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LO SCRISSERO DOPO IL SUO OMICIDIO

Post n°45 pubblicato il 01 Dicembre 2006 da MUSICANTE_0
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Era nato su una collina a ridosso di Campo Calabro , da rudi ma onesti contadini: il padre era un uomo di media statura, ma la madre era gigantesca, bionda e con gli occhi cerulei.
Quando la gigantessa partorì il piccolo, questi aveva gli occhietti neri e sembrava una cosina che lei poteva racchiudere nel palmo di una mano, ma dopo qualche mese aveva cambiato le iridi in un pallido celeste e, col passare degli anni, era cresciuto il doppio dei suoi coetanei.
A vent'anni aveva superato in altezza la madre e misurava ben due metri e nove centimetri.
La fatica dei campi dal levar del sole sino al tramonto gli aveva forgiato dei muscoli duri e tesi sotto la pelle chiara e gli aveva ricoperto di calli il palmo delle mani per non parlare dei piedi, sempre scalzi, che la natura difendeva con una dura soletta di callosità.
Un giorno, mentre dall'alto della sua erculea statura dominava un campo di grano che falciava cantando, lo raggiunse la madre con una cartolina in mano.
Correva affannata tra le spighe mature e il figlio le andò incontro e, quando le fu vicino, la prese per la vita e la sollevò in alto.
"Scindimi" gridò lei "Santinu ti mandaru sta cartullina" .
"Cui? "
"U Guvernu...iaia 'do parrucu e mi rissi che a partìri pa guerra" 4 e scoppiò a piangere.
Era la guerra del 1915-18 e Santino partì.
Le taglie più grandi della divisa militare non riuscivano a coprire i suoi muscoli esplodenti, né vi erano scarponi che andassero bene ai suoi piedi.
Lui fu l'ultimo soldato ad essere vestito da soldato perché scarpe e vestiti glieli dovettero confezionare su misura.
Anche in guerra lo chiamarono 'il gigante' e aggiunsero 'ingenuo' perché Santino della vita e di tutte le sue complicazioni non sapeva nulla, lui che era cresciuto solo a contatto con la semplicità della terra e degli insegnamenti, pieni di saggezza, di suo padre.
Ma ciò che affascinava i compagni d'arme era l'allegria e il sorriso dilagante sulla sua faccia di fanciullo.
Era stato mandato in montagna tra muli che dovevano salire per ripide mulattiere carichi di armi, viveri e munizioni e Santino saliva allegramente cantando gli inni patriottici che aveva imparato e tutto per lui era lieve e piacevole come un gioco.
Gioiva a parlare coi muli e coi compagni perché, quando zappava la sua terra non c'era nessuno con cui parlare, tranne la sera, a casa, coi genitori.
Ogni tanto lo pizzicava la nostalgia delle serate accanto al camino che ardeva sotto il paiuolo dove la madre rimestava la cena e, accanto al fuoco, il padre con parabole dell'antico e del nuovo testamento, gli additava le linee fondamentali della vita, le cose che veramente contano per vivere bene qua e là e puntava l'indice prima giù e poi sù.
Una sera che il suo cuore subiva i morsi della nostalgia, giunse improvvisa la notizia che S.M. Vittorio Emanuele III avrebbe ispezionato il reparto. Ci fu un gran da fare: dal Generale all'ultimo fante tutti furono mobilitati per fare qualcosa di inusuale. Dalle latrine alle trincee all'ospedaletto da campo si fece pulizia straordinaria e dappertutto si mise tutto in ordine straordinario.
Fanti, muli, cannoni, baionette rilucevano se il sole faceva capolino fra le nuvole e persino le crocerossine, giovani e impeccabili nelle loro divise, oltre a mettere in atto una igiene straordinaria, raccolsero fiori di campo e qualche edelweiss che la montagna non lesinava e colmarono degli improvvisati portafiori che erano i bossoli di ottone dei proiettili sparati dai nemici.
Alla fine, il Generale chiamò il gigante: il fante Santi Cotronèo.
Quando entrò nella tenda del Generale, rimase piegato in due poi si sollevò dalla vita in sù, ma la testa gli rimase piegata sulla spalla. Era la prima volta che il Generale lo vedeva anche se ne aveva sentito parlare, ma rimase lo stesso a bocca aperta
Poi invitò il fante Santi Cotronèo a sedersi. Il gigante con quella testa inclinata da un lato e quel gaio sorriso negli occhi, sembrava che lo schernisse.
"Sedete!" ordinò.
Il fante si piegò sulle ginocchia e sedette tra gli scricchiolii e i gemiti di una sedia stile savonarola che era la preferita del Generale. Il Generale strabuzzò gli occhi e rimase in piedi.
Si affrettò a dirgli quanto doveva, prima che il fante arrivasse a terra scollando le giunture della sedia che continuava a scricchiolare.
"Vada!" disse alla fine. Il gigante ebbe l'accortezza di sollevarsi lentamente piegandosi ancora in due, evitando così di assestare un colpo di testa alla tenda che avrebbe potuto afflosciarsi a terra.
Sgambando, il Crotonèo, rapidamente giunse alla sua trincea.
Dal tenente al sergente, dal caporale ai commilitoni fu un fuoco di fila di domande non meno incessanti delle artiglierie nemiche e così si seppe che, per il giorno della visita del Re, il gigante avrebbe dovuto reggere sulle braccia, stando sull'attenti e per tutto il tempo dell'ispezione, la canna di un obice 5 della lunghezza di 22 calibri.
Venne il fatidico giorno e S. Maestà arrivò.
Tutto il reparto era schierato in perfetto ordine e, in fondo, sorpassando di almeno trenta centimetri le teste di tutti, si ergeva la sagoma erculea del gigante. Quando il Re arrivò davanti a lui dovette indietreggiare di alcuni passi e sollevare la testa per vedere la faccia del fante.
Nell'istante in cui S. Maestà lo guardò, il cielo, uggioso e grigio da tutta la mattinata, improvvisamente si aprì ed un raggio di sole indorò il volto gioviale del gigante che, sull'attenti, teneva l'obice tra le braccia.
"Sembra scolpito da Prassitele!" pensò il Re e, poiché la numismatica era il suo passatempo preferito, pregustava il conio di una bella moneta aurea dove fossero impresse le sue regali fattezze che però avrebbero dovuto sprigionare tutto il vigore di quella forza gigantesca che permetteva al fante Cotronèo di tenere un obice di 22 calibri.
"Da quanto tempo è qui, in questa posizione?" chiese il Re al Generale.
"Esattamente da venti minuti, Maestà." (E non era vero perché il reparto era stato schierato e passato in rivista fin dal mattino: dal caporale, dal sergente da ufficiali e sottoufficiali da tenenti e tenentini e infine dal Generale in persona).
I soldati avvertivano già la stanchezza per la lunga immobilità, ma lui, no, con quel suo viso gaio, il corpo muscoloso, le gambe dritte come colonne e quelle braccia che dal primo mattino, tra un riposo e l'altro, tenevano l'obice!
Sua Maestà aggiunse: "Se non erro, sono passati altri venti minuti dal mio arrivo..."
"Sì, Maestà." assentì il Generale.
"Questo fante, dunque, sostiene l'obice da più di mezz'ora. Gli daremo una menzione d'onore e una licenza premio!..." E sollevandosi, per un attimo, sulle punte degli stivali e guardando in alto, sorrise, ricambiato, dal giovane gigante che era felice di ritornare dai suoi vecchi.
Santino non tornò più al fronte perché, prima dello scadere della sua licenza, la guerra era finita e non raccontò mai a nessuno il suo incontro con il Re, ma fece deliziare il cuore dei suoi genitori dipingendo tutti i particolari dell'episodio. Anche il padre gli diceva: "Non lo dire a nessuno perché non ti crederanno!" Ma poi l'orgoglio paterno, un orgoglio a cui la vita non aveva offerto alcun appiglio, aveva ora trovato un ferreo gancio a cui aggrapparsi e, nei giorni di mercato, quando, lontano dal figlio che zappava nei campi, lui portava nei paesi vicini capi di bestiame da vendere, radunava alla fine attorno a sé un gruppetto di paesani, e raccontava "U raccuntu du Re" palpitando di gioia dinnanzi al piccolo uditorio che lo seguiva in silenzio e con crescente curiosità. Quando arrivava all'episodio della tenda che suo figlio avrebbe potuto far cadere con un solo colpo di testa rimanendo intrappolato insieme con il Generale tra i teli della tenda da campo, i paesani si sbellicavano dalle risa e le donne si asciugavano gli occhi con il grembiule. Così di giorno in giorno, il fante Cotronèo, che ignaro zappava nei campi, era diventato una specie di eroe leggendario. Poi, i più fantasiosi ascoltatori aggiungevano altri particolari chi sul tragico chi sul comico, ma avvisati dal padre, ognuno cercava di non farsi mai beccare dal figlio mentre raccontava la storia del Re.
Quando io conobbi il gigante era già vecchio e con il morbo di Parkinson che gli faceva tremare le mani con ritmici movimenti oscillatori. Anch'io avevo ascoltato dai contadini "U raccuntu du Re" ma lui non me ne parlò mai.
L'ultima volta che lo vidi fu il 18 Agosto 1991. Era a letto e non mi riconobbe.
Nonostante il caldo afoso, lui stringeva tra le dita tremanti il risvolto del lenzuolo e mormorava continuamente: "Mi 'mmazzaru u figghiolu... mi 'mmazzaru u figghiolu... mi 'mmazzaru u figghiolu..."
La vecchia moglie lo sollevò sui cuscini e mi sembrò che, finalmente, mi avesse riconosciuto. Mi avvicinai e lo salutai ancora una volta, ma lui non rispose. Sapendo che non aveva figli, chiesi alla moglie perché dicesse che gli avevano ucciso il figlio e la moglie, costernata, mi rispose:
"Nenti sapistivu chi 'mmazzaru 'u giudici Ninuzzu Scopelliti?"
"Sì..." risposi con un filo di voce.
Altrocché se lo sapevo: anch'io avevo transitato sulla strada dell'agguato la mattina di quel tragico venerdì 9 Agosto.
Alle parole della moglie, il vecchio gigante cominciò a singhiozzare. La moglie gli asciugava gli occhi e tentava di consolarlo mentre lui farfugliava: "Figghiu beddu, figghiu randi, onuri e vantu 'i tuttu 'u paisi, giustu Salumuni di sti tempi 'ngrati!..."

Io sentivo il suo dolore che era anche il mio, che era il dolore di tutti gli uomini onesti! Oh come la rabbia mi bruciava nelle vene mentre il gigante piangeva sconsolatamente come un bambino abbandonato...
"A... a... a... acqua..." farfugliò.
La moglie prese un bicchiere di acqua fresca, glielo portò alla bocca e gli mise sotto il mento un tovagliolo piegato in quattro.
Tra i singhiozzi, sorseggiò l'acqua, ma un rivolo gli scese giù dal mento e inzuppò il tovagliolo.
Lentamente il tremore delle mani diminuì e il vecchio gigante girò la testa sul cuscino e mi guardò. Anch'io lo guardai e vidi che i suoi occhi, ora, mi stavano focalizzando.
Era stremato, dopo tutto quel pianto e non sollevava neanche un dito per allontanare le mosche che fastidiosamente gli ronzavano intorno in quel torrido pomeriggio di piena estate. Io le scacciavo col ventaglio e tornavo a soffiarmi freneticamente.
Ricordavo quanto era stata bella l'estate precedente quando, per intere serate, seduti intorno all'aia, al chiarore della luna, lui raccontava antiche storie bibliche e vecchie leggende contadine!
Parve leggermi negli occhi la nostalgia di quei ricordi e, biascicando parole incomprensibili che la moglie mi traduceva, mi raccontò che una volta, in campagna, mentre lui stava seduto su un sasso, ai piedi di un grande albero di ulivo da un podere vicino era arrivato Ninuzzu .
Lui lo aveva sollevato da terra e se lo era messo a cavalcioni su una gamba: "Arri... arri... cavadduzzu... arri... arri... cavadduzzu..." gli cantilenava dondolandolo e il piccino rideva felice. Lui lo teneva per le manine e Ninuzzu rovesciava indietro la piccola testa con la gola gorgogliante di risate.
"Ma tu chi voi fari quandu si randi?"
Il bambino lo guardava, gli osservava quella gran facciona con i piccoli occhi azzurri sommersi da rughe che sembravano solchi e non gli rispondeva.
"Ora ti raccuntu 'a storia du Rre Salumuni chi rrignava e faciva justizia cu randi saggizza..."
Affannosamente il vecchio gigante continuava a parlare raccontando la storia del giudice Salomone e del ben noto aneddoto delle due donne che si contendevano un bimbo che entrambe reclamavano come legittimo figlio.
Alla fine della storia il gigante aveva chiesto a Ninuzzu se gli fosse piaciuta e il bimbo annuendo, ne aveva richiesta un'altra.
"Una 'o jornu" aveva risposto lui "dumani ti 'ndi cuntu nautra, ma tu non mi rispundisti chi voi fari quandu si randi..."
"Salomone, Salomone, voglio fare il giudice come Salomone..." esclamò il bambino.
Il 20 Agosto 1991 anche il vecchio gigante moriva, a pochi giorni di distanza dalla morte del giudice Antonio Scopelliti
Ora questi due giganti della Calabria riposano nello stesso cimitero di Campo Calabro.

 
 
 
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