CONTINUAZIONE 3°: ECCO L'UOMO!
=dicata in queste parole, otteniamo i vantaggi seguenti:
1. Scompare l'anomalia di due sorelle aventi il medesimo nome;
2. Le quattro donne ci vengono, secondo lo stile abituale di Giovanni, presentate in due gruppi paralleli: "la sua madre e la sorella di sua madre", poi "Maria di Cleopa e Maria Maddalena";
3. I passi paralleli di Matteo, Marco e Giovanni si armonizzano perfettamente, imperocché, oltre alla madre del Signore ed a Maria Maddalena, mentovate in tutti e tre i Vangeli, la Maria di Cleopa vien nominata da Matteo come "madre di Giacomo e di Iose", e da Marco, come "madre di Giacomo il piccolo e di Iose"; e la "sorella di sua madre" è indicata da Matteo coll'espressione "la madre dei figliuoli di Zebedeo", mentre Marco le dà chiaramente il nome di "Salome", Vedi Nota S.Matteo cap.27:55;
4. Se Maria madre del Signore e Salome madre di Giovanni e di Giacomo erano sorelle, gli apostoli Giovanni e Giacomo erano cugini primi di Gesù, secondo la carne, e ciò spiega, senza scusarla, la domanda di Salome a favore dei suoi figliuoli Matteo 20:20-22 come spiega pure il fatto che ora ci verrà raccontato da Giovanni, e la intimità speciale che regnava fra lui e Gesù.
Maria di Cleopa,
Questa espressione nel Greco potrebbe intendersi della madre o della sorella o della moglie o della figlia di Cleopa; è però più probabile che si tratti di sua moglie. Essa sarebbe dunque la madre di Giacomo il piccolo, e Cleopa lo stesso che Alfeo, Confr. Matteo 10:3; 27:56. Non c'è però ragione sufficiente per identificarlo col Cleopa di Luca 24:18, poiché nel greco egli vien chiamato e quest'ultimo il primo è nome aramaico, il secondo è greco.
e Maria Maddalena.
Era costei così nota ai lettori di Giovanni, per quanto ne dicono i tre primi Vangeli, che bastava darne il nome senz'altra designazione. Non poteva mancar di trovarsi appiè della croce di Cristo questa fervente e riconoscente sua seguace. Matteo ci dice che le pie donne devote rimasero vicino alla croce, finché il Signore non ebbe esalato l'ultimo respiro, e che quando il corpo ne venne tolto, si fermarono ad osservare dove veniva deposto, forse per aiutare ad imbalsamarlo, e senza dubbio per saper dove ritrovarlo alla mattina del primo giorno della settimana. Per la esposizione vedi Nota Matteo 27:61.
La terza parola di Gesù in sulla croce. Egli raccomanda sua madre al discepolo che amava, Giovanni 19:26-27
26. Laonde Gesù, veggendo quivi presente sua madre, e il discepolo ch'egli amava, disse a sua madre: Donna, ecco il tuo figliolo!
La prima parola di Cristo in sulla croce fu una preghiera per i peccatori, impenitenti che ve lo inchiodavano; la seconda fu un messaggio di salute per il ladrone pentito; la terza una parola di affetto filiale per la vedova sua madre. Assorto in meditazione sull'opera che stava compiendo, o preoccupato già di quel misterioso abbandono nel quale "il suo cuore come cera si struggerebbe nel mezzo delle sue interiora" Salmo 22:14, egli non aveva subito osservato quella piccola comitiva di amici più intimi, che si era a poco per volta avvicinata alla sua croce; ma quando li scorse l'occhio suo amorevole si fermò subito sulla madre e le sue parole mostrarono che, in mezzo alla sua agonia, trovava la forza di pensare e di provvedere al suo benessere: "Donna ecco il tuo figliuolo". La chiama "Donna" non "Madre", non già per risparmiarle, come credono alcuni, il dolore che un tal nome doveva risvegliare in lei, né per evitarle cattivi trattamenti per parte dei suoi nemici, quando a costoro fosse nota la loro stretta parentela; bensì per farle conoscere che la lezione che egli aveva principiato ad insegnarle alle nozze di Cana, e che l'umile contegno di lei durante il ministero di Gesù dimostrava aver essa imparata, era ora compiuta. Cessano da questo momento le loro relazioni di madre e figliuolo, per dar luogo ad una parentela spirituale assai più importante; essa non dovrà mai ambire qualsiasi onore speciale per esser sua madre, né permettere che le venga tributato da altri. Da quell'ora in poi, Maria viverà la vita della fede; come più tardi Paolo, essa dovrà dire: "Avvegnaché abbiam conosciuto Cristo secondo, la carne, pur ora non lo conosciamo più" 2°Corinzi 5:16. La ragione poi per la quale Gesù prescelse Giovanni a guardiano di sua madre, egli non la dice; ma ben sappiamo che poco tempo prima i suoi fratelli non avevano ancora creduto in lui Giovanni 7:5, e non potevano perciò esser con la madre in comunione di fede; mentre egli sapeva che nella casa di S.Giovanni, Maria troverebbe abbondantemente quell'intima relazione di amore, che sola poteva soddisfare il cuor suo. Maria ben conosceva il carattere affettuosa e mansueto del suo nipote Giovanni; epperciò si affidò interamente alle sue cure, ben sapendo che egli poteva riceverla in casa sua, e proteggerla fino alla morte e, la sua anima alla presenza eterna con "DIO".
27. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre!
Brevi parole, ma ricche di ogni necessaria benedizione per la povera vecchia vedova. Esse suonano: "Ricevila in casa tua; falla partecipe di tutti i beni di cui ti arricchirà il Signore; assistila nelle sue infermità, consola i suoi dolori, confortala colle speranze del mio Vangelo, che, la mia risurrezione tosto confermerà, e trovi d'essa in te tutta la gratitudine e la venerazione che un figlio deve a colei che fu la prima e la più costante nell'amarlo". Maria e S.Giovanni non potevano se non sentirsi intimamente uniti nel comune loro dolore. Giovanni capì che Gesù affidava la madre alla sua protezione speciale, e così pure intenderà queste parole chiunque le legge senza preconcetto alcuno; ma la Chiesa Romana si è ingegnata a trarne un argomento di più per la sua mariolatria, asserendo che, con queste parole, il Signore affidava Giovanni, qual tipico rappresentante della Chiesa tutta, alla custodia di Maria; e che essa è per conseguenza, la patrona dei santi, la protettrice della Chiesa, l'ausiliatrice di tutti i bisognosi. Ogni uomo di senso comune dirà con Alford che quella è una idea assurda. "Gesù non affidò Giovanni a Maria, bensì Maria a S.Giovanni. Maria non doveva esser per il discepolo la rappresentante di Gesù; ma Giovanni doveva prendere verso di lei il posto del figliuolo. Maria, non Giovanni, aveva bisogno di protezione e di aiuto".
E da quell'ora quel discepolo l'accolse in casa sua.
Queste parole ci dicono che S.Giovanni accettò di tutto cuore l'incarico affidatogli dall'amato Maestro, e provvide, da quel momento in poi, al mantenimento di Maria. Alcuni però ne vorrebbero trarre la conclusione che egli subito condusse a casa sua la madre di Gesù, per risparmiarle lo strazio di esser testimone dell'ultima e più dolorosa agonia di suo figlio, tornando poi egli medesimo a riprendere il suo posto appiè della croce. Questo ci par molto improbabile. Maria era tal donna da non abbandonar la croce fino all'ultimo, e neppur Giovanni se ne sarebbe allontanato sotto qualsiasi pretesto. Altri, mettendo assieme varie circostanze della vita di Giovanni, e specialmente il che suo padre Zebedeo aveva degli "operai" Marco 1:20, e che Giovanni stesso "era noto al sommo sacerdote" Giovanni 18:15, ne concludono che la sua fosse una famiglia di benestanti, ed avesse una casa propria in Gerusalemme, nella quale egli avrebbe condotto Maria, non appena spirato Gesù. Tutto ciò è pura immaginazione. L'espressione è troppo generica perché la si possa intendere di una casa propriamente detta "È vero che, quando è detta di Cristo Giovanni 1:11, La bibbia Diodati traduce, come qui, "a casa sua"; ma è chiaro che in quel passo non si tratta di una casa materiale. Il senso migliore quì è evidentemente il senso più generico: "in sua" della Vulgata, o "dai suoi" della versione inglese. Il testo greco non implica punto che l'apostolo avesse allora una casa propria in Gerusalemme. Senza dubbio egli condusse Maria nell'alloggio che occupava in città colla madre Salome, ed in seguito forse nella casa paterna sulle rive del lago di Tiberiade, finché non ebbe casa propria. Una tradizione, che risale al settimo secolo, ci dice che Maria visse con Giovanni in Efeso, fino ad età avanzatissima, il che non impedisce minimamente ai frati di Gerusalemme di farne vedere la pretesa tomba nella valle di Giosafat. Ricordato questo fatto, che occorse verso il mezzodì, S.Giovanni passa sotto silenzio tutto quello che avvenne fino alla morte del Signore, e dobbiamo perciò raccogliere dai tre primi Vangeli gli eventi di quelle tre ore solenni. Vengon prima di tutto le Tenebre miracolose, ricordate da Matteo 27:45; Marco 15:33; Luca 23:44. Matteo ci dice: "Ora, dalle sei ore si fecero tenebre sopra tutta la terra, infino alle nove". Queste tenebre non si possono spiegare coll'avvicinarsi della notte, poiché si era invece al pieno meriggio. Nemmeno possono dirsi la conseguenza di una ecclissi solare; le ecclissi di sole non accadono mai al plenilunio, e di più durano in media quindici minuti, non già tre ore. D'altra parte, di fronte alla unanime testimonianza di tre uomini integri come Matteo, Marco e Luca, non contraddetta da nessuno fra i moltissimi testimoni oculari del fatto, qual uomo onesto potrà chiamar questo un mito o un'impostura? Furon quelle tenebre mandate da Dio per nascondere sotto un conveniente velo di dolore il fatto più tragico che sia accaduto quaggiù. Durante quelle tre ore di tenebre, un silenzio di morte regnò sulla, città, sui suoi abitanti, sulla natura intera; tacque perfino la voce di Gesù al sommo della croce, e l'ora nona era quasi giunta, allorché essa ruppe nuovamente il silenzio.
La quarta parola in sulla croce. La ricordano insieme al fatto che l'accompagnò, ed in termini pressoché identici in Matteo 27:46-49; Marco 15:34-36: "E intorno alle nove, Gesù gridò con gran voce, dicendo: 'Eli, Eli, lamma sabactani?'" Marco conserva la forma più puramente aramaica: "Eloi, Eloi" cioè: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai lasciato?" Son questo le prime parole del Salmo cap. 22, che contiene la descrizione profetica più minuta che si possa desiderare delle sofferenze del Messia in sulla croce. Il Signore le ripete, non nell'ebraico classico, ma nel dialetto siro caldaico che egli parlava ordinariamente coi suoi. Son, parole di doloroso lamento per l'abbandono in cui avealo lasciato il suo Padre Celeste, e che egli aveva sentito ognor più vivamente durante quell'ore di tenebre e di silenzio. Alla fine, avvicinandosi l'ora del sacrificio vespertino, che doveva pure esser quella della sua morte, le sue sofferenze raggiunsero il loro culmine e gli strapparono quel grido di angosciosa agonia. Quanto vivo sia stato il sentimento dell'abbandono di suo Padre, e l'angoscia che quello produsse nel cuor suo, lo si può vedere paragonando i nomi che egli diede all'Altissimo, mentre pendeva dalla croce. Nella sua preghiera a pro dei suoi crocifissori, lo chiama "Padre" Luca 23:34; "Padre" pure lo chiamerà di nuovo fra poco, allorquando le tenebre si saranno dileguate dalla natura e dalla propria sua anima Luca 23:46; ma mentre soffre le torture fisiche più intense, mentre grava sull'anima sua il pondo incomportabile dei peccati dell'uman genere, mentre è nascosta dagli occhi suoi la luce della faccia del Padre suo, non ardisce chiamarlo Padre, e si contenta di invocarlo col nome di "Dio mio, Dio mio". Ma anche in quelle parole, risplende la fede sua, che si dimostra incrollabile. Le ineffabili e misteriose sofferenze del Figliuol di Dio, fatto maledizione per il nostro peccato, orbato per un momento della luce della faccia di Dio, noi non le potremo mai comprendere. Però, se egli fu abbandonato nella sua natura umana, Dio non avrebbe potuto, senza rinnegare sé medesimo, abbandonarlo nella sua natura divina, Quell'abbandono non significa che Dio Padre più non lo sostenesse colla divina sua potenza, né che avesse cessato anche momentaneamente di amarlo, perché forse non lo amò mai cotanto come al momento in cui, in ubbidienza all'ordine divino, egli mise la vita sua per i peccatori. Neppur significa che furono in quell'ora ritirate a Gesù la grazie dello Spirito, imperocché fu l'esercizio vigoroso di quelle che maggiormente diede gloria a Dio in quel momento supremo, e comunicò al sacrificio di Cristo tutto il suo valore, tutta la sua efficacia. Finalmente, quell'abbandono non fu né definitivo né completo, ed ebbe anzi brevissima durata. Lo diceva lo stesso salmo profetico di cui Gesù, nell'angoscia dell'anima sua, aveva pronunziato le prime parole, poiché al vers. 24 di quello leggiamo: "Egli non ha sprezzata, né disdegnata l'afflizione dell'afflitto; e non ha nascosta la sua faccia da lui; e quando ha gridato, l'ha esaudito". Non dobbiamo dunque pensare che Dio abbia in modo assoluto abbandonato il suo Figliuolo, mentre questi era in sulla croce, ma solo che per un tempo Gesù più non sentì la presenza del suo Padre Celeste, mentre invece facevasi più che mai presente alla sua coscienza l'ira di Dio contro il peccato. Si fu in quell'ora di tenebre e di abbandono che il Cristo venne "fatto maledizione per noi" Galati 3:13. Nessuna mente umana potrà mai concepire quali dovettero essere le sofferenze del Figliuol di Dio, allorquando più non gli vennero concesse le manifestazioni dell'amor di Dio, mentre d'altra parte gravavano sull'anima sua immacolata tutte le conseguenze del peccato degli uomini. Matteo continua Matteo 27:47: "E alcuni di coloro ch'erano ivi presenti, udito ciò, dicevano: Costui chiama Elia". Meyer ed altri vedono in queste parole un bisticcio crudele dei Giudei, fondato sopra un'insulsa distorsione delle parole "Eli, Eli"; ma non ci sembra probabile che, usciti appena dall'orrore di quelle ore tenebrose, quelli che trovavansi ancora attorno alla croce di Gesù fossero disposti a far dello spirito, ed è probabile che si ti atti qui di Giudei Ellenisti, i quali, poco avvezzi al linguaggio volgare della Palestina, fraintesero realmente le parole di Gesù.
La quinta parola di Cristo in sulla croce, Giovanni 19:28-29
28. Poi appresso, Gesù, sapendo che ogni cosa era già compiuta, acciocché la Scrittura si adempiesse, disse: io ho sete.
Alcuni uniscono la clausola: "acciocché la Scrittura si adempiesse", alle parole che la precedono, quasiché significasse che le sofferenze di Cristo già avevano esaurito tutto quanto ne dicevano le profezie. Altri invece uniscono quella clausola a quanto segue, e, secondo essi, Cristo avrebbe detto: "Io ho sete", precisamente perché venisse adempiuta una profezia speciale. Quest'ultima costruzione ci par da preferirsi, perché colla prima s'incorre in una contraddizione, poiché da una parte l'Evangelista direbbe che tutte le profezie erano già adempiute, laddove più sotto vediamo che una ve ne era ancora da adempiere. Non perdiamo di vista che i due verbi "era compiuto", e "adempiesse", si riferiscono a soggetti di versi, cioè il primo a tutte le sofferenze di Cristo quale portatore del peccato; il secondo a tutte le profezie relative a quelle, ed una delle quali restava tuttora da adempiersi. Tormento crudelissimo della crocifissione era la sete che divorava i suppliziati. Dopo esser rimasto per ben sei ore in sulla croce, Gesù deve aver provato una sete intensa. Durante le tre ore delle tenebre, l'anima sua era rimasta troppo assorta nel suo dolore spirituale, per far molta attenzione alle sofferenze fisiche. Non appena però si dissipa alquanto il suo sentimento dell'abbandono paterno, gli si fanno sentire nel modo più tormentoso i bisogni della sua natura umana, e primo fra questi la sete. Il suo grido: "Io ho sete" non ebbe però per scopo di adempiere la profezia, bensì di chiamar l'attenzione dei suoi carnefici su quel suo bisogno, e di testimoniar pubblicamente della realtà e della intensità dei suoi patimenti. Al tempo stesso, essendo questa espressione di estrema sofferenza fisica l'ultima cosa richiesta affinché il Messia fosse "consacrato per sofferenze" Ebrei 2:10, e perché la profezia dimostrasse la sua perfezione in lui, il Signore esalò questo grido, affinché i suoi nemici adempiessero essi medesimi le profezie che riguardavano loro, al tempo stesso che quelle che concernevano lui. Non dobbiamo supporre che il Signore dicesse: "Io ho sete", sol per adempiere le Scritture; la sua sete e il suo lamento furon però dalla Provvidenza divina ordinati in modo da condurre a tale adempimento. La profezia in tal modo avverata è quella di Salmi 69:21: "Nella mia sete, mi hanno dato a bere dell'aceto". Queste parole son da Giovanni dette riferirsi al Messia; dobbiamo adunque ritenerle come dette e ricordate dallo Spirito con uno scopo profetico.
29. Or quivi era posto un vaso pieno d'aceto.
Poco monta che questo vaso fosse quello che conteneva il vinello, "posca", dei soldati, o un vaso più piccolo contenente una bevanda destinata specialmente ai suppliziati; importa notare però che non trattasi in questo caso del narcotico chiamato dal Vangelo "aceto mescolato con fele" Matteo 27:34, o "vino condito con mirra" Marco 15:23, che Cristo aveva rifiutato al principio del suo supplizio, bensì semplicemente della bevanda ordinaria dei soldati romani.
Coloro adunque, empiuta di quell'aceto una spugna, e postala intorno a dell'isopo, gliela porsero alla bocca.
Ciò fu evidentemente l'atto dei soldati, e senza dubbio è quello che narra S.Matteo, Matteo 27:48, che "uno di loro", ad onta delle beffe dei presenti, mosso da compassione, "corse e prese una spugna, e l'empiè d'aceto; e messala intorno ad una canna, gli diè da bere". Benché la croce fosse assai più bassa di quel che si veda ordinariamente nelle pitture della crocifissione, essa era però troppo alta perché chi stava sul terreno potesse giungere colla mano alla bocca del suppliziato; perciò fu necessario, far uso di una spugna legata in cima ad una canna per dar da bere a Gesù. Da quella spugna presentata alle sue labbra, il Signore poté succhiare un po' di liquido, e riprendere alquanto forza. Coll'accuratezza di un testimone oculare, Giovanni ci dice che la canna usata in questa circostanza era stata tolta dalla pianta dell'isopo. Forse nessuna delle piante, mentovate nella Sacra Scrittura ha dato origine a maggiori discrepanze che questa. Chi vede in essa l'origanum maru, ossia il saatar degli Arabi, chi la pianta del cappero, "capparis spinosa", chi qualche altro arboscello ancora; ma ciò nulla detrae dalla perfetta accuratezza del nostro Discepolo.
30. Quando adunque Gesù ebbe preso l'aceto, disse: Ogni cosa è compiuta.
"Ogni cosa" non si trova nel greco; il grido trionfale del Signore consistette nell'unica parola "tetelestai" "è finito" e riesce più commovente così Giovanni solo ci ricorda questa parola di Gesù, e benché ce la presenti colla parola "disse", crediamo che corrisponda a quanto dicono i Sinottici che "egli gridò con, gran voce". Come l'infermo sospira la luce del giorno, così, fra quelle tenebre, e Gesù bramava che venisse tolto d'in sull'anima sua il pondo del peccato, e non appena vede nuovamente brillare la luce del volto di suo Padre, egli innalza quel grido di vittoria, la cui eco, si farà udire in tutti i secoli, e formerà l'argomento degli inni trionfanti degli angeli e dei credenti. L'opera che aveva accettata sin davanti la fondazione del mondo, e quindi proseguita in terra per oltre a trent'anni, in mezzo alle privazioni della povertà, alle tentazioni di Satana, alle contumelie ed all'odio degli uomini, eccola in poche ore condotta ad un esito felice Egli doveva ancora, è vero, morire; ma anche questo è compreso nel grido detelestai, imperocché a lui solo apparteneva di deporre la propria vita Giovanni 10:11,18, ed egli stava per darla. Praticamente, agile cosa era compiuta dal momento che egli aveva "posta l'anima sua per sacrificio per la colpa" Isaia 53:10, e niente ora poteva impedire l'adempimento di tutto il resto.
a) Quando, dall'alto della croce, il Signore gridò "tetelestai", egli proclamò la sconfitta di Satana, e l'insuccesso di tutti i suoi sforzi per tenere schiava la razza umana. Il potente ha trovato un più potente di lui. Col far morire Cristo in croce, Satana si lusingava di assicurare per sempre l'usurpato suo dominio: la croce fu invece il monumento della sua sconfitta, imperocché in quella il Messia, "avendo spogliate le podestà, e i principati, li ha pubblicamente menati in spettacolo, trionfando d'essi in esso Colossesi 2:15.
b) Con quella parola: "è compiuto", Gesù proclamò adempiuta l'opera di redenzione; la morte sua, espiazione sufficiente del peccato; avverata la profezia di Daniele Daniele 9:24, esser cioè quell'ora, il tempo fissato "per terminare il misfatto, e per far venir meno i peccati, e per far purgamento per l'iniquità, e per addurre la giustizia eterna". Da quel momento in poi Gesù sarà dinanzi a Dio la giustizia del peccatore; non vi sarà più, condannazione per quelli che sono in lui, perché "il Signore si compiaceva in lui per amore della sua giustizia" Profeta Isaia 42:21.
c) Con quella parola, Gesù proclama che tutte le esigenze della legge sono appieno soddisfatte, per quanto riguarda quelli che accettano Gesù come loro giustizia. La giustizia di Dio più non gli consente di punire quelli a pro dei quali Cristo ha già patito. "Egli ha fatto esser peccato per noi colui che non ha conosciuto peccato, acciocché noi fossimo fatti giustizia di Dio in lui" 2°Corinzi 5:21.
d) Con quella parola, Gesù proclamò abolita la dispensazione dell'Antico Testamento, avendo egli adempiuto tutti i tipi e tutte le figure della legge cerimoniale, dimodoché i sacrifici ed i riti che erano obbligatori sotto la legge di Mosè, più non lo sono per i cristiani "perciocché il fin della legge è Cristo in giustizia ad ogni credente" Romani 10:4.
e) Con quella parola, Cristo dichiarò pure adempiute in lui medesimo tutte le profezie dell'Antico Testamento. Pietro ci dice 1Pietro 1:10, che lo studio prediletto dei profeti antichi consisteva nell'investigare che cosa significassero le cose loro rivelate dallo Spirito intorno a Cristo, e Giovanni dichiara, Apocalisse 19:10, che "la testimonianza di Gesù è lo spirito della profezia". Quei profeti avevano adempiuto fedelmente l'opera loro affidata; ma ora quella più non era necessaria, perché Gesù è il sommo profeta della dispensazione del Vangelo, e colla sua Parola, e col suo Spirito fa conoscere ai suoi la volontà di Dio.
f) Finalmente, con quella parola, Gesù dichiarò che quel suo sacrificio di sé medesimo in sulla croce era unico e completo, né mai doveva venir ripetuto. Bestemmiano adunque quelli che pretendono rinnovare il sacrificio di Cristo, mediante gl'incantesimi di un prete all'altare; imperocché senza spargimento di sangue nessun sacrificio espiatorio può essere efficace, e Cristo non ha delegato a nessuno, né in terra né in cielo, il potere di versar nuovamente il suo sangue. S.Paolo ci dice che "Cristo, essendo risuscitato dai morti, non muore più" lettera ai Romani cap.6:9, che "egli è entrato nel cielo stesso per comparire ora davanti alla faccia di Dio per noi" Ebrei 9:24. L'inevitabile conclusione di tali passi delle Scritture si è che Cristo ha offerto, a favore di tutti quelli che crederanno in lui fino alla fine dei tempi, un sacrificio perfetto, e che la messa della Chiesa Greca e Latina è una imitazione blasfematoria dell'inimitabile suo sacrificio. La messa invero falsifica la testimonianza di Cristo morente in croce, ed è la rovina delle anime che ad essa si affidano, Quando il Signore pronunziò quella parola, "sia che alzasse gli occhi a Dio e pensasse all'aver egli glorificato il Padre suo, e adempiuta l'opera affidatagli in terra; sia che abbassasse lo sguardo sulla terra, e contemplasse la potenza salvatrice che la sua croce presto eserciterebbe sopra milioni di esseri umani, quello dovette essere per Gesù Cristo un momento di intensissima gioia. Egli ha patito l'ultima tortura, ha reso l'ultimo servizio, ha adempiuto l'opera sua vicaria, e ben può esclamare: "È FINITO!"
La settima ed ultima parola di Cristo in sulla croce. Luca 23:46, è solo a riferirci questa parola, la quale, senza dubbio, seguì immediatamente la precedente: "Gesù avendo gridato con gran voce, disse: Padre, io rimetto lo spirito mio nelle tue mani. "Alla dolorosa esperienza dell'abbandono è succeduta ora quella della piena fiducia e della gioia; il grido di angoscia: "Mio Dio, mio Dio" dà luogo al nome abituale ed amorevole di "Padre". "Le tenebre passano, e già risplende la vera luce" 1°Giovanni 2:8, che non verrà oscurata mai più, e nel linguaggio di quei Salmi, che erano sempre sulle sue labbra Salmo 31:6, con voce che si fece udire tutto all'intorno, Gesù affida al suo Padre celeste l'anima sua, per tutto il tempo durante il quale il corpo suo giacerà nel sepolcro. Con queste parole, il Salvatore dichiara che la sua natura umana consiste di un corpo e di un'anima, che l'anima sua non sarà annichilata dalla morte, ma continuerà a sussistere, anche separata dal corpo, e che egli appieno si affida in Dio, che vorrà riceverla e custodirla in sicurezza e felicità perfetta, finché non venga nuovamente riunita al corpo al terzo giorno. Sono stati scritti, per spiegare che cosa avvenisse dell'anima di Cristo, dopo che egli ebbe reso lo Spirito, volumi senza numero, dei quali si sarebbe potuto fare a meno, se gli uomini si fossero accontentati di ricevere il semplice insegnamento della Parola di Dio. Cristo, avendo rimesso lo Spirito suo nelle mani del Padre, e il Padre avendo accettato il sacro deposito, è chiaro che fra la morte e la risurrezione, l'anima di Cristo era col Padre in cielo, il che d'altronde è comprovato pure dalle parole di Cristo al malfattore pentito Luca 23:43. Guidata da questi passi, e dalle consimili dichiarazioni di S.Paolo che il partire dal corpo è un "andare ad abitare col Signore" 2°Corinzi 5:8, e che il "partire di questo albergo ed essere con Cristo è di gran lunga migliore" Filippesi 1:23, la Chiesa Presbiteriana in Gran Bretagna, in Irlanda ed in America, ha sempre rigettato il purgatorio romano, o qualsiasi stato intermedio per le anime dei morti, come contrario alle Scritture, e sostiene nelle sue confessioni di fede che "le anime dei fedeli, alla loro morte, sono rese perfette in santità, e passano immediatamente alla gloria; e i corpi loro, essendo sempre uniti a Cristo Gesù, riposano nella tomba fino alla risurrezione. La dottrina che Cristo discese all'inferno non ha altro fondamento che una esegesi erronea delle parole: "Andò a predicare agli spiriti che sono in carcere" di 1°Pietro 3:19; mentre l'articolo del Credo: "discese all'inferno", che alcuni ritengono così tenacemente come se fosse parola inspirata, altro non è che una falsificazione introdotta nel Credo alla fine del quarto secolo dalla Chiesa di Aquileia, e non ricevuta dalla generalità che alla fine del sesto. Per ulteriori informazioni su questo soggetto, Vedi Pearson sul Credo, o il Credo del Rev. Teofilo Gay, Firenze 1883.
E, chinato il capo, rendè lo Spirito
Benché la vecchia bibbia Diodati traduca "rendè" in tutti e quattro i vangeli, due soli fanno uso della medesima espressione; ma tutti fanno chiaramente intendere elle la morte del Messia fu pienamente volontaria e spontanea, come lo prova pure l'alto grido che l'accompagnò. Essa non fu dunque semplicemente il risultato del suo fisico indebolimento. Fino a quell'istante, il "Signore", in mezzo a tutte le sue torture, aveva tenuto il capo eretto; ora lo china, significando che depone la vita, e l'amato suo discepolo osserva e ricorda questo minuto particolare dei suoi ultimi momenti. Ci ripugna di seguire Strauss, Hanna ed altri nelle loro congetture riguardo alla causa fisica della morte di Cristo; è questo un argomento troppo sacro per consimili speculazioni, senza contare che non sarà mai possibile di giungere, a questo riguardo, ad una conclusione soddisfacente. Con Milligan crediamo che le ricerche fatte su questo punto urtano il sentimento cristiano assai più che non soddisfino ad uno spirito legittimo di ricerca scientifica.
RIFLESSIONI
1. "C'insegni l'esempio di Ponzio Pilato quali misere creature sieno anche i più grandi fra gli uomini, quando non sono guidati da principi elevati, e non credono in un Dio che governa i regnanti. Il più umile operaio che possiede la grazia e tenie Iddio, è, agli occhi del Creatore, più nobile di un re, di un governatore, di un uomo di Stato, il cui primo scopo non è già di far quello che è giusto, bensì di piacere al popolo. Avere una coscienza in privato ed un'altra in pubblico; una norma di doveri per le anime nostre ed un'altra per gli atti pubblici; vedere chiaramente quello che è bene dinanzi a Dio, eppure fare il male, per amore di popolarità ciò può parere a taluni retto, politico, abile e sapiente; ma un tal carattere, nessun cristiano lo potrà mai rispettare. Domandiamo al Signore che al nostro paese non manchino mai uomini altolocati, i quali non solo pensino rettamente, ma abbiano il coraggio di agire in conformità delle loro convinzioni, senza inchinarsi alle opinioni altrui. Uomini i quali, come Ponzio Pilato, sempre intrigano, sempre cercano compromessi, e si lasciano guidare dall'opinione anziché guidarla; uomini che temono di fare il bene per timore di offendere qualcuno, e son pronti a fare il male, per acquistar popolarità, sono i peggiori rettori che un paese possa avere. Sono spesso il più grave castigo che Dio mandi ad una nazione per i suoi peccati". Cordialmente, Antonio. |