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Stato, scuola e il naturale istinto all'autoconservazione. Una risposta al Prof. Galli della Loggia

Post n°16 pubblicato il 18 Novembre 2009 da ltedesco1

La creazione di miti è una costante, a ogni latitudine, del discorso culturale chiamato a partecipare al nation- building. A questo compito non si sottraggono, certamente, neanche gli storici. Giorgio Agosti, in una missiva dei primi anni Sessanta, quando, agli inizi del centrosinistra, si sarebbe messo in moto quel processo che avrebbe portato in auge la Resistenza quale elemento fondante e caratterizzante la Repubblica, scriveva come tra le funzioni degli storici vi fosse quella «di creare in un certo modo il “mito della Resistenza”, così come fecero gli Abba, i Settembrini, i D’Azeglio, i Bandi, i Nievo, e quanti altri crearono il mito del Risorgimento, depurarono cioè quella che fu una grande giornata della nostra storia dalle scorie che ogni grande avventura storica non può non contenere» (lettera a Lucilla Jervis del 30 giugno 1962). Uno dei massimi esponenti della storiografia "progressista" americana, Carl Becker, notava, tra le due guerre, che gli storici hanno comunemente fatto «parte di quella antica e onorata compagnia dei saggi della tribù, dei bardi e cantastorie e menestrelli, degli indovini e dei preti, ai quali in epoche successive è stata affidata la conservazione dei miti utili». Con questa compagnia, difatti, gli storici hanno condiviso il compito della «preservazione e perpetuazione delle tradizioni sociali» (Everyman His Own Historian, in «The American Historical Review», gennaio 1932).

Se queste finalità extrascientifiche sono perseguite dagli storici, e più in generale dagli intellettuali non necessariamente stipendiati dallo Stato, come non possono a fortiori non essere perseguite anche nelle aule della scuola italiana dell'obbligo (e, seppure in misura minore, in quelle universitarie), affidate a insegnanti da quello invece (seppur malamente) retribuiti? Che scopo della scuola sia la trasmissione non solo dei saperi ma anche di determinati modelli di civismo è fenomeno che risale fino all'età liberale quando, ad esempio, la legge Coppino del 1877 introduceva l'insegnamento dei diritti e dei doveri del cittadino al posto della religione (a testimonianza di come di una religione, civile o meno che sia, il detentore del potere politico abbia comunque sempre bisogno...).

Come meravigliarsi dunque che lo Stato utilizzi gli spazi scolastici per inculcare, ribadire, fortificare la propria legittimità ricorrendo quindi a tutti gli strumenti a sua disposizione per fare degli alunni dei cittadini rispettosi del quadro culturale egemone e delle regole da esso poste? Dei cittadini, insomma, 'tecnicamente' conformisti e quindi tendenzialmente alieni dall'assumere atteggiamenti incompatibili con quel quadro e con quelle regole? Perché lo Stato dovrebbe privarsi di una così ghiotta occasione? Per permettere, come il Professore Galli della Loggia suggerisce nei suoi recenti interventi sul Corriere della Sera (8 e 13 novembre), che "la Cultura e l'Istruzione che ne è la principale via d'accesso" lascino liberi gli scolari "di formarsi la propria identità, cioè di costruire come si vuole, con i materiali messi a disposizione, i propri valori e la propria personalità"?

Non penso che uno Stato possa correre questo rischio e, senza mettere a repentaglio la sua stessa credibilità, consentire che questa libertà sia esercitata senza pesanti limiti. Poniamo, difatti, che un domani in una qualsiasi scuola italiana un insegnante spieghi ai suoi alunni che la Resistenza è stata prevalentemente rossa e che nei disegni della maggior parte dei partigiani essa era volta all'instaurazione non di un regime liberaldemocratico ma di uno comunista filosovietico e che quindi la Costituzione debba essere considerata un compromesso, anzi un tradimento di quell'obiettivo, da superare al più presto assieme alla società capitalistico-borghese (tesi queste, che, come noto, sono state espresse nel passato e non possono, anche da parte di chi non le condividesse, essere derubricate a deliri di squilibrati). Ipotizziamo anche che nei "materiali messi a disposizione" dall'insegnante ci sia la tesi che quindi da apprezzare non siano i Padri della Costituente ma coloro che, negli anni Settanta, armi alla mano, hanno tentato di realizzare quanto indicato dai Resistenti. Personalmente, da scienziato sociale, non avrei nulla da obiettare circa la liceità di sostenere una tale interpretazione del passato, ma sempre da scienziato sociale non potrei non comprendere le ragioni dello Stato italiano qualora volesse prendere tutte le misure necessarie per arginare, circoscrivere, contenere e magari espellere dal corpo sociale (in questo caso dalla scuola) chi quella interpretazione facesse propria, soprattutto se un simile tumore rischiasse di produrre imitazioni (e quindi metastasi) nelle scuole di mezzo Paese. Caratteristica, d'altronde, di ogni soggetto, individuale o collettivo, democratico o non democratico che sia, non è forse l'istinto all'autoconservazione?

 

Luca Tedesco,

ricercatore in Storia contemporanea, Università degli Studi Roma Tre

 
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