La Canzone di Marinella: la fantasia non è un’illusione, bensì un’allusione.

Post n°224 pubblicato il 22 Maggio 2010 da Terpetrus
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Rieccomi qui dopo parecchio tempo. Ho lasciato perdere questo blog per qualche tempo perché ho preferito dedicarmi ad altre attività sempre, diciamo così, culturali. Ora, anche se limitatamente, ho deciso di riaprire il vezzo dei post.

L’ho deciso solo perché ho dentro una cosa che mi si agita dentro da tempo, e devo tirarla fuori.

La Rete è uno strumento meraviglioso, almeno per me. Credo che ancora non ci si renda conto dell’enorme cambiamento che è destinata a portare la tecnologia digitale nelle nostre vite e a tutto il mondo. Di fatto, la Rete ha permesso quello che nessun imperatore, nessun conquistatore è mai riuscito a compiere, cioè l’unificazione dell’intera umanità, dell’intero pianeta.

Ora tramite la Rete noi possiamo parlare con persone che vivono sull’altra faccia della Terra come parliamo con il nostro vicino. Lo straniero non è più tale, non esistono più persone veramente lontane, a patto che siano collegate. Un giorno l’intera umanità sarà immediatamente collegata, tutti e ciascuno, con mezzi infinitamente più evoluti di quelli attuali, e la divisione in nazioni, popoli e culture non avrà più alcun senso. Non sarà domani, né dopodomani, ma avverrà.

Ma la Rete ha un altro merito: quello della conservazione e della trasmissione della conoscenza, non solo quella attuale, ma anche nel recupero di quella passata.

Erano diversi giorni che continuava a ronzarmi nelle orecchie una delle canzoni più tristi che siano mai state scritte: La Canzone di Marinella di Fabrizio De André.

Non so quando sia stata scritta, ma penso alla fine degli anni Sessanta, perché è uno dei primi ricordi che ho in fatto di musica.

Io sono del 1962, quindi dovevo avere al massimo otto anni, quando la sentivo alla televisione o alla radio.

Ero così piccolo da non poterne capire tutta la piena tragicità.

Eccone il testo:

La canzone di Marinella

di Fabrizio De André

 

Questa di Marinella è la storia vera
che scivolò nel fiume a primavera
ma il vento che la vide così bella
dal fiume la portò sopra una stella

 

Sola senza il ricordo di un dolore
vivevi senza il sogno di un amore
ma un re senza corona e senza scorta
bussò tre volte un giorno alla tua porta

 

Bianco come la luna il suo cappello
come l'amore rosso il suo mantello
tu lo seguisti senza una ragione
come un ragazzo segue un aquilone

 

E c'era il sole e avevi gli occhi belli
lui ti baciò le labbra ed i capelli
c'era la luna e avevi gli occhi stanchi
lui pose le sue mani suoi tuoi fianchi

 

Furono baci e furono sorrisi
poi furono soltanto i fiordalisi
che videro con gli occhi delle stelle
fremere al vento e ai baci la tua pelle

 

Dicono poi che mentre ritornavi
nel fiume chissà come scivolavi
e lui che non ti volle creder morta
bussò cent'anni ancora alla tua porta

 

Questa è la tua canzone Marinella
che sei volata in cielo su una stella
e come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose

E come tutte le più belle cose
vivesti solo un giorno, come le rose.


Quando la sentivo, e ne ascoltavo le parole, credevo che De André stesse raccontando una favola in versi. Credevo davvero che alla porta di Marinella fosse arrivato un Re che si fosse innamorato di lei, e che quando poi era caduta nel fiume il vento si fosse innamorato di lei e l’avesse salvata portandola su di una stella, e che il suo amato Re avesse atteso invano il suo ritorno bussando per tutta la vita alla sua porta.

Quando si è bambini, non si comprendono le metafore e i simboli della poesia e della fantasia, dei miti e delle leggende.

Forse, l’unica sostanziale differenza fra i bambini e gli adulti è che i bambini non hanno ancora imparato il linguaggio metaforico-simbolico, allusivo, dell’arte, mentre gli adulti l’hanno già dimenticato e non lo capiscono più.

Con le poche eccezioni di quegli adulti che cercano veramente di ricordarsi cosa pensavano e cosa sentivano quando erano bambini.

Non so perché, ma da qualche giorno ho cominciato a ripensare, a canticchiare quella canzone, a rimasticare le sue parole, per indagarne il loro significato di amore e morte.

Pensando alle sue parole con occhi d’adulto, la canzone mi è apparsa straordinariamente diversa, e grazie alla Rete l’ho riesplorata, riscoperta, reinterpretata in una luce nuova.

Sono andato su Youtube e ho cercato le registrazioni delle varie versioni di quella famosa canzone, che dopo essere stata scritta da De André è stata cantata anche da Mina, Renato Zero, Joan Baez e tanti altri.

La canzone mi si è rivelata per quello che era: una tragica storia di una ragazza sicuramente giovanissima, che è annegata nel fiume proprio il giorno stesso in cui ha incontrato un uomo magnifico che le ha dato subito il suo amore, quello che avrebbe dovuto diventare il re del suo cuore, e che è impazzito per sempre dal dolore quando lei è morta poco dopo aver fatto l’amore con lui.

Il vento che porta Marinella su una stella è una bellissima metafora per indicare il passaggio alla vita dell’aldilà, come a indicare la speranza, la fede che le giovani vite ingiustamente stroncate possano continuare la loro gioventù in cielo, perché “come tutte le più belle cose, vivono un giorno solo, come le rose”.

Una storia d’amore e morte come un’altra? Per la maggioranza della gente, penso di sì, anche se il successo della canzone indica che ha colpito più di altre storie.

Ma io ormai, dagli anni lontani della mia infanzia, in cui le favole e i miti li godevo senza comprenderli ancora, non mi sono fermato al significato allusivo delle parole, e ho cominciato a lavorare di fantasia, a figurarmi le scene, perché so distinguere fra le storie che sono puramente inventate, e quelle che invece si ispirano a qualco’altro.

E la canzone di Marinella era appunto una di queste ultime, e dopo aver letto ciò che raccontava, ho cominciato a riflettere su ciò che non raccontava.

C’era una sola cosa che non mi convinceva in quella storia, quando il testo dice. “dicono che mentre ritornavi, nel fiume chissà come scivolavi”.

Ora, sul momento ho pensato a Ofelia, unico caso famoso di donna innamorata scivolata nel fiume e annegata…. Ma ho pensato che magari non era quello il modello originario.

C’era qualcosa che non mi tornava…. Normalmente, la gente, quando annega in un fiume, non è certo perché vi è scivolata per caso, ammenoché non sia in corso un’alluvione, o non sia completamente ubriaca. Normalmente, gli annegati nei fiumi sono tali per due soli motivi: o perché ci si sono buttati di propria volontà, o perché qualcuno ce li ha spinti dentro.

Ho cominciato ad immaginare che in realtà dentro il fiume ce l’avesse gettata un altro spasimante geloso, oppure un padre violento e possessivo, o una rivale in amore che aveva messo gli occhi sul suo uomo… o magari il suo stesso amato, che era in realtà uno psicopatico, cosa che si poteva intuire dal fatto che aveva continuato a bussare alla sua porta per tutta la vita, rifiutando la tragica verità: non tanto che lei fosse morta, ma che l'avesse uccisa lui (ho una mente un po' troppo fervida, vero...?? Sbagliato! Una mente non è mai troppo fervida! Sono le altre menti, che hanno troppa poca inventiva!).

Allora ho cercato su Youtube e sul web tutto quello che riguardava quella canzone, e alla fine ho trovato la conferma a quello che pensavo.

In un’intervista, De André spiega come è nata la canzone: quando aveva quindici anni, legge sul giornale la tragica storia di una povera ragazza morta a sedici anni, che aveva perso entrambi i genitori e che era stata scacciata di casa dai suoi zii, finendo con l’andare a fare la prostituta, per poi venire uccisa da un comune delinquente, che l’ha gettata nel fiume Tanaro per rubarle la borsetta, facendola annegare.

De André, addolorato e commosso per quella poveretta, ha pensato bene di dedicarle una canzone, dandole una vita e una morte dignitose.

Ma dietro la poesia della canzone ci sta la rabbia per l’ingiustizia nei confronti dei deboli e degli indifesi.

Per l’ennesima volta dunque ho scoperto che dietro ogni storia apparentemente inventata ci sta un’altra storia più complessa. Ogni fantasia, è un’allusione alla realtà.

Il mondo della fantasia e delle favole non è il mondo delle illusioni, ma bensì delle allusioni. Nasconde tutto ciò che non abbiamo il coraggio di dire, o di ascoltare.

La fantasia non è il regno dei sogni, ma dei segreti.

Non è qualcosa che si contrappone alla realtà, e non è nemmeno uno specchio deformante della realtà, semmai è uno specchio obliquo, a cui è stato posto un altro specchio obliquo di fronte, e insieme riflettono l’uno nell’altro l’immagine di tutto ciò che gli passa in mezzo, un numero infinito di volte.

Così vorrei che le persone, quando ascoltano una storia, una favola, si chiedessero sempre cosa ci sta dietro. Da dove è nata, da quale segreto e da quale tragedia, e l’ascoltassero e immaginassero con orecchie e occhi nuovi, non più come cose irreali, ma come una verità segreta ed inconfessabile.

 

 
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Amore e odio non c'entrano un kazzo con la politica

Post n°223 pubblicato il 19 Marzo 2010 da Terpetrus
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Forse l'ho già detto su questo blog, ma penso che in ogni caso sia meglio ribadirlo. Comunque, è strano che sia io il solo a dirlo, finora non ho visto nessun altro far notare la cosa che sto facendo notare io, in questo mio angolino visitato da quasi nessuno.

Il Papi della Nazione blatera a più non posso su "l'amore che vince l'odio e l'invidia", propinando simili slogan zuccherosi all'Italia intera. Li vedi sui giornali, nelle manifestazioni in cui la maggioranza al governo protesta contro l'esistenza dell'opposizione (inaccettabile offesa alla democrazia, che vuole che la maggioranza domini incontrastata senza alcuna opposizione, almeno nell'interpretazione che il Papi della Nazione dà di "democrazia").

É l'amore che vince, e il male che perde, tanto per citare il Bambino di Dio interpretato da Carlo Verdone in uno dei suoi vecchi successi cinematografici.

Ora però noto che non c'è stato nessuno, ma proprio nessuno, che nell'opposizione abbia detto la cosa più logica ed immediata da dire, la domanda più scontata da fare, cioè: «ma di che kazzo sta parlando questo?» .

Già, perché qua tutti sembrano essersi dimenticati che l'amore e l'odio non sono categorie politiche. Quando fai politica, non ti devono interessare i sentimenti personali né dei politici, nè degli elettori.

La politica si fonda sulla logica, la ragione e il pragmatismo finalizzati al bene collettivo del paese e del popolo. Se poi si vive in uno stato a regime democratico, devono essere finalizzati alla realizzazione dei diritti umani e civili fondamentali di tutti e di ciascuno. Si deve fondare solo su queste cose. Punto.

L'amore e l'odio sono, nella più volgare delle versioni, concetti letterari o cinematografici o televisivi, o canzonettari. Sono concetti che riguardano le canzonette di San Remo, o le soap-opera, o la collana Harmony.

Nella migliore delle ipotesi, ma sempre usati con cautela, possono riguardare la religione e la morale, anche se "amore" e "odio" nella morale, sia cristiana che non, non sono da identificarsi con le facili passioni di tutti i giorni, ma con qualcosa di più profondo e complesso di un semplice sentimento estemporaneo e passeggero come sono, troppo spesso, i sentimenti di amore e odio, che oscillano a seconda del nostro umore e dei casi della vita.

Io non sono quasi mai riuscito ad amare od odiare costantemente e decisamente una persona. Cioè, molto raramente. Mi stanco abbastanza facilmente sia di un grande amore, sia di un grande odio, e mi limito a convivere con i miei tiepidi amori e i miei tiepidi odi, quasi completamente innocui per gli altri, e quasi innocui per me.

Se uno crede di essere tanto odiato costantemente e decisamente da tanti, o da tutti, allora è un paranoico da camicia di forza.

Se uno crede di essere tanto amato costantemente e decisamente da tanti, o da tutti, è un presuntuoso ugualmente paranoico con manie di grandezza, e andrà incontro ad amare disillusioni.

Se poi uno crede entrambe le cose non vale neanche la pena che dica cos'é.... l'avete già capito.

Se proprio non si può buttare via colui che blatera di amore e odio in politica, buttate via quello che dice come spazzatura.

Ma ignorare quello che dice, atteggiandosi a persone troppo superiori per contraddire simili stronzate, è un modo per assecondarlo.

E allora DITELO,  signori dell'opposizione, se davvero credete di saperne di più di come si fa politica: amore e odio e invidia sono sentimenti personali che non c'entrano assolutamente con la politica.

Altrimenti, comincio a pensare che, con tutti i vostri blateramenti di "laicità" dello stato, neanche voi siate capaci di dire che la politica deve essere guidata dalla ragione, non dai sentimenti.... o avete paura di apparire impopolari di fronte al sentimentaloidismo dello zuccheroso popolo italiano?

Ho paura di sì......

 
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Il concetto di non-violenza e il provincialismo culturare degli intellettuali italiani

Post n°222 pubblicato il 18 Marzo 2010 da Terpetrus
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Recente lutto per il giornalismo italiano: è morto poco tempo fa Alberto Ronchey, giornalista di vaglia. Tutti ne parlano come di un personaggio molto importante per la cultura italiana, non solo per il giornalismo.

Sarà, ma il Corriere della Sera ha pensato bene di fare una citazione del suo pensiero che mi ha fatto pensare che anche lui fosse il solito intellettualoide provinciale e ottuso di produzione italiana DOC, miope e un poco stupido per quanto riguarda le cose concernenti la morale e il pensiero religioso.

Infatti, leggo sul numero dell’11 marzo, a pagina 42, questa bella frase:

Alberto Ronchey: La “non violenza” violenta.

L’idea elementare della “non violenza”, cui si associa l’immagine dell’India, vuole ignorare che anche i digiuni e i suicidi sono violenza; il santone che fissa il sole per accecarsi usa violenza, come chi si brucia per protesta contro ciò che avversa.

Da Viaggi e paesaggi in terre lontane, Garzanti, 2007, p.44.

Proprio una bella cretinata superficiale e dettata dall’ignoranza.

E veramente miope e poco intelligente chi ha pensato bene di riportare questa citazione.

Posso dire che Alberto Ronchey, di fatto, della non-violenza (senza virgolette), non aveva capito un kazzo. Probabilmente non aveva mai letto niente in proposito, né aveva letto alcun testo scritto da Gandhi.

Io ci ho fatto la tesi di laurea su Gandhi, e conosco benissimo il suo pensiero e l’esatto concetto di non-violenza gandhiana, che Ronchey chiaramente non consosce e che non conoscono i nostri provinciali e miopi giornalisti che pretendono di fare “cultura”.

Gandhi sapeva benissimo che ci sono contenuti di violenza anche nella cosiddetta non-violenza, che lui non chiamava affatto così, bensì satyagraha, che significa “forza della verità”.

Il satyagraha, la non-violenza gandhiana, non è affatto l’astensione assoluta dalla violenza, poiché Gandhi sapeva benissimo che non è possibile astenersi in modo assoluto dalla violenza, bensì è la riduzione della violenza al minimo possibile.

Gandhi stesso diceva che, se ci fosse un matto per la strada armato di mitragliatrice, e non ci fosse altro modo di fermarlo che ammazzarlo, allora sarebbe cosa buona, giusta e fonte di salvezza ammazzarlo.

In tutti gli altri casi però in cui è possibile evitare la violenza, o ridurla al minimo, bisogna fare del proprio meglio. Il metodo della disobbedienza civile, cioè il combattere il nemico non facendogli un danno fisico, ma bloccandolo e rendendogli difficile o impossibile l’agire liberamente, non è che un metodo di lotta che non è assoluto, ma che deve essere applicato fino a quando è possibile.

Se per esempio gli indiani si fossero trovati ad essere invasi dai nazisti, anziché essere occupati dagli inglesi, sono sicuro che Gandhi stesso avrebbe detto che era tempo di passare alla rivolta armata, dato che ci si trovava di fronte a nemici disumani e incapaci di compromesso.

Vi scandalizza la cosa? Beh, miei cari… il guaio è che noi italiani, e non solo Ronchey, ragionando in base alle nostre tanto lodate “radici cattoliche”, vediamo la morale come una serie di norme e dogmi assoluti, inderogabili, e non siamo capaci di capire che la morale, anche se tende a un Assoluto, di fatto è formata da norme relative e gerarchicamente suddivise, per cui certe norme sono superiori ad altre, e le norme meno importanti devono a volte cedere il passo a quelle superiori, quando entrano in conflitto fra loro.

Una cosa che gli italiani non possono capire, essendo sempre stati sottoposti ad un’autorità morale che pretendeva di sapere sempre lei cosa era giusto e sbagliato, a tal punto che gli italiani, anche quando non sono cattolici, rinunciano semplicemente a un pensiero morale autonomo, perché pensano che morale equivale a moralismo cattolico e reazionario.

Per questo poi personaggi come Ronchey, che magari per altri versi si dimostrano intelligenti, quando si tratta di morale sparano delle belle cazzate….

 

 
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Aldo Busi è tornato, ma l'hanno bruciato subito

Post n°221 pubblicato il 17 Marzo 2010 da Terpetrus
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Quando si parla del diavolo, ne spunta inevitabilmente la coda. Soprattutto quando si tratta di diavoli che puzzano di zolfo più degli altri.

Qualche tempo fa, su questo blog, mi sono chiesto che fine aveva fatto l’ineffabile Aldo Busi. E dopo pochi giorni ecco che me lo ritrovo all’Isola dei Famosi (che non guardo praticamente mai), e sinceramente non mi stupisco della cosa.

L’Isola dei Famosi, si sa, è un reality show a cui partecipano tutte le ex-star in disuso, oltre che i poveri disperati in cerca di notorietà. Da un lato ci vanno quelli che hanno furoreggiato in passato, ma che ora non li caga più nessuno, e dall’altro ci vanno dei poveri psicolabili disperati,  abbastanza psicolabili, e abbastanza disperati, per poter presentare uno spettacolo abbastanza demenziale e abbastanza squallido per soddisfare il guardonismo morboso e amante del torbido, spettegolaio e impiccione, che è una delle caratteristiche principali degli italiani.

Aldo Busi era in disuso da tempo, non riusciva più a fare la pazza scatenata in tibbù, e perciò si è ridotto a fare l’Isola dei Famosi, anche se ciò poteva significare il rovinarsi lo smalto delle unghie a raccogliere legnetti, o rischiare di riempirsi di acido lattico nello sforzo di dover spostare il suo vecchio culo pigro dalla spiaggia alla selva.

Io non so cosa si siano messi in testa quelli della Rai a prenderlo: credevano di potergli mettere la museruola, a quella là, a lei che non le ha mai cucito nessuno la bocca?

Credevano che con l’età avesse acquisito un poco di diplomazia e di saggezza? Miei cari, dovreste sapere che gli svitati con il passare degli anni, a meno che non siano schizofrenici e vengano opportunamente curati, non migliorano affatto, ma anzi possono anche peggiorare.

E una pazza che dichiara orgogliosamente nei suoi libri che lei con la logica e la ragione non vuole averci niente a che fare, da buona frocia svitata, come se essere fuori di testa e sparare e scrivere cretinate fosse motivo di vanto, è una che resta frocia svitata e assatanata fino alla morte.

Adesso tutti a parlare di “ipocrisia”, perché prima quelli della Rai hanno sbarcato la Bocca a Busa nell’isoletta nicaraguegna perché sapevano che era una trasgressiva, e poi, non appena ha osato dichiarare quello che ormai quasi tutti pensano sul conto dell’attuale Papa, lo buttano fuori.

Più che di ipocrisia, io parlerei di scemenza e cialtroneria. Quelli della Rai o dormivano quando hanno preso certe decisioni, o semplicemente non conoscono la nostra cara Alda con la Bocca a Busa Storta.

Questa non è altro che una delle innumerevoli cialtronerie ed abusi nei confronti dell’utente che svolge la Rai, che crede di poter guidare i programmi come si può condurre un rastrello che smuove le foglie secche nel giardino: quasi a casaccio, cioè.

Questo episodio è come le trasmissioni stupide e noiose fatte tutte in prima serata, e le trasmissioni intelligenti o interessanti fatte a ore antelucane, è come le promesse non mantenute di serie televisive che dovevano essere trasmesse integralmente e che invece sono state interrotte senza alcuna spiegazione, o con episodi saltati, o come certi giornalisti (Mauro Mazza, primo fra tutti) che scambiano il telegiornale per un organo di propaganda religiosa tesa a convertire gli italiani alla “vera religione” (cattolica), fregandosene del fatto che lui viene pagato con il canone dei contribuenti per dare informazioni obiettive a tutti gli italiani, non solo per gli integralisti cattolici conservatori e destrorsi.

È l’ennesimo episodio in cui viene voglia solo di dire: «vaffanculo, Rai! Vai a quel paese, nella Repubblica delle Banane, perché è quello il paese giusto per te!».

Ma viene poi il sospetto che la Rai non sia altro che la rappresentazione di un paese che è sempre stato così: intraprendente, attivo e geniale nel privato; mentre invece è inefficiente, cialtrone, pigro e stupido in tutti i servizi pubblici e negli organi dello Stato.

 

 
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Iubar, il Dio di Smeraldo

Post n°220 pubblicato il 16 Marzo 2010 da Terpetrus
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Oggi parliamo di fantasie assurde e deliranti, tanto per staccare un po’ ed evadere nella fantasia. Tanto per limitare lo stress e illudersi che a volte i sogni hanno qualcosa a che fare con la realtà, o che la realtà non fa poi così schifo come sembra.

Poi torneremo belli intruppati al nostro senso pratico, alla nostra razionalità (chi ce l’ha, naturalmente), al nostro far finta di essere giudiziosi, maturi e saggi (da sganasciarsi….).

Così oggi parlo di alcune delle mie fantasie più deliranti.

Forse avrete sentito parlare anche voi della vita della scrittrice francese romantica George Sand. Era un tipo strano, si sa.

Ufficialmente cattolica, ma con strane tendenze neopagane, come capita non di rado ai cattolici moderni, e forse non solo a loro.

Da bambina, si inventò un Dio immaginario, da adorare e pregare come qualsiasi altra divinità di questo mondo.

L’aveva chiamato Corambé, un nome che non significava niente, ma che le venne spontaneo nella sua mente di bambina. Diceva che era un Dio più concreto e materiale del Dio dei cristiani, ma più spirituale degli Dei olimpici. In pratica, era un Dio pagano-cattolico. Aveva approntato per lui un altarino con tanto di candele, nel bosco.

Corambé era un Dio dei boschi e della Natura, da quel che ho potuto capire.

Quando lo venni a sapere, ritenni che, come aveva potuto farlo lei, lo potevo fare anche io, dato che avevo le stesse tendenze cattolico-pagane.

Inventai così Iubar, il Dio di Smeraldo.

Lo inventai sul modello di Bes, il Dio nano dei sogni, divinità molto popolare nell’antico Egitto, ma di probabile origine mediorientale.

A differenza di Corambé, il suo nome ha un significato ben preciso. Iubar infatti è una parola latina che significa “splendore”, ed ha una curiosa somiglianza con il nome della mitica città araba di Ubar, più nota in Occidente con il nome di Irem “dalle cento torri”, e di cui si parla ne “Le Mille e Una Notte”, come di una città favolosa e piena di ogni sorta di ricchezze, persa fra le sabbie del deserto, da cui riemergerà solo nel Giorno del Giudizio, poiché non è permesso agli uomini vivere in paradiso già su questa terra.

Di recente, si sono potute scoprire le rovine di Ubar nel deserto dell’Arabia meridionale, grazie ad alcune fotografie fatte da satelliti, e si è potuto dimostrare che non era solo un mito, dato che persino gli autori classici parlano di essa come di un luogo reale, un centro di proficui scambi commerciali, e quindi una città molto ricca, improvvisamente distrutta da una catastrofe: il crollo dell’intero centro nel sottosuolo, che l’ha distrutta in pochi istanti, e che è passata alla tradizione come una sorta di punizione divina.

Iubar quindi è un Dio di sapore orientale, e ha tutta la sensualità e la fisicità dell’oriente.

Il suo corpo è verde, o meglio è avvolto da una tenue luce verde pallido, la sua carne sembra smerigliato vetro di acquamarina, e la sua corta barba senza baffi è di un verde smeraldo intenso e brillante (a volte invece porta i baffi alla Franz Josef, che si uniscono alle basette in due strisce di barba, mentre il mento è rasato).

Ha l’aspetto di un uomo basso e massiccio, tozzo, e completamente nudo. Il suo volto rotondo ha due occhi come ovali allungati che ricordano gli occhi delle divinità numeriche, ma sono di un uniforme rosso scarlatto, privo di pupille. I suoi occhi sembrano finestre infuocate.

La sua testa è pelata, e i suoi orecchi hanno i lobi allungati, da cui pendono lunghi orecchini fatti di cilindri e triangoli d’oro e di giada.

Tatuaggi a forma di arabeschi, di sfumature che vanno dall'azzurro ciano al viola più intenso, si intersecano sulle sue membra, sulla schiena ampia, sulle braccia e sulle gambe tozze e possenti.

Cerchi d’oro verde cingono i suoi polsi e le sue caviglie, e una collana d’oro verde e di smeraldi gli pende dal collo, con il suo simbolo mistico: un triangolo isoscele intersecato da una falce di luna, simbolo di mistero e di magia.

Ed Egli infatti è il Dio del mistero, della magia, della follia e della stravaganza, di tutti coloro che escono dagli schemi e dalle convenzioni, quindi è anche il Dio dei poeti, degli anticonformisti e anche dei gay.

Non per niente un tempo in Francia il verde era il colore dei gay, cosa che è  rimasta nel termine “balletti verdi”, per indicare storie di intrallazzi di prostituzione gay ad alto livello.

Iubar, quindi, il cui nome indica lo splendore, è la luce nella notte di chi si sente solo perché è diverso o incompreso.

In fin dei conti Iubar ha un nome che ha un significato non lontano da quello di Lucifer, il “portatore di luce”, l’Angelo caduto per troppo orgoglio sulla Terra, e divenutone il principe.

Una certa associazione c’è, indubbiamente, anche se io sono molto lontano dal Satanismo.

Iubar forse ha qualche parentela con il Serpente Antico che, come abbiamo visto nei precedenti post, non è quella figura negativa e nemica che si è voluto far credere.

La Luce implica la Conoscenza, e un Dio il cui nome richiama la Luce, appare inevitabilmente come portatore di Conoscenza, in questo caso di superamento dei pregiudizi e dell’ignoranza nei confronti del “diverso” di qualsiasi genere esso sia.

Dovevo renderlo un personaggio fisso di una serie di storie a fumetti, in cui compariva come mentore spirituale del protagonista nel suo viaggio verso l’Ignoto, ma naturalmente è rimasto tutto a livello di progetto, come al solito.

E chi ce l’ha il tempo per fare una serie di storie a fumetti? È già tanto se riesco a trovare il tempo per fare un singolo disegno…..

Vabbé, che Iubar mi aiuti…. Chissà che un giorno non riesca a farci qualcosa, delle mie fantasie.

 

 
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