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Il ricliclo e la riconciliazione. Per una franca (mente senegalese) collaborazione

Post n°248 pubblicato il 08 Ottobre 2011 da djchi
 
Foto di djchi

 

 

Ore 00.30. Davvero un bel orario per fermarsi a comprare dei dolci. Colpa della concezione tutta senegalese del tempo per cui ogni ora sembra essere buona per fare o per non fare, aprire o chiudere un negozio. Se poi ci aggiungiamo l'associazione problemi di cuore/femmina, che ha come risultato la ciccia (fosse mai che per sbaglio noi donne rispondessimo agli stimoli sentimentali con una mancanza di appetito), il gioco è fatto. E io, guarda caso, abito vicino ad una pasticceria. Decido di prendermi un super bombolone al cioccolato. Nella via verso casa incontro Makele, un ragazzone tarchiato che lavora in spiaggia. Anche lui mangia, camminando con quel passo strascicato che tanto mi aveva colpito vendendo in Senegal la prima volta. Assieme a lui un amico, adolescente che dopo avermi salutato mi allunga il cellulare dicendomi: “Dammi il tuo numero”. Già, perché mai perdere tempo, tanto per tornare al concetto iniziale. Di fronte a casa, sotto la luce di un lampione miracolosamente ritornato in vita, un ragazzo è seduto tranquillo nella sua solitudine, una piccola radiolina accesa e una lattina di coca cola aperta. Anche lui mangia.

Appena mi vede mi dice: “vuoi un morso?”, allungandomi il panino. Sorrido. Amo i dettagli e amo la cortesia. Comincio a credere che la famosa frase “non accettare le caramelle degli sconosciuti” sia stata solo una costruzione sociale inventata per allontanarci dalla gente o per richiuderci meglio nel nostro guscio individualista e timoroso//

 

 

Ore 10.00. Apro le mie mail, prassi quotidiana e noiosa. Spulcio tra le tante di donne che vogliono trasferirsi in Senegal (perché il Senegal è bellissimo, anche se non ci sono mai stata), che noia, che barba, come avrebbe detto la defunta Sandrona nazionale. Rido. Penso alla frase di Vera: “Ma statevene tutte dove siete, che poi mi tocca cambiare di nuovo

paese”. Come inganna il primo sguardo. Anche in questo caso le scienze sociali potrebbero aiutare più di una seduta da uno psico terapeuta. Darsi il tempo di conoscere, scoprire, addentrarsi in un mondo nuovo; imparare a frenare un giudizio superficiale per riuscire ad essere davvero critici, al di là dei sentimenti e della voglia (umanamente innata) di cambiamento. L'Africa è altro, è vero. Ma è anche normalità, ciò che in molti non vogliono vedere. E la normalità porta con sé anche una routine che a volte può diventare soffocante.

 

Apro le mail delle varie scuole. Trovare lavoro non è stato evidente né automatico, anche se il pressapochismo che invade il sistema sociale senegalese ha in egual modo marcito il sistema educativo. Un business sempre più redditizio

che ha visto la prolificazione di numerose scuole professionali e di formazione private. Guarda caso tutte in marketing, management e comunicazione. Gli studenti pagano rette alte, considerati gli stipendi medi ma hanno assicurato un diploma che potrà, forse, dare loro un lavoro. In una società biecamente di immagine e di beni, dove una persona è valutata più per ciò che ha che per ciò che sa o è, perché mai investire sulla cultura? Meglio comprare un diploma

in marketing. “Come riuscire a vendersi, o meglio, come riuscire a comprare qualcuno per arrivare”. Il direttore di una famosa scuola di management mi richiede le copie dei miei diplomi. Bene, penso.Sarebbe bello credere che qualcuno di serio lo si trova, qualcuno che voglia un riscontro pratico al mio CV, indipendentemente dal mio colore di pelle che, in molti altri casi è stata garanzia più che sufficiente. L'email termina con: “per una collaborazione trasparente”. Già. Ripenso al colloquio di qualche giorno prima dove il sedicente direttore, avvolto in un elegante bubù bianco rispose ad una telefonata in viva voce. “Allora come sistemiamo il dossier del figlio del ministro?”, chiedeva la voce di un uomo.

“In realtà potremmo avere dei problemi, il ragazzo non ha nemmeno il diploma di scuola media superiore”, rispose senza battere ciglio il direttore. Continuando poi: “Ma aspettiamo il dossier dalla Francia dove dovrebbe essere scritto che ha frequentato una suola privata superiore. Dovrebbe risolvere il problema”. Eh già, per una collaborazione

trasparente. Déguelé, déguelé//

 

 

Ore 10.45, di un altro lungo giorno. Riflettevo su come per anni avessi avuto vergogna di dire che mi ero laureata in scienze della comunicazione. Io, che mi ero sempre reputata più avanti, ero caduta in pieno nella rete di un marketing

che coinvolse il sistema universitario italiano. In fondo eravamo anche noi tremendamente senegalesi all'epoca. Tutti volevano lavorare nel marketing, in TV, fare i giornalisti, diventare gli ideatori della pubblicità migliore dell'anno, essere dei business men del sistema mediatico. Palle. Hanno costruito ad hoc un corso di laurea che altro non era che una rivisitazione moderna del vecchio corso di laurea in scienze politiche. Ci avevano fregato alla grande. Un pout pourri di tutto ma nessuna reale specializzazione. L'unica fortuna è stata quella di incontrare singoli professori, probabilmente caduti anche loro nella stessa mia rete, che ancora avevano la passione dell'insegnamento e l'etica che il mestiere

imponeva loro. Mi sono innamorata di alcuni di loro, tanta la passione che mettevano in ciò che dicevano. Basta pensare che mi iscrissi ad un corso in metodologia della ricerca storica. No, ripeto, metodologia della ricerca storica, non proprio il corso a cui tutti i ventenni deciderebbero volontariamente di iscriversi. Ma lui, il mitico professor Giuseppe Battelli sapeva rendere interessante anche la materia meno interessante. Fino ad oggi ci sentiamo. Ed è vero. I professori possono segnare la vita di un giovane, se non addirittura cambiarla. Da qualche tempo ho iniziato

ad insegnare. Un sogno realizzatosi in Senegal, il paese che, nonostante tutto, mi ha dato tanto. L'euforia mescolata

all'agitazione per l'inizio di un nuovo capitolo della mia vita mi ha dato il tempo di pensare che alla fine, quella laurea in scienze della comunicazione che io ho tanto odiato (volevo in realtà fare lettere) qui mi era servita. D'altronde basta il titolo. Seduta, osservo i miei studenti. Quasi tutte femmine. Mi guardano annoiate, sono tutte molto belle e tutte ben vestite. Tipico. Chiedo quale tecnica di marketing metterebbero in atto per la promozione di un evento politico. “Darei soldi alla gente”, mi dice una delle ragazze con la penna a toccarsi il labbro. Eh già, dalle torto, ha centrato in pieno la strategia più funzionante. “Sì, ecco, non è eticamente la migliore delle ipotesi” ribatto io. E lei, innocente:

“ma qui, Madame, siamo in Senegal e in Senegal funziona così”. Collaborazione trasparente. Déguelé, déguelé//

 

 

 

Ore 14.00. Torno a casa nel pieno di un

caldo soffocante. Dentro allo diagandiaye il solito trambusto di sederi in movimento e braccia alzate. Un sistema perfettamente funzionante di collaborazione sociale. Nessun posto deve rimanere libero, per cui, come in un domino vivente, ogni persona si piazza a coprire buchi mentre, una lunga catena di mani fa passare monetine fino alla fine del mezzo, al giovane apprendista. Non si può non essere socievoli in un mezzo pubblico. “Buongiorno, salve, come va”, sono d'obbligo. Si chiacchiera pure, a volte. Comincio a notare che la gente non fa più caso al mio colore, diventato nel

tempo un astioso problema. La mia paranoia era diventata insopportabile, ogni piccolo gesto era infatti interpretato come una risposta alla mia palese differenza. No. Non è sempre così. Io rimango una persona come tante. Grazie a Dio. Osservo ogni piccolo particolare, gli addobbi natalizi ormai diventati neri, le foto consunte di lottatori e un ombrellino da bambino attaccato sopra il tettuccio del mezzo. Non ho mai capito perché esistano feticci appesi in ogni diagandiaye. Questione di maraboutage? Non credo. Una volta mi aveva colpito una scarpetta da neonato impiccata con i laccetti sopra l'entrata del mezzo. Un modo forse per ricordare alla madre distratta che il piccolo aveva perso qualcosa. Quell'ombrellino bianco e rosso e gli addobbi natalizi mi hanno fatto sorridere. Sopra il conducente tre grossi buchi lasciavano passare piccoli raggi di sole. Per fortuna non piove. Ah. Forse ho capito a cosa serve l'ombrellino attaccato vicino//

 

 

Ore 14.30. Sono sudata. Tutti sono sudati. E tutti siamo appiccicati l'uno all'altro. No, non mi dà nessun fastidio. Guardo fuori dal finestrino un palazzo a cui è crollata un'intera facciata. Ci sono ancora le strutture in ferro ben

visibili e mattoni penzolanti. Nel resto della casa rimasta in piedi, la gente vive normalmente. Seguo l'immagine girando la testa. Qui non si butta niente. Poco lontano un ragazzo raccoglie bottiglie di plastica, riciclo fai-da-te, penso. Le lava con dell'acqua e le carica sulle spalle. Quelle bottiglie gettate rientreranno nel mercato vendute agli angoli delle strade con acqua ghiacciata o succhi locali. Il viaggio continua nel mezzo di mille piccoli mercatini inventati. Un infinito quadro di oggetti e vestiti arrivati da “laggiù” frutto di non si sa che offerta o raccolta o generoso dono e finiti ammassati nelle strade per essere rivenduti. Riciclo. In una bancarella improvvisata vicino all'università ho trovato una favolosa gonna anni '80 a pois. Ho pensato a chi avesse potuto gettare un capo così. L'ho comprata e l'ho indossata ed ho imparato, in quell'occasione, che tutto può essere riutilizzato. Ore 16.00. Sandaga. Seduta vicino ad una fontana dove non c'è mai stata acqua, rido e scherzo con Cheikh. Non c'è niente di più bello di ritrovare un amico. Di fronte a noi un gruppetto di talibé sistema lo zucchero delle offerte in piccole scatole. Lo rivenderanno poi a vecchie arpie già sedute vicino, pronte all'acquisto. Osservo anche qui, tutto, con minuzia. Le zollette sono accatastate nel marciapiede (controllo qualità) e pazientemente allineate poi, in scatole ritrovate chissà in quale angolo del mercato. Tutto ciò che le persone hanno offerto hai bimbetti, con la speranza che il maraboutage fatto il giorno prima magicamente si avverasse, viene rivenduto al mercato. Il marabout la sera aspetta la quota “partecipativa” di ogni piccolo marmocchio. E ogni piccolo

marmocchio, già esperto contabile, si arrangia nella vendita pur di non essere picchiato. Franca collaborazione religiosa. Déguelé, Déguelé//

 

Ore 18.00. Sempre la solita asociale, sempre la solita rissosa, sempre la stessa Chiara. Quanta umana fragilità e quante poche persone capaci di avere uno sguardo oltre. Se solo arrivaste alla mia anima, quante cose di me capireste, cari amici. Ho il muso e sono seduta in una boutique di Liberté 6. Conosco i ragazzi che ci lavorano anche se non so come si chiamano. Non importa, è un dettaglio. Ne conosco i visi e loro conoscono il mio. Si parla, si discute. Ad un certo punto una moto arriva. Il ragazzo toglie il casco e mi saluta. Inizia a parlami come se mi conoscesse da sempre. Non riesco a non comunicare, sorride. La mia asocialità si sbriciola in un istante. No, non sono tutti calcolatori e neppure tutti razzisti. Il ragazzo riparte dopo dieci minuti ed una piacevole conversazione. Nel cyber a fianco un vecchietto è in piedi. Si sta facendo battere un testo di “riconciliazione” da un giovane. Tradizione e modernità.

In questi giorni in cui due amici hanno litigato per una questione di soldi, questo vecchietto mi fa pensare alla forza del perdono. Riconciliazione. Alle volte vale davvero la pena//

 

 

Ore 00.00. Un nuovo sabato sta per iniziare ma non sarà un sabato come gli altri. Due cari amici si sposeranno in un piccolo mondo a parte. Il viaggio di nozze lo passeranno qui in Senegal. Forse vale davvero la pena andare in

profondità, guardare oltre, osservare i dettagli, perché, come ha scritto un amico oggi su fb: “ogni realtà è buona per imparare”. Déguelé, déguelé//

 

 

 
 
 
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