L' Arciconfraternita veliterna

Post n°14 pubblicato il 02 Maggio 2006 da processo
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L’origine della Confraternita del Gonfalone di Velletri, si perde nella notte dei tempi. Riconosciuta Canonicamente nel 1348 propabilmente già esisteva, fu Papa Clemente VI con il breve Splendor Paternae Gloriae a leggittimarne le pratiche di devozione e di culto. Lo stesso Pontefice concesse ai confratelli la Chiesa di Santa Maria del Pontone sita vicino alla “portella” nella zona di Via Metabo. Nel 1398 un forte terremoto distrusse questa chiesa e i confratelli che per mancanza di fondi non potevano provvedere alla ricostruzione chiesero a Bonifacio X la concessione di altra sede. Con il breve del 5 Dicembre 1440 il Papa concesse ai fratelloni la Chiesa di S. Giovanni in Plagis ( sita nell’ attuale Piazzale Coop) Il sodalizio nato con vocazione ospedaliera eresse nella Chiesa e locali annessi di cui era proprietario fuori Porta Romana un ricovero per gli infermi.I Confrati che certo non potevano mantenere da soli l ‘ Ospedale con istromento del notaio Crispini del 30 Luglio 1297 lo diedero ai coniugi Gugliemi ai quali corrispondevano tutto il necessario per il mantenimento della struttura. Dopo la morte dei Guglielmi non essendo soddisfatti della gestione di chi era loro succeduto ui confratelli nel 1578 chiamarono a Velletri i frati di S. Giovanni di Dio dette i Fatebenefratelli. Questi religiosi accettarono di curare la struttura. Dieci anni dopo visto che i religiosi soddisfacevano sia la confraternita che i bisogni degli infermi ottenute le necessarie da parte del Cardinale Alessandro Farnese si decise di concedere la struttura ai detti religiosi mediante un istromento rogato dal notaio Angelini il 28 Dicembre 1588.Qualche tempo la stipula del citato atto i Confratelli iniziarono ad esercitare i loro diritti su S. Giovanni Battista svolgendovi alcune pratiche devozionali e di culto. I Padri non si opposero perché sapevano di essere ospiti e non proprietari. Questa pacifica convivenza andò avanti fino al terremoto del 26 Agosto 1806 quando andata in rovina la Chiesa di S. Giovanni in Plagisa i confratelli si trasferirono con “armi e bagagli” in S. Giovanni Battista. La chiesa era stata restauirata grazie alle offerte raccolte dai religiosi questo diede adito alla stipula di una nuova convenzione tra le parti essa prevedeva la divisione delle competenze e delle spese per la custodia dell’immobile. Iniziano dal 1849 durissimi scontri tra i Confratelli del Gonfalone e l‘Ordine dei Fatebenefratelli per l ‘ uso della chiesa. I Religiosi dimentichi di quanto stipulato nel 1588 sollevarono perfino il quesito a chi appartenesse la Chiesa annessa all’Ospedale sostenendo che era di loro proprietà e che quindi era lo intenzione impedire ai Confratelli di svolgere in essa i divini offici. Pretese assurde che la Confraternita respinse andando in giudizio come vedremo. Infatti venne chiesto un parere legale all’Avvocato Giuseppe Trombetti che dopo aver dettagliatamente esaminato la pratica diede ragione alla Confraternita  comprovando la leggittimità delle richieste, i frati non si fidarono e ricorsero all’ordinario diocesano affinchè intervenisse con la sua autorità. Passarono anni e preso atto che non si potevano sostenere le vie di giudizio i religioisi vennero per così dire a canossa pronendo una serie di clausole conciliatrici che non vennero accettate dalla Confraternita. Solo il 30 Agosto 1859 si arrivò ad una prima soluzione del contenzioso. Il documento stabiliva la divisione delle pratiche di culto dei religiosi e della Confraternita, le spese di manuntenzione erano a carico della Confraternita per due parti e per una a carico dei religiosi. E così via. Dopo questo fatto i religiosi e i confratelli ritornarono ad una convivenza civile. Con la nascita del Regno d‘Italia e la conseguente soppressione degli ordini religiosi le cose cambiarono. Giulio Montagna in una relazione preparata per il Vescovo Mons. Andrea Maria Erba in occasione della sua visita pastorale fatta alla Confraternita nel 1996 ci riferisce che i Confratelli furono cacciati da S. Giovanni Battista il 25 Luglio 1876 con la scusa che il loro salmodiare dava fastidio ai ricoverati del vicino ospedale.Si trasferirono nella Chiesa dei SS Pietro e Bartolomeo dove ancora hanno sede.Questo sodalizio nasce come Società dei Raccomandati della Gloriosa Vergine Maria, nel 1449 assume il titolo di Disciplinati di S. Maria e nel 1585 in seguito all’aggregazione all’ Arciconfraternita  del Gonfalone di Roma assume l’attuale titolo di Confraternita di Maria Ssma del Gonfalone. Nel 1889 Aurelio Mariani realizza lo splendido stendardo processionale  dono del Comune alla Confraternita. I Confratelli del Gonfalone il Venerdì Santo svolgevano le Sacre Rappresentazioni della Passione nel Teatro di Piazza Caduti sul Lavoro. Quando nel 1765 nonostante le rimostranze di Stefano Borgia il teatro venne abbattuto la Confraternita proseguì ancora questa tradizione fino al 1852 con una processione che partiva dalla Chiesa di S. Giovanni. Oggi all’alba del terzo millennio rinvigorita da nuova forza giovanile sta tornando a vita nuova. Di questo ne diamo atto al presidente Paolo Crocetta e a tutti  i confrati che sotto la guida del primicerio Mons. Angelo Lopes continuano a scrivere questa bella pagina del grande libro della storia di Velletri.

 

 
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L' Arciconfraternita del Gonfalone

Post n°13 pubblicato il 02 Maggio 2006 da processo
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Col sorgere dei comuni l’ individuo acquista una maggiore libertà e quindi da sfogo alla sua esigenza di associarsi e quindi nascono realtà con fini economici ma tante anche con fini spirituali. Le Confraternite che esistevano da tempo quindi ottengono una facilità di sviluppo. Intorno al 200 inizia a comparire il movimento dei Disciplinati in risposta alla dilagante corruzione. Nel 1260 Ranieri Fasani un eremita perugino incitò i cittadini alla penitenza e vestito di sacco spinse il popolo a flagellarsi pubblicamente creando così la compagnia dei Disciplinati di Cristo. L’ esempio di Ranieri venne seguito in gran parte d’ Italia e in Europa. Le numerose confraternite che si formavano presero il nome di Flagellanti, Battuti, Disciplinati, Frustati e così via. La disciplina veniva praticata di notte in chiese o in oratori lasciando solo due lumi accesi sull’ altare e sul banco del governatore del coro. In principio lo scopo era solo la flagellazione che spesso diventava fanatismo ma poi col passare del tempo iniziavano ad esercitare opere di misericordia che divennero poi lo scopo del sodalizio che diede vita a Roma a numerose confraternite che poi si raggruppavano in quella dei Disciplinati del Sancta Santorum. I battuti del 1260 si posero come capostipiti di numerosi moti similari che nacquero in Italia e in Europa. Nel 1399 nasce quello dei Bianchi così chiamato per il colore dell’ abito ma i sodalizi sorti a seguito di questo movimento non furono numerosi per la diminuzione del sentimento religioso. Ma soprattutto perché molte ne esistevano. Alla fine dell’400 la quasi totalità dei cattolici apparteneva ad una confraternita molti erano già ascritti a più di una Ven. istituzione. Tante confraternite sorsero anche grazie ad un risveglio della devozione al SS.mo Sacramento. Infatti alla fine del 400 grazie ai Minori Osservanti Cherubino da Spoleto e Bernardino da Feltre nascono numerose compagnie del Sacratissimo Corpo di Cristo (Parma 1486 – Perugina 1487 – Orvieto 1488 – Genova – Ravenna – Brescia ).A Roma la prima confraternita del SS. mo Corpo di Cristo nasce nel 1501 in S. Lorenzo in Damaso. Nella città eterna lo sviluppo delle Confraternite fu relativamente tardo la prima di cui abbiamo traccia è quella del Gonfalone del 1264 molti sodalizi sorsero nel ‘ 500 il periodo della grande riforma cattolica. La legge del 20 Luglio 1890 uccise le confraternite con l’ incameramento dei loro beni mobili al Demanio e la destinazione delle loro rendite ad istituti di Beneficenza dal legislatore le Confraternite venivano ritenute più dannose che utili alla società.Due canonici della Basilica di S. Vitale tali Jacomo e Agnolo di ritorno da S. Giacomo di Compostela intorno al 1260 decisero di fondare una compagnia di laici con lo scopo della penitenza e della preghiera in comune. I due fondatori chieserop a dodici patrizi romani di cui si ignorano i nomi di entrare a far parte del Sodalizio affinché con il loro esempio trascinassero altri fedeli. Ben presto le richieste di “aggregazione” furono così tante che fu necessario stabilire una regola a cui uniformarsi. I Canonici e i dodici primi iscritti chiesero al Vicario Pontificio Fra Tommaso dei Foschi della Berta dell’ ordine dei predicatori Vescovo di Siena l’approvazione del loro primo regolamento. Il prelato lì mandò da Fra Bonaventura da Bagnorea francescano. Il Santo frate convinto della bontà dell’ opera chiese tre giorni per riflettere in preghiera e digiuno. Sembra che in questo periodo gli fosse apparsa la Vergine che tra il suo manto teneva i Confratelli vestiti di sacco bianco con la croce rossa e bianca in campo azzurro dalla parte destra del petto con corona e disciplina pendente dal cordone. Bonaventura quindi dettò le regole del sodalizio che prese il nome di accomandati o raccomandati di Madonna S. Maria o anche Compagnia della Frusta. Lo statuto venne approvato dal Vicario Pontificio che secondo il Iannucci concesse 40 giorni d’indulgenza a chi si comunicava o sentisse le prediche ovvero intervenissero alle congregazioni di essa confraternita. L’approvazione secondo la tradizione venne concessa nel 1264 la data di erezione invece si fa risalire al Breve di Clemente IV dato tra il 1267 e il 1268 anno terzo del suo pontificato. La prima sede del sodalizio fu Santa Maria Maggiore per venerare la Salus Popoli Romani mentre al momento dell’approvazione aveva sede a S. Alberto all’Esquilino dove esistevano oltre la chiesa, l’oratorio, l’ospedale, una casa e l’orto. L’appellativo di Compagnia del Gonfalone viene dal fatto che nel 1351 i fratelli riuniti nella Chiesa di Santa Maria Maggiore proposero a capo del popolo Giovanni Cerrone che condussero trionfalmente in Campidoglio e al suono della campana venne radunato il popolo che confermò per acclamazione l’eletto. In conseguenza di tale fatto lasciato il titolo di raccomandati di Santa Maria la compagnia prese quello del Gonfalone perché sotto lo stendardo della libertà della Patria e della giustizia liberata avessero Roma con la protezione della Ssma Vergine. Innocenzo VIII riconobbe la Compagnia del Gonfalone nel 1486. Tra le attività è interessante quella del riscatto degli schiavi sancita dalla Bolla di Gregorio XII Cristianee Nobiscum del 27 Maggio 1581. Il Papa nominava la Confraternita amministratrice dell’opera dl riscatto. La Congregazione generale del sodalizio espresse parere favorevole e quindi i Guardiani poterono accettare di buon grado ringraziando il Papa della fiducia loro data. In tutto il periodo in cui fu in attività la Confraternita liberò 5.400 individui.

 

 
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La chiesa di S. Apollonia

Post n°12 pubblicato il 02 Maggio 2006 da processo
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Nel limitare della Decarcia di S. Maria nel centro storico di Velletri si trova la bella chiesa di S. Apollonia V.M., una vera meraviglia del barocco. Le notizie su questo grazioso edificio sacro risalgono alla prima metà del XVII secolo quando essa venne eretta dai frati del Terzo Ordine di S. Francesco. P Benigno Di Fonzo nel suo intervento sul numero unico “Velletri Francescana” (1961) parla dell’ordine dei Terziari datandone l’ingresso a Velletri nel 1621. Dimorarono prima a qualche miglio dalla città  presso la chiesetta di S. Maria degli Angeli, concessa loro dalla confraternita della Misericordia, nella quale secondo la tradizione si era fermato S. Francesco di passaggio nella nostra città . Il titolo stesso di S. Maria degli Angeli e la festa che si celebrava il 2 agosto (Perdono di Assisi) starebbero ad indicare l’origine francescana della chiesetta. Sotto Urbano VIII nel 1631 i Terziari si portarono nel convento di S. Apollonia per la cui costruzione lo stesso papa aveva fatto devolvere le entrate che appartenevano al convento dei PP. Trinitari di S. Lucia di Palestrina. Nessuna scrittura di archivio di fornisce il nome dell’architetto che curò la fabbrica. Ma sappiamo bene però l’autore delle pregevoli decorazioni a stucco che Ettore Novelli ricondusse a Paolo Naldini, lo stesso stuccatore della galleria dell’ormai distrutto palazzo Ginnetti in piazza Cairoli. Novelli, secondo Tersenghi, desunse questa notizia dalle “Vite di pittori” del Pascoli il quale parla della presenza del Naldini a Velletri per una commessa ricevuta dal cardinale Ginnetti nel suo palazzo. La fonte settecentesca parla di una chiesa all’interno della quale Naldini lavorò dopo aver realizzato quella meraviglia che era la galleria Ginnetti. Ettore Novelli confronta gli stucchi perduti con quelli di S. Apollonia e vista la straordinaria somiglianza li assegna con certezza allo stuccatore romano che dovrebbe averli eseguiti contemporaneamente a quelli del palazzo Ginnetti, tra il 1647 e il 1648. La chiesa venne benedetta e consacrata il 15 agosto 1633 dal vescovo Giuliano Viviani suffraganeo del cardinale Domenico Ginnasi vescovo di Ostia e Velletri dal 1630 al 1639. I padri, prima di prendere possesso della nuova chiesa, ricevettero in dono dal loro generale P. Ludovico Ciotti una bellissima immagine della Madonna con il Bambino che venne tolta dalla basilica romana dei SS. Cosma e Damiano. Essa venne posta sul terzo altare a destra di chi entra e venerata con il bellissimo titolo di Madonna della Vita. Si tratta dell’unica opera rimasta del periodo romano del grande maestro marchigiano Gentile da Fabriano. Nel 1913 per preservarla da eventuali furti venne portata nell’aula capitolare ed oggi esposta nelle sale del museo diocesano. Il primo a scrivere su questa tavola fu Bonaventura Teoli nel suo “Teatro Historico di Velletri”. L’arcivescovo veliterno dice di essere stato presente alla cerimonia di consacrazione della chiesa di S. Apollonia avvenuta come abbiamo detto il 15 agosto 1633 e di aver assistito alla donazione della tavola. Il Teoli data la tavola dal 1526, la stessa a cui si riferisce il mosaico absidale della chiesa dei Santi Cosma e Damiano sotto la committenza di Felice IV. Alessandro Borgia nella sua “Istoria della chiesa e città di Velletri” (1723) conferma le conclusione del Teoli. Tersenghi nel 1910 mette in dubbio tali conclusioni e pone la tavola tra i secoli XIV-XV. Lionello Venturi, il primo studioso a ricostruire le vicende della tavola, spiegò l’errore in cui erano caduti sia il Teoli che il Borgia ingannati dall’iscrizione che venne posta dopo la stesura pittorica. Venturi stendendo il catalogo di Gentile da Fabriano datò l’opera collocandola al periodo in cui il grande lavorò a Roma (1426-1427), di questo soggiorno sono andati perduti gli affreschi del Laterano e la Madonna di Velletri resta l’unica testimonianza. La critica artistica successiva conferma le conclusioni del Venturi, ma Christian nel 1982 fornisce un tassello in più nella storia dell’immagine ipotizzando che questa fu commissionata a Gentile per il IX centenario della consacrazione della chiesa dei SS. Cosma e Damiano. De Marchi nel 1922 contraddice quanto sopra esposto dicendo che a suo avviso una commissione del genere prevederebbe una mentalità antiquaria non molto plausibile. Dalle scritture notarili si evince che la Madonna aveva una grande devozione perché numerose furono le donazioni. Nel 1683, il 26 dicembre, il notaio Carlo Vergati rogò l’atto di donazione di sei candelieri in argento da parte di padre Michele Baronio. Nel 1795 il notaio Gregorio Fortuna rogò l’atto di concessione in juspatronato della cappella della Madonna della Vita ai fratelli Giovanni e Pietro Corsetti la cui sepoltura è sita sul pilastro di destra della stessa cappella con lo stemma nobiliare. Il 4 luglio 2004 grazie alla disponibilità del maestro Ezio De Rubeis e della sua bottega è stato possibile, dopo più di ottant'anni dal trasferimento della tavola nella collezione diocesana, di porre sull’altare una copia fedele del prezioso manufatto restituendo così alla città una importantissima pagina del suo passato. La copia è stata benedetta dal rettore P. Evangelista Zinanni. La facciata della chiesa secondo alcuni studi recenti è invece riconducibile al 1762 ed è inquadrata da un timpano e da lisce paraste ai lati, presenta un portale con timpano curvilineo sormontato da un finestrone. Esternamente semplice e povera di decorazione ben si accorda con la regola di povertà dell’ordine francescano per cui venne eretta. Per tradizione vi celebrò S. Giovanni Bosco in visita a Velletri. La navata è unica mentre la pianta è longitudinale. La chiesa presenta sette altari che nel corso dei secoli hanno più volte mutato dedicazione. Il più antico documento di archivio in nostro possesso è un inventario manoscritto redatto in occasione della visita pastorale del cardinale Ludovico Micara. L’autore dice che tre altari erano concessi in juspatronato, uno ai Corsetti come abbiamo detto dedicato alla Madonna della Vita, il secondo ai Comparetti dedicato a S. Domenico ma senza l'immagine del santo e il terzo ai Pietromarchi dedicato a S. Antonio mentre gli altri quattro erano di proprietà  della confraternita della Carità, Orazione e Morte che, come vedremo, succederà ai frati nell’officiatura della chiesa. Nel 1842 Costantino Campori lasciò un terreno alla confraternita affinché, con i suoi fruttati, si commissionasse una statua di S. Giuseppe da collocare in una delle cappelle di proprietà  della confraternita e la stessa dovesse essere sistemata per accogliervi la statua con le stesse citate rendite. Per tutto era deputato sig. Casimiro Pietromarchi, il quale dopo tre anni che amministrava le rendite diede rinuncia all’incarico. L’incarico fu portato a termine da Gioacchino Favale che quando terminò la statua fece anche la prima processione con la macchina donata dal Campori. I registri delle deliberazioni consiliari portano numerose tracce del fattivo contributo del comune per il completamento della chiesa:

1670 - vol 56 li 26 febbraio: si accordano scudi 50 ai PP. di S. Apollonia per la fabbrica della chiesa.

1673 - vol 56 li 13 marzo: si donino scudi 50 ai PP. di S. Apollonia per la fabbrica della chiesa.

1677 - vol 56 li 17 gennaio: si accordano altri scudi 50 ai PP. di S. Apollonia per terminare la chiesa.

1688 - vol 57 li 2 luglio: si risolve di pagare la spesa del soffitto della chiesa di S. Apollonia man mano che si far a condizione di apporvi l’arme della comunità.

1725 - vol 60 li 29 aprile: si accordino scudi 20 ai frati di S. Apollonia per il coro e l’organo.

1726 - vol 65 li 17 luglio: si accordino scudi 70 ai PP. di S. Apollonia per la facciata della chiesa. A causa delle soppressioni del 1810 dovute all’occupazione dello stato pontificio da parte delle truppe di Napoleone i Terziari dovettero lasciare il convento e la chiesa di S. Apollonia. Questa rimase così vacante fino al 1814 quando il parroco di S. Martino chiese al cardinale Alessandro Mattei di concedere alla confraternita della Carità, Orazione e Morte la detta chiesa per le congregazioni generali essendo l’oratorio di S. Martino ormai troppo stretto. Il cardinale Mattei il 9 novembre 1814 la concesse in forma provvisoria con l’unica clausola che le ore delle funzioni fossero concordate con il parroco di S. Martino. Il 16 luglio 1816 il notaro cancelliere vescovile Vincenzo Pagnocelli stese l’atto di donazione perpetua della chiesa di S. Apollonia alla confraternita. “Essendo come per verità si asserisce che fin dall’anno 1569 fosse concessa dal parroco rettore della Chiesa di S. Martino alla V. Compagnia della Carità  l’altare della B.ma Vergine di questo nome retto in detta chiesa ed abbia perché, detta compagnia continuato nel possesso fino a questi ultimi tempi di detta cappella. Per le varie vertenze per altro insolite fra la compagnia e li padri Somaschi (...)”. Il S.P. ossia la sacra congregazione dei vescovi sin dal 3 marzo 1809 ordinò la traslazione di detta compagnia in altra chiesa da destinarsi all’Em.mo ordinario protempore. Nonostante la concessione di una chiesa propria alla confraternita fosse stata stabilita molto tempo prima non si poté procedere prima perché gli eventi non lo permisero ma sopratutto perché non c’erano gli spazi adeguati. Con la soppressione del Terziari le cose divennero più facili. “Per mancanza di un congruo locale che di presente ritrovarsi nella chiesa di S. Apollonia la quale possedevasi in avanti dai PP. del Terz’Ordine di S. Francesco (...) che patirono come gli altri conventi religiosi la soppressione nell’epoca del sovrano francese che dal 1809 durò fino al 1814, sebbene siano stati ripristinati dal sommo glorioso nostro pontefice Pio VII felicemente regnante (...) ad ogni modo i religiosi dell’ordine non sono più ristabiliti in questa nostra città e perciò la detta chiesa col convento, e beni sono stati concessi con breve del 1 settembre 1815 all’Em.mo cardinale Alessandro Mattei ordinario di Velletri (...)”. Il cardinale Mattei quindi poteva disporre del complesso di S. Apollonia a suo piacimento garantendone una degna ufficiatura. “Per provvedere esenziando alla manutenzione della sudetta chiesa siasi degnato di concedere alla detta V. compagnia la sudetta chiesa con tutto ciò che era proprio dei sudetti religiosi del Terz’Ordine ma che attualmente esiste nella chiesa medesima ed altresì la sagrestia ivi annessa con due stanze superiori con la stanza terrena contigua che ha la sortita per il cortile che deve essere chiusa nonché la stanza terrena che ha ingresso per la via Bandina colla stanza superiore detta Brugiada”. Il parroco di S. Martino nel meglio consentire il trasferimento della confraternita a S. Apollonia concesse ai fratelli la tavola della Madonna della Carità e il corpo di S. Zosimo con la lapide sepolcrale. “Ed altresì il parroco rettore della chiesa di S. Martino perché, più facilmente riuscisse una tale traslazione gli accorda di portar via la Madonna SS.ma della Carità e il corpo di S. Zosimo ivi collocato per dono fatto alla confraternita dalla chiara memoria del cardinale Stefano Borgia nostro velletrano colla lapide già indicata ed altro amovibile di pertinenza”. I confratelli cedettero in proprietà ai padri Somaschi l’oratorio, la cappella che avevano in S. Martino e tutte le loro proprietà intorno alla chiesa di detta compagnia, la quale viceversa “rilascia pure in proprietà alla detta chiesa di S. Martino e l’oratorio ivi annesso per farne l'uso che più gli aggrada riservata a favore della V. confraternita la fabbrichetta tra la chiesa e la posta che resterà  in assoluta proprietà  della confraternita”. L’atto conservato presso l’archivio vescovile di Velletri è firmato per la confraternita dal guardiano Fr. Paolo Pietromarchi, dal camerlengo Fr. Stefano Scolari e da Ottavio Maria Paltrinieri parroco di S. Martino e vicario generale dei PP. Somaschi. Da questo momento la confraternita si stabilisce definitivamente a S. Apollonia dove ha ancora la sua sede. Quando vi entrò l’antico sodalizio la chiesa non aveva certo l’aspetto attuale in special modo il presbiterio. Grazie al contributo del generoso nobile veliterno Romano Romani venne eretto il bellissimo tempietto che oggi ospita la sacra immagine della Madonna della Carità opera preziosa di Antoniazzo Romano. Dall’8 settembre 1943 al 2 giugno 1944 la nostra città subì gravi e pesanti bombardamenti che non risparmiarono la chiesa di S. Apollonia. La sacra immagine della Madonna della Carità venne portata nella chiesa di S. Martino in salvo grazie a P. Italo Mario Laracca, padre Michele Pietrangelo, Spartaco Vita, Pietro Fede ed Augusto Rossetti. Il 16 aprile 1950 venne eletto camerlengo della confraternita Edmondo Trivelloni chiamato a succedere ad Antonio Felici, a lui va ascritto il merito di aver avviato i lavori di restauro e di ricostruzione della chiesa di S. Apollonia. Fu invece Edmondo Trivelloni a portarli a termine con notevole sacrificio ed abnegazione. I registri dei verbali della congregazione segreta della confraternita sono pieni di delibere che lo vedono impegnato per volontà dei confratelli a portare a termine lunghe ed estenuanti battaglie burocratiche per ottenere i finanziamenti necessari per coprire le spese dei lavori. La confraternita provvide a sue spese al restauro di alcuni altari laterali tra i quali quelli di S. Giuseppe e di S. Apollonia, mentre quello attualmente dedicato a S. Pio X fu voluto dall’omonima banca che, fino alla fusione con la Popolare di Terracina, qui faceva celebrare la santa messa in suffragio dei soci defunti. Nel 1969 in occasione del IV centenario della fondazione della confraternita venne realizzato il pavimento in marmo oggi in chiesa, mentre nel 1991 in occasione del V centenario della Madonna fu realizzato quello del coro. Il confratello Paolino Ricci, a sue spese, fece restaurare l’altare di S. Maria Goretti. Nel 1952 grazie alla perizia del confratello ing. Ferruccio Tata Cardini, ispettore onorario alle antichità e belle arti, la sacra immagine della Madonna della Carità fu sottoposta ad un intervento di restauro curato dalla dr.ssa Luisa Mortari e dal dr. Emilio Lavagnino. Nel 1957 la sacra immagine venne trasferita a S. Martino a causa dei pericoli di crollo della chiesa, poté tornare solo nel 1959 a lavori ultimati. Ultimamente sono stati eseguiti nuovi interventi di restauro che hanno mirato al consolidamento della facciata, del tetto e delle coperture sottostanti. Opere realizzate con finanziamenti comunali e con il contributo di privati.

 

 

 

 

 
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La Madonna della Carità

Post n°11 pubblicato il 02 Maggio 2006 da processo
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Pesante l’eredità  che viene dal glorioso passato che vi abbiamo raccontato. Traendo spunto da esso fin dai primi anni novanta è partito un cammino di rinnovamento e di rinascita che ci ha portato ai traguardi odierni. Quando lo scrivente è stato aggregato anche l’arciconfraternita veliterna, stava per essere schiacciata da quella fase di oblio iniziata come abbiamo detto dopo il 1870. La perdita dei beni e la morte degli aggregati ci ha fatto trovare il sodalizio amministrato da un gruppo di benemeriti confratelli che con tenacia e abnegazione lo avevano traghettato fuori dalle rovine della guerra e nonostante la loro non più giovane età  continuavano in attesa di consegnarlo alle future generazioni. Così è stato dopo il 7 agosto 1988 quando padre Italo Mario Laracca mi impose l’abito arrivarono le adesioni convinte e fattive di Stefano Scopino (1989), Emanuele Vidili (1990), Umberto Galante (1992), Teodoro Beccia (1994), Andrea Zaccagnini e Emiliano Battisti (1995), Paolo Cellucci (1996). Le fila cominciavano a rinvigorirsi e i nostri grandi vecchi con gli occhi velati dall’emozione iniziavano ad istradarci lungo il cammino di una vita confraternale consapevole e responsabile .Ci diedero subito la massima fiducia cominciammo subito a fare esperienza esercitando alcuni incarichi che poi divennero nostri una volta avuti i requisiti necessari. Ricordo come grazie al Fr. Quirino Gasbarri, oggi guardiano ad onorem, imparai a fare il maestro dei novizi. Fu lui ad insegnarmi tradizioni, consuetudini e regole che sono il tesoro della nostra nobile istituzione. Sull’altare della Chiesa di S. Apollonia c’è come abbiamo detto una bella immagine della Madonna fatta dipingere dalla N.D. Agnese di Castelluzio per volontà testamentaria. Il suo esecutore Angelo Sorci il 10 maggio 1491 diede commissione alla bottega di Antonio Aquili meglio conosciuto come Antoniazzo Romano. Il popolo veliterno prese subito a venerarla e col passare del tempo, identificandola col titolo del sodalizio, prese a chiamarla Madonna della Carità. Padre Italo Mario Laracca nella sua interessante monografia sulla chiesa di S. Martino dice che in precedenza questa immagine era posta sull’altare maggiore dove fu tolta nel 1547 per fare posto al tabernacolo di marmo per il SS.mo Sacramento. La festa era fissata la “Domenica in Albis” (la prima dopo Pasqua) e si celebrava con grande solennità. Nel 1838 il cardinale Bartolomeo Pacca vescovo e governatore di Ostia e Velletri riformò la festa e la spostò alla prima domenica di settembre con la processione alla vigilia. In questa occasione venne realizzato il meraviglioso trono processionale ligneo oggi perduto.Nel 1796 dovrebbe essere accaduto qualcosa di straordinario nella chiesa di S. Martino. Perché tra le lettere componenti l’epistolario privato del cardinale Stefano Borgia si trova menzionato un presunto movimento degli occhi della sacra immagine. Ma il grande porporato veliterno invitava alla prudenza dicendo che poteva essere un riflesso del cristallo che proteggeva l’immagine.Dall’epistolario del cardinale Stefano Borgia

A Giovanni Paolo Borgia, Roma 27 luglio 1796

Caro Fratello,

Vi ringrazio della indicazione del numero delle confraternite. Questa mattina il sig. Giuseppe Calcagna, che è stato da me per licenziarsi, mi ha detto che l’immagine di S. Martino, che si suppone abbia mossi gli occhi, non è della Pietà, ma della Carità. Su questi prodigi non so se siasi praticata qualche legale inquisizione per asserirli con certezza. Nella mia badia di Rossilli seguì lo stesso, e vi fu grande concorso da Segni, Gavignano e tutti dicevano di aver veduto. (…..) Vedete per tanto quanto conviene andar cauti, se poi le immagini fossero munite di cristalli, potendo questi ingannare i sensi (….). Da sempre gli autori di storia locale si sono abbandonati in lunghe disquisizioni sull’attribuzione della tavola di Maria SS.ma della Carità al grande maestro romano che fu Antonio Aquili meglio conosciuto come Antoniazzo Romano. Nella bottega di piazza della Cerasa si lavorò in serie perché, utilizzando come linea guida il prezioso lavoro del prof. Antonio Paolucci edito nella collana “I gigli dell’arte”, si resta ammutoliti davanti alle straordinarie similitudini iconografiche tra la tavola di Velletri ed altre dell’artista. Proprio da questa stranezza, inizieremo questo tentativo di comparazione per arrivare a dimostrare, se i fatti ci daranno ragione, che la Madonna della Carità è il prodotto di uno splendido lavoro di copiatura in serie. La prima opera con cui porremo a confronto la Madonna di Velletri è l’affresco di Santa Maria del Bonaiuto a Roma. Si tratta di un’opera di recente sottoposta a restauro ma in povere condizioni di conservazione. Quest’affresco, datato 1476, rappresenta una tappa importante della vita artistica di Antoniazzo, qui secondo a quanto dice Francesco Negri Arnoldi si vedono le prime influenze di Domenico Ghirlandaio. Nonostante le consistenti incongruenze cromatiche la composizione stilistica e strutturale riporta d’impatto alla tavola di Santa Apollonia. Differenziando solo nell’espressione del viso, siamo davanti ad un Bambino con la stessa capigliatura bionda con boccoli, guance paffute e occhietti vispi, il piccolo di Santa Maria del Bonaiuto non ha il velo che copre il ventre ma una tunichetta che lo riveste. La Madonna invece ha gli occhi aperti e non socchiusi come la Vergine della Carità ma la stessa composizione del viso così anche quella delle mani che tengono il piccolo ritto sulle ginocchia. Identica la mano destra che cinge le spalle del bambino. La mano sinistra differisce solo dalla posizione delle dita. Completamente diverse le mani del Bambino, nella tavola di Velletri il Cristo tiene la mano sinistra benedicente e la destra poggiata su quella della madre, nell’affresco romano tiene la destra poggiata al ventre e con la sinistra prende una sorta di velo che cinge le spalle della madre. L’affresco di Santa Maria del Bonaiuto potrebbe essere il cartone originale con cui Antoniazzo ha lavorato producendo in serie delle Madonne con Bambino praticamente identiche. Ci potrebbe smentire la sola esistenza di opere precedenti al 1476, ma conoscendo l’oculatezza del prof. Antonio Paolucci francamente ne dubitiamo. Scorrendo il catalogo artistico di Antoniazzo dobbiamo fermarci a considerare l’affresco staccato di San Nicola in Carcere databile intorno al 1484. Francesco Negri Arnoldi considerava quest’affresco importantissimo per ricostruire il percorso pittorico di Antoniazzo, qui il compianto critico vedeva influenze toscane riconducibili al pennello del Beato Angelico e di Piero della Francesca. Importante è per la nostra comparazione perché in questa occasione si possono riscontrare similitudini iconografiche e compositive. Siamo ugualmente in presenza di un trono dove la Vergine vi è seduta tenendo sulle ginocchia il figlio. Le differenze saltano agli occhi alla prima superficiale osservazione. L’affresco di S. Nicola in Carcere presenta una vergine con il viso praticamente identico alla Madonna veliterna, gli occhi sono rivolti verso il basso quasi a contemplare il bambino, le mani al contrario della Madonna della Carità sono aperte, l’una sulle ginocchia che sfiora il piede sinistro del piccolo e l’altra la tiene sulla schiena a differenza del piccolo di Velletri, questo è imbracato ed ha una capigliatura diversa da quella del Bambino veliterno, più riccia e più folta. Anche l’espressione del viso è diversa. Sono simili però i panneggi sulle ginocchia della madre e la composizione del manto è la stessa. Straordinariamente simile alla Madonna della Carità, quasi identica, è la Madonna in trono fra i Santi Pietro e Paolo riconducibile al 1488 tre anni prima dell’esecuzione della tavola di Velletri. Mettendo a confronto le due opere si resta letteralmente allibiti dalla loro somiglianza se non fosse per qualche divergenza cromatica e qualche lieve differenza iconografica, potremmo dire che una delle due è stata copiata dall’altra. La mano di Antoniazzo inizia a maturare dopo aver acquistato esperienza e sapienza tecnica, in questa tavola assistiamo ad un mutamento stilistico del maestro che in precedenza si era fatto influenzare nella sua pittura dal linearismo un po’ aspro di Benozzo Bozzoli, alla misura astrattiva di Piero della Francesca oppure dal naturalismo di Domenico Ghirlandaio, fino ad adottare la tenerezza sentimentale degli umbri. Proprio quest’ultima sembra calzare a pennello per la Madonna della Carità che al solo sguardo trasmette tenerezza e la comprensione di una madre. La Madonna in trono e la Vergine veliterna presentano praticamente lo stesso panneggio sulle ginocchia, fino a raggiungere l’identica cromatura. Nei due quadri le ombre coincidono perfettamente sembrano fatte nello stesso momento. La Madonna ha un manto bordato con una greca che cade nello stesso modo di quello della Madonna della Carità formando le stesse pieghe sulla fronte. Stessa è la composizione del viso. Lo sguardo rivolto verso il bambino con materna bontà mentre le mani cingono le spalle del figlio nello stesso modo differenziandolo solo dall’apertura delle dita. Il piccolo è molto più alto di quello veliterno, guarda chi ha di fronte con gli occhietti ben aperti e le guance rosse e paffutelle. Il bacino è coperto con un velo trasparente tenuto a fiocco dalla Madre con la sua mano sinistra. La destra del piccolo è benedicente mentre la sinistra è infilata sotto il manto della madre. Continuando ad esaminare il catalogo delle opere di Antoniazzo si trovano sempre delle straordinarie similitudini con la tavola di Velletri. Quindi l’unica conclusione plausibile che la Madonna della Carità sia opera del grande maestro del quattrocento romano.



 
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I CONDANNATI A MORTE

Post n°10 pubblicato il 02 Maggio 2006 da processo
Foto di processo

Nel 1810 le leggi di soppressione schiacciarono la confraternita della Misericordia che aveva sede nella chiesa di S. Antonino al Carmine. L’arciconfraternita della Carità, Orazione e Morte ottenne il privilegio di assistere i condannati al patibolo. S. Antonino, citata nel celebre breve di Alessandro II del 1065 con un arciprete e clero ed aveva una cura d’anime, essendo chiesa parrocchiale. Nel 1533 era tenuta da un rettore che a causa della povertà delle rendite la cedette al sodalizio proveniente da altra chiesa. I confratri la tennero per circa quarant’anni e infatti nel 1573 si trova l’atto di concessione ai padri Carmelitani che da poco avevano fatto il loro ingresso a Velletri. I confratelli però tennero per i loro bisogni spirituali una cappella della chiesa che venne dedicata a S. Giovanni Decollato allorché chiesero l’aggregazione all’arciconfraternita fiorentina dello stesso titolo. I carmelitani restaurando il complesso isolarono la cappella facendone una chiesetta indipendente e è qui fino al 1810, quando venne soppressa la confraternita, che vi si seppellivano i cadaveri dei giustiziati. Il condannato più famoso che la storia dell’arciconfraternita ricordi fu il brigante Vincenzo Giovanni Battista Vendetta conosciuto nella storia come Cencio Vendetta. Le gesta di questo famoso veliterno sono state raccolte dal prof. Giovanni Ponzo nel volume “Cencio Vendetta, il brigante della Madonna” edito da Ve.La nel 1992. Vendetta dopo una criminoso inizio con l’accoltellamento di una donna alla fontana di piazza del Trivio per una questione di precedenza per prendere l’acqua, uccise sotto palazzo Graziosi (oggi Maggiorelli) in via del Comune il maresciallo dei carabinieri generali. Ormai per lui era pronta la mannaia. Escogitò un piano azzardato ma logico nella sua follia. Rubò l’immagine della Madonna delle Grazie nella basilica cattedrale di S. Clemente e con essa ricattò il governo pontificio per ottenere la grazia per lui, per il fratello Antonio e una pensione di cento scudi al mese per aprire un banco al mercato. Le trattative per la restituzione della sacra immagine iniziarono subito dopo il furto, fu il delegato apostolico mons. Luigi Giordani a trattare con il brigante. La notizia del furto arrivò fino al pontefice che disse che avrebbe concesso la grazia solo dopo la restituzione della Madonna. Il brigante si irrigidì e solo dopo una sommossa popolare consegnò al vescovo suffraganeo Vitali la Madonna venendo arrestato sotto il portone del palazzo dei Conservatori in piazza del Comune. Il tribunale criminale di Roma il 25 agosto 1858 lo condannò alla pena capitale perché responsabile di altri reati, ma principalmente dell’omicidio del maresciallo Antonio Generali. Il ricorso immediatamente presentato dalla difesa venne respinto il 27 novembre, vano fu l’appello alla sacra consulta che il 22 luglio 1858 confermò la condanna di primo grado. Venne tentato anche il ricorso al sommo pontefice ma questi rifiutò la grazia. La mannaia cade sulla sua testa il 29 ottobre 1859 in piazza del Trivio per mano del famigerato boia Mastro Titta. Vendetta aveva rifiutato in carcere i conforti religiosi dei confratelli della buona morte che accettò solo qualche minuto prima della sua esecuzione.

 

 
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