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Riflessioni sull'attualità di aspetti pedagogici e metodologico-didattici nell’opera del maestro Alberto Manzi

Post n°53 pubblicato il 26 Maggio 2015 da g.raminelli

Lunedì 25 maggio 2015 l’Istituto Comprensivo n. 7 avente sede a San Bartolomeo in Bosco (Ferrara) è stato intitolato ad  Alberto Manzi, maestro e scrittore. Alla cerimonia è seguito, nel pomeriggio, presso la Biblioteca “Ariostea” di Ferrara, un convegno di studi sulla figura del maestro Manzi. All’iniziativa, coordinata da Angela Poli, responsabile della sezione Ragazzi della Biblioteca Ariostea,  hanno partecipato Giulia Manzi (figlia del maestro) il Prof. Roberto Farnè docente dell’Università di Bologna e rappresentante del Centro Studi “A.Manzi”, il dirigente dell’Istituto Comprensivo Dr. Giovanni Roncarati, e il sottoscritto. Pubblico di seguito il testo del mio intervento.

L’educazione  è un cammino, un percorso. Frase scontata per chi svolge l’attività di professionista dell’educazione. Frase tuttavia ricca di tante ombre specialmente se rapportate alla società e ai modelli culturali di riferimento. Cammino imposto perché la crescita è ineluttabile, percorso spesso a ostacoli, da prevedere e da superare. Un cammino e un percorso che, dunque, fin dall’origine dell’umanità dovevano essere inseparabili, come i due occhi con cui ci apriamo al mondo, come le due facce – quella visibile e quella nascosta – di ciò che siamo. Certo, se l’educazione è, come in effetti è, cammino, essa lo è perché deve essere percorsa.

Può sembrare che io abbia detto una banalità, eppure converrete con me che camminare verso una meta non prestando la dovuta attenzione e non dando il giusto peso alle esperienze, anche quelle virtuali e possibili, diventa un semplice itinerario, senza mai essere veramente un progetto di vita. Camminare interiorizzando le esperienze, facendole nostre con  sguardo indagatore è il meccanismo che rende possibile dare espressione alla nostra identità e caratterizza quello che molti potrebbero definire destino. Certo è che condurre a prendere coscienza di ciò che ci circonda con la sottolineatura consapevole del nostro essere, con la costanza e la progressione di esperienze e di acquisizioni, rende significativo il ruolo docente e ne proietta la tensione pedagogica verso dimensioni didattiche di alto profilo.

Per molti studiosi il XX secolo ha rappresentato il momento magico della rinascita dell’educazione, libera da condizionamenti, tecnologicamente in linea si potrebbe dire con il progresso civile e quello economico. Ma l’abbondanza di mezzi, la bulimia di metodi e proposte, la tensione a dar credito a una miriade di microsaperi ritenuti indispensabili agli itinerari possibili per i soggetti da educare altro non ha fatto che disorientare e talora a incanalare a senso unico, le scelte pedagogiche. Metodi, percorsi, indicazioni, indirizzi, programmi, progetti, iniziative, attività: una nebbia di razionalità (come ebbe a definirla  Ademar Ferreira Dos Santos nel 2003 redigendo la prefazione al libro di Rubem Alves “La scuola che ho sempre sognato”)  una nebbia di razionalità ”è caduta sugli esperti e sui professionisti dell’educazione, ha turbato e ha ipertrofizzato i loro sguardi e li ha portati ad agire non come promotori intelligenti e solidali di percorsi di apprendimento e di sviluppo personale differenziati e qualificati dal punto di vista umano, ma come pezzi più piccoli di un ingranaggio di addestramento cognitivo” ( Ademar Ferreira Dos Santos, “Le lezioni di una scuola: un ponte per molto lontano…”, Prefazione al libro di Rubem Alves, La scuola che ho sempre sognato, Ed EMI, 2003, Bologna, p.8.).

Ho voluto dire queste cose in apertura del mio intervento perché credo che molto del significato pedagogico dell’opera di Alberto Manzi si trovi incastonata proprio nella straordinaria capacità che egli mostrò di intendere l’educazione come cammino e come percorso. E io sono convinto che proprio qui stia, indubbiamente, la sua attualità. Tutta la sua vita di educatore, in un’Italia alle prese con la rinascita postbellica, ha sottolineato e manifestato in modo assoluto come sia possibile elevarsi, come sia possibile rendersi consapevoli e non solo esecutori, come sia importante “ascoltare” e come sia altrettanto importante “saper guardare”.  

Il maestro Alberto Manzi nel panorama pedagogico e culturale italiano non può essere semplicemente ridotto al pur grande evento che fu dal 1960 al 1968 la trasmissione “Non è mai troppo tardi”, il corso di istruzione popolare per il recupero dell’adulto analfabeta. In effetti, Alberto Manzi deve essere collocato a pieno titolo tra le figure che hanno contribuito al rinnovamento della cultura pedagogica italiana dal secondo dopoguerra, insieme, tra gli altri, a Bruno Ciari, Danilo Dolci, Mario Lodi, Loris Malaguzzi, don Lorenzo Milani, Gianni Rodari. Per chi volesse trarre argomento di approfondita conoscenza di questo italiano che fu una delle figure più originali e significative della nostra recente cultura pedagogica, consiglio la lettura e l’esame del ricco materiale dell’archivio donato dalla  sua famiglia  all’Università di Bologna e conservato nel Centro Alberto Manzi presso la Regione Emilia-Romagna.

Da una mole straordinariamente vasta di documenti e di testimonianze emerge che la vita e l’opera di Alberto Manzi si possono definire, secondo il profilo tracciatone da Roberto Farnè nel febbraio dello scorso anno, caratterizzate da tre profili: “quello di autore e conduttore di programmi radio e televisivi, quello di scrittore per ragazzi e quello di insegnante ed educatore; come fossero tre vite parallele nella stessa persona, affiancate una all’altra senza soluzione di continuità. La sua figura – sottolinea Farnè - è l’esito della sinergia fra questi tre percorsi, differenti tra loro ma tutti orientati verso lo stesso obiettivo: l’educazione.”(Roberto Farnè, Perché ancora oggi “non è mai troppo tardi”. Alberto Manzi, Rivista “Il Mulino”, n. 4, anno 2012).

Manzi fu pure scrittore di testi scolastici, di libri di divulgazione scientifica e di narrativa; libri con storie semplici dove fantasia e realtà sono fortemente intrecciati e dove i grandi temi del disadattamento, della emarginazione, delle ingiustizie sociali, della solidarietà, della libertà, del rapporto uomo-ambiente e del rifiuto della violenza sono materie care all’autore che mai non sveste i panni del pedagogista che sa far passare l’idea che la conoscenza coniugata con quella di benessere determina le fondamenta di una scuola nuova, dove alunni e docenti sono felici di scoprire, di conoscere, di pensare. Nella consapevolezza che l’educazione scientifica è il punto più critico della didattica scolastica, Manzi la assume come asse portante del suo metodo di insegnamento, non solo nell’ambito delle discipline scientifiche in senso stretto, ma declinando il “metodo scientifico” nei vari campi del sapere, come la forma più rigorosa dell’Educare a pensare. Insomma, come diceva il suo credo kantiano: "Il Maestro non può insegnare pensieri ma deve insegnare a pensare”. In buona sostanza qui si parla di un vero e proprio metodo per dare motivazione. Manzi non si stancava mai di ripetere che l’insegnate doveva lavorare con passione, con l'orgoglio che aveva portato lui stesso per vent'anni nella foresta amazzonica a istruire persone sfruttate, prive di diritti. Egli si batté, come insegnante ed educatore impegnato nel sociale, per dare corpo alla cultura della libertà e della solidarietà contro ogni forma di violenza e di razzismo. Manzi insomma fu attento sempre al rapporto fra l’uomo e il suo ambiente, lasciando il messaggio che si può e si deve lavorare come professionisti dell’educazione per costruire una scuola in cui non esistono solo test e sondaggi ma cooperazione, solidarietà, libertà e amore.

 Di sicuro nelle speranze di tutti gli educatori professionisti della scuola italiana di questo momento c’è il rigetto di una scuola come luogo di autoreferenzialità. Sappiamo bene come gli habitat educativi risultino assai di frequente (ma non sempre per fortuna!), più una sommatoria di progetti assemblati senza coerenza metodologica, con protocolli farciti di burocratese e di proclami valoriali. Manzi ha lasciato in eredità una intera vita spesa per far capire che molti dei problemi nella scuola nascono proprio da una scuola che annoia, da una didattica obsoleta, da una cultura contradditoria e priva di autorevolezza perché legata alla sola fase istruzionistica. Per Manzi la sola scolarizzazione non poteva essere luogo di presa di coscienza, e di crescita civile consapevole e matura. Ancora oggi l’arte del “tirar fuori”, cioè dell’educare in modo non istruzionista né moralistico, trova consensi e passione: quella stessa passione che animò Manzi per tutta la vita: educare attraverso una scuola entusiasmante e coinvolgente.

Oggi, nelle nostre scuole, abbiamo per fortuna docenti che sanno coinvolgere ed essere coinvolti. Il viaggio educativo provoca trasformazioni, cambiamenti sia in chi educa che in chi è educato diventando, infatti, per il docente esperienza del “sentire” l’alunno alle prese con la progressiva acquisizione di competenze formative, percependone le emozioni che ne accompagnano la crescita attraverso quella che può essere definita una esperienza empatica, exotopica. Per fare ciò occorre uscire da un modello lineare di istruzione dogmatica. In buona sostanza il cammino di Manzi è per molti versi anche quello percorso da Don Milani. L’attualità pedagogica  ed educativa dell’uno e dell’altro era insita nell’idea che per costruire in pieno l’identità personale degli alunni, per dare senso e significato di consapevolezza alla loro esistenza, è necessario andare giorno dopo giorno alla scoperta delle radici dell’essere umano. Cioè considerare in un processo autenticamente formativo non solo le nozioni ma anche le emozioni, l’affettività, le passioni, le aspirazioni. E per essere ancor più chiari, Manzi, in particolare, ci sprona a non chiuderci al mondo emozionale e a non rimanere sulla zattera di un umanesimo tecnocentrico.

Un simile processo richiede la “pazienza” del porgere. In Alberto Manzi è stata una costante che ha fatto, e fa comprendere, come la serenità debba improntare quotidianamente l’azione del docente. Una serenità di sguardo, una gestualità delicata e mai aggressiva. La scuola di Manzi non aveva la necessità di fare la voce grossa o di alzarla. Nella scuola che Manzi ci indica, la voce di ciascuno, anche quella più debole, conta e deve essere ascoltata, conta e va aiutata. Perché l’alunno è il vero protagonista del suo crescere, non è strumento o puro destinatario di un curricolo preconfezionato: è al centro della vita scolastica e ogni cammino non è calibrato sul docente ma sull’alunno, un percorso fatto su misura, in modo solidale.  Mi piace dire, insomma, che l’attualità del maestro Manzi sta nel riconoscere anche oggi la validità del princìpio sul quale egli fondava il suo interagire con gli alunni, vale a dire la ricerca indefessa di stimoli ed espedienti per vivacizzare la curiosità e la voglia di sapere degli alunni, portati ad approfondire sempre più ogni aspetto della vita con quella curiosità che il maestro Manzi chiamava  “tensione cognitiva” e che definiva come “una curiosità intellettuale che faccia sentire insoddisfatti di una conoscenza, che spinga a volerne sapere di più, che costringa a riesaminare quel che si sa, a mettere in relazione le cose, in una parola insegnare al bambino a pensare”. Ma questo, altro non è che “ricerca scientifica”, un vero e proprio secondo cardine pedagogico a cui Manzi attribuiva una importanza determinante ai fini di una pedagogia veramente attiva, una pedagogia che, dal “sapere” del bambino, lo conducesse al raggiungimento di un’autonomia sempre più solida  non solo del pensare, ma soprattutto del “fare”, elemento concreto per conquistare una stima di sé fondamentale per il suo sviluppo integrale. Il “fare” per aiutare la persona a crescere. “Fare” per consentire ad ogni alunno di divenire uomo e cittadino consapevole di diritti e di doveri.

Il maestro Manzi, come Don Milani, voleva far capire la storia , e si badi non quella fatta solo di date e di nomi, ma quella che può definirsi come “memoria”, quella assimilata e capita proficuamente, che dovrebbe darci la forza per non ripetere più, oggi, gli errori del passato. Una grande ed attuale lezione, dunque, quella di Alberto Manzi, che alla fin fine ci dice che il principale dovere di un docente è il saper sviluppare in sé e negli alunni un autentico senso critico, un indispensabile pensiero autonomo teso alla conquista della riflessione come capacità di analisi e segno di una maturità personale e sociale. Che la riflessione sulla sua opera e sul suo pensiero educativo, che l’intitolazione di una scuola nella nostra provincia siano di stimolo agli educatori e all’intera società perché non si dimentichino, riprendendo una sua celebre frase, di “educare attraverso una scuola entusiasmante e coinvolgente”. Una scuola, perciò, ora e sempre segno di autentica civiltà.

Giovanni Raminelli

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Data di creazione: 28/06/2011
 

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