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« Parole in affittoLa lista di Cecilia »

L'albero bottiglia e la stella a cinque punte.

Post n°177 pubblicato il 19 Luglio 2013 da Noneraunsogno

 

hhh

Le storie straordinarie di ognuno di noi non hanno bisogno di essere ricordate nei libri, non chiedono di sopravvivere negli scatti, non trovano posto nelle bancarelle che affollano i marciapiedi del presente, stracolmi, per la maggior parte, di polvere, di passato e di ricordi.

Per caso o per disegno di vino, esse riemergono ogni tanto nei piccoli avvenimenti che trasformano uomini e cose in specchi trasparenti dentro cui le nostre storie rivivono con la stessa forza e lo stesso impeto di altri tempi.

Una strada, un viale una volta delle Scienze ed oggi striscia di asfalto sopra cui macchine  e moto di qualunque tipo e cilindrata parcheggiano i loro culi di plastica e di ferro, mi viene incontro, come se avesse riconosciuto nei miei passi i battiti di un cuore che lo aveva amato tanto.

Quanti anni ho trascorso in questo angolo di mondo?
Quattro, cinque o forse venti?

Anni vissuti intensamente dentro un pensionato per studenti che sembrava allora l'ombelico del mondo; giorni che avevano sorrisi impressi su ogni suo attimo, su ogni suo minuto, su ogni suo secondo di vissuto.

Ecco la facoltà di Agraria,  il giardino degli esperimenti, gli alberi leggendari da cui rami pendevano pompelmi dal sapore di fragola e mandarini dentro cui scoprivi il gusto dolce delle pesche gialle.

Ricordi - Pietro -  le razzie notturne in quel giardino?  E le fughe inseguiti dal vigilante che ci sorprendeva sempre alle spalle?

Non le senti le sirene che annunciano la carica, quando con i vassoi in mano ce ne stavamo compatti al centro della strada reclamando una mensa sana per i nostri poveri corpi?

E le leggende di cui parlavi quando ci trovavamo davanti Ingegneria, i posti che elencavi pieni di obiettivi da colpire, i muri su cui scrivere le frasi, non li vedi e non li senti mormorare qualcosa, non ti sembrano gli stessi?

Sembrano dire: " Finalmente!", sembrano farsi largo fra le nuove costruzioni che hanno alterato lo scenario di guerra e la stessa lotta del Sentimento contro la Ragione.

Dimmi - Pietro  - non li riconosci quei giorni che se ne stanno ancora seduti sui gradini della facoltà di Lettere?

Si lo so, non era la tua facoltà, ma c'era tutta una cultura allora che scambiava sedi, anime e studenti come se ritenesse necessario conoscere tutto di tutti, indifferentemente.

Io rido e do le spalle alla città; qui il mondo rimane fuori dai cancelli, qui i ragazzi hanno le stesse facce di sempre, hanno baci e carezze che non sono stati ancora violentati  dall'usura delle esperienze, hanno occhi che sembrano incendi e barbe incolte,  nere, rosse, seducenti.

Hanno sogni che tengono per mano, parole che non sanguinano lamenti.
Avanzano fieri della bellezza dei loro giovani anni.

Più avanti, il deserto del parcheggio ricavato nella "rive gauche" di questo fiume di cemento fa a pugni con il verde delle chiome degli alberi di alto fusto che sovrastano, quasi come un verde cielo, le panchine di marmo sopra cui continuano  a sbocciare amori e strategie antimperialiste.

Solo i falsi Kapok, buffi nelle loro spinose e goffe uniformi, sono rimasti  tali e quali.

Forse, come loro, anche noi non siamo morti?

Vedi - Pietro - noi siamo dentro queste cose, siamo stati sempre qui, sdraiati sul tetto del pensionato aspettando gli extraterrestri.

Tu ed io, e Giovanna, Guglielmo, Lillo, Roberto, il Poeta ed il Pittore, insieme a Maria e ad Anna, che sebbene fosse di Caltanissetta e non di Francia, ci faceva cantare per tutta la notte " non sarò il tuo manico di scopa travestito da amante o da marito".

Adesso sono di nuovo nel giardinetto che si trova davanti la Facoltà di Lettere; da qui osservo i muri che sorreggono l'edificio, leggo le scritte cancellate dalla furia della Pace e del Tempo.

Qui ho conosciuto l'amore, qui ho combattuto, lottato e resistito, qui ho nascosto l'eroe silenzioso che s'aggirava fra le pieghe del mio sommerso, il ragazzo che credeva nel suo sogno.

Di fronte  a me c'è un falso Kapok che sembra volermi abbracciare; ha una incisione nella sua buffa corteccia. Da lontano sembra un cuore, una firma, una freccia.

Faccio alcuni passi in avanti perchè gli anni, purtroppo, hanno segnato la mia vista, così scopro che l'incisione non è altro che una stella a cinque punte, una stella scolpita da chissà quale mano ardita, forse negli stessi anni in cui io coloravo i muri di Lettere con la mia follia e miei turbamenti.

Una voce mi chiama all'improvviso, proviene dalla vicina facoltà di Economia, " è il suo turno".

Oggi è giorno di  lauree. Mio figlio sembro io imbranato nella corazza di lino; muove le mani continuamente, sta cercando un appiglio da qualche parte.

Si precita, dunque,  così alla fine di ogni viaggio?

La voce, intanto, insiste, mi reclama, ho il suo respiro fra le braccia.

Anche lei nota la stella  che brilla sul tronco del panciuto albero da mostra.
"Benvenuta in questa folle dimora" sembra dirle, in qualche modo, l'albero che sfoggia in petto la stella a cinque punte.

Lo sceriffo di legno sta tentando di riportare la giustizia nella terra selvaggia della Scienza  e della Conoscenza.

" Siamo  a casa" le sussurro io, dolcemente, sorseggiando dello spumante da una bottiglia che stappato anzitempo, senza cerimonia ed applausi per l'evento.

Dolcemente, come si trattasse di  condividere un segreto, come se si avesse paura di gridarlo o di frantumare le storie straordinarie che scriverò sui muri dei miei prossimi anni.

 
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