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« Sulla pelle inchiostro e mareNobody »

Daouda, Giuliano, la Cina e l'America. Anche i santi sollevano le tonache, a Dakar, più che altrove

Post n°276 pubblicato il 29 Agosto 2012 da djchi
 

Comincio ad amare profondamente la pioggia ora che dal mio letto posso sentire il rumore delle onde mosse dal vento. Alle volte basta poco per dare ristoro alla mente. Comincio a rifuggire il sole e a sorridere di fronte ad un cielo nuvoloso. “La pioggia porta via tutto” mi ripete sempre Daouda, il ragazzo della boutique e, forse inconsciamente, vorrei che portasse via anche il dolore.

“Diarra!” ho sentito esclamare stamattina. Non erano neppure le sette ed io ero incantata a decifrare gravidanze di nuvole in sovrappeso quando ho visto ricomparire dalla porta di casa proprio lui, Daouda. Ho sorriso. Daouda é un giovane della Casamance, emigrato nella capitale senegalese per lavoro. L’estate é agli sgoccioli e anche la sua, di vacanza, sembrava essere finita. Tornava dalla sua regione, stanco e un po’ nostalgico ma già sveglio dopo una giornata di viaggio.

Daouda é uno di quei ragazzi per cui tutto cio’ che scrivo sul Senegal non avrebbe nessun valore, esempio di come le tante (e spesso poco popolari) eccezioni esistano e siano talmente vicine a noi da diventare invisibili. Un lavoratore instancabile e sorridente, sempre pronto a condividere. Quando arrivai nel mio nuovo appartamente, tre mesi fa, tentennai nel lasciare a lui i soldi del mio affitto, Daouda noto’ il mio imbarazzo e mi disse “non ho mai preso un soldo che non fosse mio. Stai più che sicura che se mi affidi qualcosa, nessuno vi metterà mano”. Andai via titubante pronta a prendermi i rimproveri generali nel caso di un ipotetico furto ma non accadde nulla. Daouda é sempre stato onesto, come il suo sorriso e la felicità di vedermi oggi, di ritorno da casa, a casa.

 

 

Essere migrante ti mette alla prova. In certe notti lunghe e solitarie anche il battito del proprio cuore diventa pesante, doloroso. Ad ogni mia lacrima ho visto le lacrime di tutti i migranti, umiliati, utilizzati, strumentalizzati. Ad ogni lacrima la rabbia di una scelta che ha strappato alla mia quotidianità gli affetti, privando loro per sempre di una parte di me, alla ricerca probabilmente di cio’ che avevo sempre avuto. L’intelligenza e il sapere non aiutano la felicità, forse rendono tutto più doloroso, un combattimento perenne contro gli inganni di un’ipocrisia imperante.

Ne ho visti di convertiti predicare sermoni. Ne ho visti di sante alzare la gonna e consumare sbrigativi rapporti orali. L’intensità di un orgasmo fa dimenticare anche il Dio più minaccioso ed in quel gemito universale, l’umanità più terrena.

Basta davvero un velo a garantire ad una donna la dignità? Basta davvero accettare il compromesso per tenere un uomo che forse neppure ci ama? Con la fierezza che contraddistingue quei lebou da cui io ho rubato tutta una saggezza secolare, ho scelto di vivere e di essere felice, ancora, finalmente. E a selezionare, sapiente, come un cercatore d’oro.

Ho imparato a non giudicare. Sorrido ad ogni attimo cosi’ tanto normale da sembrare magico.

Il mio vicino di casa é, neanche farlo apposta, un rasta. Uno dei tanti antiquaire di Ngor che va a caccia di toubab per riservarsi una piccola fetta di paradiso. E’ simpatico, in fin dei conti. Certo, quando mi si é presentato dicendomi: “mi chiamo Giuliano” sono scoppiata a ridere, nella mia testa il famoso gatto grasso di Kiss me Licia, il cartone che ha accompagnato la mia infanzia già fin troppo cattolica e provinciale. Giuliano rappresenta l’ideale erotico-amoroso delle vacanziere europee fricchettone senza specchi in casa. Abbiamo parlato spesso, io e Giuliano, e nei suoi racconti gli amori di un marinaio dei vecchi tempi e quell’energia contraddittoria fatta di alcol e gri gri annodati in vita. Giuliano ha una tartaruga che accudisce con un amore spiazzante.

“Giuliano!!!!” sento spesso urlare dal balcone mia figlia e cerco di imparare dalla sua innocenza priva di giudizio che, ogni persona porta un segreto, ogni persona, un insegnamento, anche il nostro caro vicino, Giuliano.

 

Cina e America. Una dualità oggi più che mai accesa, due mondi opposti eppure uguali che la migrazione ha unito. N. è un ragazzo senegalese di neppure trent’anni. Vive in Cina dove sta studiando scienze politiche e che si veste come un qualsiasi ragazzo afroamericano di New York, pantaloni larghi e camicie a quadri. Parla francese con un forte accento inglese ed ha un sorriso immenso che ha fatto innamorare una cara amica. Osservo i migranti di ritorno perdersi a casa loro che poi non sanno neppure più se é ancora casa loro, a volte incerti, a volte solo confusi, troppo spesso soli. Come bambini scoprono un ambiente sociale nuovo, rinnovato, idolatrati e risucchiati in un vortice troppo forte per non annegarci. Tutti pretendono qualcosa da un migrante, riuscita, soldi, matrimonio, affetto, fedeltà, sesso. A loro, in cambio, le cantilene roche e stridule di griot di periferia e una dose sufficiente di nostalgia da poter riempire la valigia assieme a preghiere in arabo e thiouraye. Fa strano oggi vedere migranti europee in Senegal innamorarsi di migranti senegalesi partiti all’estero. Come donne senegalesi si vive l’attesa angosciante di una partenza, si progettano viaggi, si fa l’amore coscienti che forse, sarà, ancora e sempre, l’ultima volta. Un telefono puo’ bastare a contenere la speranza? Me lo chiedo spesso asciugando le lacrime di tanti. E continuo a chiedere a me stessa perché nessuno si accorge del dolore lento e logorante che ogni progetto migratorio porta con sè. Un esercito di soldati fucilati sommariamente nell’attesa di un futuro migliore.

 

 

 

Io non ci credo più. Non credo più all’amore. Eppure. Ho sognato di fare la stripper e ridono gli amici, pensando che io scherzi. In fondo noi donne siamo tutte delle prostitute di noi stesse, tutte ci siamo vendute almeno una volta in nome di un sogno, sapendo benissimo che quella carezza era un inganno, che quelle gambe aperte, ancora e nuovamente, erano una trappola che non era più sufficiente a far capitolare più nessuno, per più di una notte. E allora ci abbiamo aggiunto Dio. Le stripper hanno capito il business e, ad una vacanza al mare, ad una cena o ad una lavatrice, hanno sostituito delle banconote. Ho visto tante più puttane tra le mura domestiche che lungo la statale che costeggia il mio paese. Tutto é relativo, lo ripeto costantemente a me stessa.

C. é arrivato all’improvviso assieme alle alluvioni e alla ritrovata pace con Thiès. Ci siamo riconosciuti, le braccia tatuate e la scrittura ed é bastato Gorée a far cadere mille muri. Amo ascoltare persone intelligenti parlare. C. è senegalese ma vive a New York. Anche lui ha come N. l’accento inglese e camicie a quadri che risvolta, puntualmente, sulle braccia. C. è tornato per conoscere le sue radici, la sua cultura. E’ tornato per osservare, seppur cosciente di sentirsi “canadese” come il suo passaporto attesta. Mi fa ridere senirlo parlare in wolof e i suoi modi da piccolo Lord inglese che cosi tanto stonano nel paese del “begué!!!!”. Passeggiando in una Dakar tutta da (ri)scoprire C. rimane affascinato dai miei racconti senegalesi. Dice di essere panafricanista e gli chiedo diretta “sei uno dei tanti panafricanisti confinati nell’appartenenza di razza?”. Lui risponde senza neppure tentennare “No. Il colore é un dettaglio banale. Io sono per una cittadinanza africana cosciente che, in quanto tale, é indipendente dall’origine ma é la condivisione di una comune appartenenza morale e di pensiero”. Sospiro, dopo i tanti dibattiti animati ed i tanti rimproveri per aver osato parlare di Senegal. Impossibile criticare da “straniera” un luogo che “altri” hanno decretato non appartenermi. Eppure io mi sento italiana e anche senegalese. Basta il mio passaporto a decretare chi io sia, effettivamente? C. è senegalese ma si sente canadese con una missione panafricanista. Lo ripetero’ fino alla nausea, la migrazione é la risposta a tutte le questioni. C. ha rifiutato la religione islamica a 12 anni ed in casa un vero putiferio dopo che il maestro di Corano avviso’ la madre che il figlio “blaterava cose senza senso”.    

E dopo avergli parlato di cosa penso dei rasta per una buona mezz’ora, C. é scoppiato a ridere porgendomi il suo passaporto. “Ho avuto i dread per parecchi anni, sono un rasta per convinzione e non per moda e forse tu, Chiara, che cosi tanto vuoi rifuggerli, sei destinata ad incontrarli sempre lungo il tuo cammino”. In realtà, l’ho sempre saputo, da Dakar a Kinghston una strada costellata di roulotte e fisarmoniche mi attende. Intanto godo di questo bellissimo mometo di felicità.

 

 

 

 

 
 
 
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