalità.
D. Perché erano così speciali?
R. Rispetto al solito cabaret politicamente schierato, La Smorfia agiva sul linguaggio: demoliva retorica e luoghi comuni su Napoli usando l’iperbole, il paradosso, la dimensione surreale e poi riconduceva il tutto alla quotidianità dell’uomo comune.
D. Qualche esempio?
R. Il monologo con il Padreterno: senza saperlo, Troisi lì fece surrealismo, espressionismo, dadaismo.
D. Le ricordava qualcuno o qualcosa?
R. L’innocenza autodidatta di Raffaele Viviani, il più grande fra gli autori napoletani, che non a caso oggi viene ripreso da nomi di rilievo internazionale come Cristoph Marthaler e Robert Wilson.

                                            Enzo Ciaccio

                                           (1 - continua)

 
 
 

Il teatro a Napoli fra Troisi e Siani - 2

Post n°593 pubblicato il 17 Giugno 2012 da arieleO
 

Ecco la seconda parte dell'intervista con Enzo Ciaccio, la cui pubblicazione è iniziata nel post precedente.

«D. Troisi figlio di Viviani?
R. Simile è la capacità di tirar giù di peso argomenti aulici fino al livello dei più emarginati o di chi, come gli zingari, è ritenuto border line. Un esempio è la scena dell’Annunciazione, spostata "nell'umile casa di un pescatore" e in cui si irride alla ripetitività del rito codificato.
D. Oppure?
R. L’esercizio di una religiosità basata sul rapporto individuale, ma anche critico e libero verso Dio, che è proprio della cultura ebraica.
D. Ci spieghi.
R. Nel famoso monologo, il Padreterno viene senza complimenti rimproverato da Troisi per i presunti errori commessi durante la creazione.
D. Quale è stato il merito principale di Troisi?
R. L’aver liberato il teatro napoletano dalla sua eterna palla al piede: il bozzettismo naturalistico, che invece abbiamo purtroppo ritrovato di recente nelle commedie di Eduardo De Filippo proposte in Rai da Massimo Ranieri.
D. Come finì quella serata del 1977 in cui conobbe La Smorfia?
R. Mi offrirono un passaggio in auto fino a Castellammare.
D. Un altro.
R. Già. Troisi, fingendo di non aver capito niente, si divertiva a chiedermi allarmato se le cose che stavo dicendo su di loro fossero da considerarsi buone o cattive. Insomma, se doveva ridere o piangere.
D. E poi?
R. Scrissi un articolo su Paese Sera: fu un importante viatico, di cui i tre mi sono sempre stati riconoscenti.
D. A chi somiglia Troisi?
R. A Eduardo De Filippo nella recitazione, a Viviani nei contenuti. Ma l’ironia corrosiva con cui sapeva prendere in giro perfino se stesso era soltanto sua. E resta inimitabile.
D. Come si comporterebbe, oggi?
R. Una sera, ormai famoso, Massimo mi confidò: devo stare attento, mi offrono un sacco di soldi per convincermi a fare cose che non mi piacciono. Ma io non voglio svendermi.
D. Quindi?
R. Ne sono certo: se fosse rimasto fra noi, non avrebbe mai accettato di recitare cose indegne.
D. Avrebbe scelto il cinema o il teatro?
R. Non avrebbe fatto teatro, visto che oggi è un fenomeno puramente mercantile basato sulla pratica degli scambi di spettacoli per allestire cartelloni e sostenere i budget.
D. In che misura Troisi, da vivo, avrebbe condizionato il nostro stile di vita?
R. Non credo che avrebbe inciso in alcuna misura.
D. Perché?
R. Il Troisi di oggi si chiama Alessandro Siani, frutto dei tempi: è uno che tenta invano di imitare Massimo e riempie gli stadi con battute come "secondo me, secondo te, Secondigliano". Che sono pura idiozia».

                                        Enzo Ciaccio

                                        (2 - continua) 

 
 
 

Il teatro a Napoli fra Troisi e Siani - 3

Post n°594 pubblicato il 17 Giugno 2012 da arieleO
 

Questa la conclusione dell'intervista con Enzo Ciaccio, le cui due prime parti sono state pubblicate nei post precedenti.

«D. Di chi è figlio il fenomeno Siani?
R. Di un pubblico che non pensa.
D. Cioè?
R. Siani per me è pura superficie. Dopo un suo spettacolo, non resta niente.
D. Non è un giudizio troppo severo verso il giovane comico?
R. Mi dispiace, ma non è in grado di sostenere neanche quella che tecnicamente si chiama la "carrettella".
D. Cos'è?
R. È la capacità - tipica dei grandi del teatro comico - di riprendere e rilanciare la battuta finale di un monologo riaccendendo a ripetizione risate e applausi in sala.
D. E allora?
R. Un bravo attore, che conosce i tempi giusti, riesce a tirarla avanti divertendo il pubblico anche per 10 minuti: lui, no. Le sue battute fulminee muoiono in sé.
D. Come sta, più in generale, il teatro comico napoletano?
R. È figlio delle tivù locali, a volte cooptato a sproposito a livello nazionale.
D. Se Troisi ci fosse ancora, il teatro napoletano starebbe meglio?
R. Oggi il contenuto non c’è più, tutto è vuota forma: nessuno potrebbe migliorare la triste realtà.
D. Neanche il grande Eduardo?
R. De Filippo fuggì via da Napoli dopo aver proposto un progetto di teatro stabile cui nessuno si degnò di rispondere.
D. Che tempi erano?
R. Erano gli Anni 60, il sindaco era il democristiano Gerardo De Michele. A Napoli il teatro stabile è arrivato con 30 anni di ritardo, quando ormai tutti gli stabili in Italia stavano fallendo.
D. Che ricordo ha dell’autore di "Napoli milionaria!"?
R. Una sera mi disse: "Fiore, si ricordi che con gli attori non bisogna mai parlare".
D. Che cosa intendeva?
R. Mi spiegò che lui, prima di affidare le parti, era solito invitare a pranzo o a cena ciascun attore. Ma tutti, appena si ritrovavano a tavola con l’illustre capocomico, si illudevano di essere diventati già grandi interpreti, di poter cambiare le battute e stravolgere i personaggi a piacimento.
D. Eduardo li perdonava?
R. Mai.
D. Ci racconti un episodio.
R. Una sera, durante lo spettacolo, interruppe all’improvviso la recitazione per infliggere una solenne ramanzina a Pupella Maggio, immensa attrice, ma colpevole di aver pronunciato una battuta con un’intonazione un po’ diversa da come lui aveva comandato».
                                                   Enzo Ciaccio

                                                     (3 - fine)

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 16/02/2008
 

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