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Le sorelle Kessler, il barbone bianco e la lezione dei baye fall.

Post n°247 pubblicato il 22 Settembre 2011 da djchi
 
Foto di djchi

Come spesso capita nell'arco della settimana, siamo da Katia. Io e Vera, intendo. Sorelle anche se non dello stesso padre e neppure della stessa madre, che poi se lo dici ad un senegalese, per lui sarà certamente vero. Che siamo sorelle, intendo. Qui sono tutti legati da legami parentali, veri o presunti tali, tutti comunque fratelli e sorelle, stesso padre ma non stessa madre; stessa madre ma non stesso padre; stessa madre e stresso padre; né stessa madre e né stesso padre, eppure fratelli o al massimo cugini. (Uhm) cugini -tratto, barra- cugine. No. Non dirò più niente ormai sulle tante adorate cugine. Siamo sedute e osserviamo. In effetti passiamo ore ad osservare e Katia è davvero “IL” punto strategico. Un micro mondo in cui tutte le contraddizioni senegalesi sono esposte, come la frutta al mercato rionale. Finzione, rappresentazione e realtà coincidono in Senegal dove tutto è il contrario di tutto. Avere come corteggiatore il giurista ricco-io posso fare tutto-io conosco tutti- qui comando io, mi ha spalancato le porte della Dakar ricca e (poco velatamente) mafiosa. Da quando mi hanno visto con lui, tutti mi salutano con riverente leccaculismo, offrendo sempre da bere. Assurdo cosa può fare una vagina. O meglio, assurdo a che livelli di prostrazione può arrivare un uomo che non riesce ad avere la vagina che desidera.

“Ma che gri gri hai?” mi ha chiesto il giurista, ridendo “quando sono entrato mi hanno chiesto tutti di te. Dov'è Diarra, quando arriva Diarra, che fa Diarra. E che gli hai fatto?”.

“Saranno i tatuaggi” rispondo veloce mentre ripenso alle parole di Michele Mazzetto, il mio tatuatore: “I tatuati sono dei grandi egocentrici esibizionisti”. Se ci aggiungiamo paranoia e litigiosità ne verrà fuori la mia descrizione perfetta.

Che accoppiata. Io e Vera, intendo. Le sorelle Kessler ci fanno una pippa, troppo uguali, indistinguibili. Io e Vera siamo invece incredibilmente differenti eppure assolutamente compatibili. Due facce della stessa medaglia.

Ultimamente sono preoccupata. Gli uomini che ci dragano (dal verbo francese draguer, “corteggiare”) superano ormai gli -anta. Tra un po' si spalancheranno le porte del geriatrico. Se senegalesi, tutti rigorosamente sposati o come ti dicono loro: “Oui, je suis marié, mais c'est pas grave!” (Sì, sono sposato ma è un dettaglio). Se italiani/europei/bianchi, tutti allegramente dediti al mondo della prostituzione femminile (o maschile, d'altronde de gustibus imputandum est)- e che poi magari ci cascano pure. Alle moine delle giovani bocche di Rosa, statuarie e filiformi, senegalesi, intendo. E certo, se hai 60 anni e sei un emerito cesso e una strafiga di 20 anni ti corteggia, sarà sicuramente amore. I due cuori magari ecco, quelli no, ma la capanna quella sì, eccome, con piscina, aria condizionata e televisione al plasma. Agli Almadies o al massimo, a Mermoz. Deguelé, deguelé, come direbbe Vera//

 

 

Dire che Marco e Paolo sono divertenti è dire poco. Fanno cappottare dalla risate. Siciliano l'uno, sardo il secondo. Imprenditori dediti all'Africa e anche un po'all'alcol. Anche loro fanno parte del fan club sopra gli anta, conosciuti in quel di Ngor e dintorni. Arrivi qui, da immigrato e non l'avresti mai detto che proprio tu, che i tuoi connazionali proprio non li digerivi, adesso li cerchi e ricerchi la loro compagnia. E ti fa pure piacere. Come stasera, aragoste e prosecco, Bennato e Morandi. Una piccola grande cricca di italo-senegalesi che, come dice sempre Marco: “Se ci si può aiutare tra di noi, perché non farlo?”. Come dargli torto. Un immigrato resta un immigrato in qualsiasi parte del mondo e qui, se aspetti l'aiuto senegalese quando sei nella cac**, campa cavallo che l'erba cresce. Impossibile per i senegalesi che un toubab non abbia soldi, figuriamoci da mangiare e, se non li ha è perché evidentemente li ha finiti e ci sarà sicuramente qualcuno dall'Italia che glieli manderà. D'altronde, paese che vai, stereotipi che trovi. In Italia, al contrario, un immigrato senegalese, per gli italiani, avrà sempre bisogno d'aiuto. Poverino, viene dall'Africa dove non c'è da mangiare e neppure da vestire. E allora se lo si incrocia di fronte a casa, ecco pronte le sporte di vestiti in disuso degli anni '80 che “tanto a loro vanno bene”. Come ci raccontava Omar lo scorso anno. Proprio Omar, che se non aveva le Nike pulite prima di uscire, non usciva neppure dalla camera. “A Torino un signore mi ha fermato un giorno e mi ha dato una borsa. Io non capivo. Ho aperto e ho visto dentro dei cappotti vecchi e puzzolenti e dei maglioni mangiati dalle tarme, l'ho ringraziato e appena ho visto un cassonetto li ho buttati”. Omar che quando finiva i soldi, chiamava la madre, imprenditrice, che subito si premurava di inviargliene ancora (dal Senegal all'Italia) via Western Union. Pensa un po'//

 

Anche stasera, puntuale come sempre, arriva lui, il barbone di Katia. Sì, uno di quelli come ce ne sono tanti in Italia. Questo è un barbone bianco, che in Senegal, paese per cui il bianco è sempre ricco, fa davvero strano, come la carbonara fatta con i dadini di prosciutto di manzo. Ce ne sono parecchi di barboni a Dakar. Bianchi, intendo.

Chiedo al guardiano: “Di che nazionalità è?”. Lui risponde: “E' un naar (arabo). Era il proprietario del Jet Set, la discoteca qui vicino, ormai chiusa. Era un miliardario. Aveva tanti soldi !” sottolinea Fifty con il dito ben puntato alla senegalese (è sì, si chiama proprio Fifty, come Fifty Cent il rapper. Dovrebbe stupire in un paese dove ci sono lottatori che si fanno chiamare King Kong?!?!)

Continua Fifty: “Era ricco ma le P-I-T (pronuncia tipicamente senegalese di Put, a sua volta abbreviazione di puttana- come bijoux al posto di bisous, insomma) glieli hanno mangiati tutti, i soldi e poi è diventato povero”. Scuote le spalle Fifty, d'altronde il fatalismo che regola il tempo senegalese ha la risposta ad ogni questione, anche la più spinosa: doveva evidentemente accadere e nulla poteva essere fatto per evitarlo.

Io e Vera lo guardiamo, è piccolino, la pelle bruciata dal sole, il viso smunto. Sulle spalle un sacchetto di plastica che racchiude tutta la sua vita. E' Aziz, il proprietario di Katia, che ogni giorno si preoccupa di dargli da mangiare e, a volte, di mettergli qualche soldo tra le mani.

Le reti di connazionali possono salvare. Solo a volte, intendo//

 

 

Il giurista mi fa morire. Ha soldi ma è infelice. Conosce tutti ma non ha amici. E' rissoso e collerico ma è rimasto incantato dal mio di carattere, rissoso e collerico. Normale che si innamorasse. L'ho mandato a quel paese pubblicamente anche io con il dito puntato come una vera senegalese. Wao Wao. “Nessuna donna mi ha mai parlato così” mi ha detto sabato sera, al parcheggio del Five, le chiavi del suo grosso fuoristrada tra le mani. Ancora un po' ubriaco mi ha confessato che a lui io piaccio davvero. No, non ho avuto dubbi, so che non era la solita frase senegalese detta così. Al giurista piaccio davvero. Per forza, gli ho detto no. E quel no è stato il gesto che l'ha sorpreso. Incantato, direi. A Vera, dopo aver appoggiato i suoi tre i-phone sul tavolo, aveva ribadito qualche giorno prima: “La tua amica fa la difficile. Vuole che le corra dietro ma io non corro dietro a nessuno e poi io ho una reputazione da difendere e lei, per strada si ferma a salutare tutti i baye fall che incontra!”. Sorrido mentre scrivo. E' vero, ma anche io ho una reputazione da difendere. Io sono Mame Diarra, la mamma di tutti i baye fall, la Diarra di Pikine e di Sandaga, a cui non gliene frega niente di conoscere il ministro o l'imprenditore ingessato e noioso, ma che ama fermarsi per strada a parlare con la gente comune, l'apprendista del car rapide, il venditore della boutique sotto casa, il boi Sandaga, il baye fall della daara di Golf. E sono pure felice della mia piccola, insulsa vita provinciale e sconosciuta. A differenza del giurista, intendo. “Scusa se sono stato pesante nel chiederti di uscire” mi dice e abbassa gli occhi. Tanto potere sbriciolato di fronte alla disarmante forza della normalità. Poi continua: “Ti accompagno a casa in macchina”. Faccio cenno di no con la testa “Vado a piedi poi prenderò un taxi” gli dico. So che incontrarlo non è stato un caso. So che ogni incontro, anche il più bizzarro ha un senso. E forse il giurista dalla smania di onnipotenza e dall'arroganza limitante aveva bisogno di capire che la vita reale è altro. E' umiltà, semplicità, sincerità, schiettezza, normalità. Con o senza soldi. I soldi non possono comprare tutto, questo è vero. Non di sicuro le mie chiappe. Per quel che riguarda la Mastercard, forse di cose ne può fare ma sentirsi dire “Tu sei la prima persona che mi ha detto no in tutta la mia vita”, non ha prezzo. E' bello essere le prime almeno in qualcosa//

 

 

Ore 00.30. Suona il telefonino, à il giurista. Rispondo. “Chiara! Volevo solo dirti che ogni volta che vedo un baye fall adesso sorrido. Mi ricorda te. Oggi ci ho pure parlato”. Ndeye sane! Anche questo è Dakarlicious.

 

 

 

 
 
 
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