Creato da redazione_blog il 10/12/2006

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Cina, culla dei diritti "inumani"

immagineIl 17 aprile scorso 41 donne sono state prelevate dalla polizia cinese,  condotte in ospedale e costrette ad abortire.

Il 18 aprile identica sorte è toccata ad un’altra ventina di donne.

Nel breve spazio di 24 ore sono stati fatti morire oltre 60 feti.

La crudeltà di questi atti di gratuita criminalità e di pesante violazione dei diritti umani è aggravata dal fatto che molte delle donne costrette ad abortire sono al nono mese di gravidanza.
Da trent'anni la Cina attua aborti forzati e sterilizzazioni forzate, in attuazione di una pseudo-politica demografica di stampo nazista, che consente l'uccisione di un feto nell'utero materno anche a gravidanza avanzata, specie se il nascituro è di sesso femminile.
L'operazione omidica di far abortire le donne anche al termine della gravidanza viene attuata in vario modo: o praticando alla donna incinta una iniezione di un farmaco killer che causi la morte del feto; oppure praticando una iniezione nella testa del feto attraverso il ventre materno: dopo una ventina di minuti di sofferenze il bambino, pronto a nascere, smette di muoversi all’interno dell’utero e muore.

Nel 1978 il criminale governo di Deng Xiaoping ha varato una legge sulla pianificazione familiare, detta anche “legge del figlio unico, e l’ha imposta a tutto il Paese, adattandola alle varie realtà locali.
In conseguenza di questa legge le donne che incorrono nella sfortuna (sfortuna secondo il governo cinese) di dover concepire un figlio in più rispetto al numero consentito, vengono indotte all’aborto dai funzionari dell’Ufficio per la pianificazione familiare.

Nel caso la donna incinta riesca ad aggirare la legge e far nascere il suo bambino, essa viene sottoposta alla comminazione di una multa ingente, che le famiglie povere non riescono a pagare, nonchè a disincentivi economici di vario tipo, che possono arrivare anche alla requisizione dei beni della famiglia stessa ed alla reclusione della donna in un laogoi, perchè sia rieducata anche attraverso la tortura.
In tali casi inoltre, il bambino "di troppo" viene sottratto alla famiglia di origine e rinchiuso in un orfanotrofio, senza la famiglia abbia mai più la possibilità si conoscerne la sorte.

Questa pratica inumana, nella Cina comunista e proletaria, è spesso però risparmiata alle famiglie ricche mentre è diventata una regola per i meno abbienti

La Cina pratica la sterilizzazione forzata da anni alle donne tibetane, in un feroce tentativo di annientare la cultura e l’etnia tibetana.

Nel corso del 2005 sono state sterilizzate con la forza oltre 7 mila persone nella provincia dello Shandong.
Negli anni scorsi, inoltre, la Human Rights in China (HRIC) ha denunciato i casi di donne recluse nei campi di lavoro cinesi e sottoposte a tortura e brutalmente frustate con cinghie di cuoio, perché accusate di aver violato la legge del cd. “figlio unico” ed aver dato alla luce un secondo bambino.

Nonostante nel 1980 la Cina abbia ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite per l’Eliminazione di tutte le Forme di Discriminazione contro le Donne, nel XXI° secolo esistono ancora in Cina donne torturate per aver fatto una scelta di vita.

La Cina non mangia bambini né li bollisce per concimare i campi, ma li uccide quando già sono VITA e negli ultimi trent'anni ha sulla coscienza il genocidio di oltre 300.000.000 milioni di creature uccise nell'utero matero.

Eppure la Cina pretende perfino di venirci a dare lezioni di civiltà e democrazia.

In questo nostro paese oggi sicuramente ci si indignerà per le ultime dichiarazioni del Vaticano, che reputano l’aborto come “terrorismo dal volto umano”.

La sinistra inizierà a fare i suoi sproloqui sulle nefaste ingerenze della Chiesa nelle vicende dello Stato, ma non leverà una sola parola di sdegno, in nome dell’equivicinanza, per le vicende occorse nei giorni scorsi alle 61 donne cinese costrette a subire aborti forzati e per questo genocidio silenzioso che avviene in Cina da trent'anni.
Le anime pie del girotondismo italiano politicamente corretto, pronte a scendere in piazza ad ogni soffio di vento, non le vedi mai scendere a manifestare contro le  pesanti violazioni dei diritti umani in Cina ed a sostegno della dignità delle donne che subiscono sterilizzazioni ed aborti forzati.

E’ troppo comodo aprire gli occhi su ciò che ci fa comodo e chiuderli quando non ci va di vedere e denunciare.

Io la definirei bieca meschinità ed anche indifferenza, omissione e complicità.

scritto da Dike_vendicatrice   su: http://blog.libero.it/vendicatrice

 
 
 

La trappola della comprensione

Post n°178 pubblicato il 02 Maggio 2007 da redazione_blog
 

immagineLa comprensione è un concetto dai significati contrastanti e la sua accezione non è esclusivamente positiva anche se fin da piccoli ci viene inculcata l'idea che l'essere comprensivi verso gli altri è una delle prime doti a cui si dovrebbe aspirare.
La comprensione delle altrui debolezze è diventata una vera e propria virtù, anche quando le altrui debolezze sono inaccettabili.

Quando la comprensione diventa sinonimo di perdono, tolleranza e sopportazione con idulgenza di cose intollerabili, si cade nella trappola della comprensione.
Quando per esempio si prova comprensione per comportamenti che ledono la nostra persona si cade nell'autolesionismo e si entra nel circuito della rinuncia e della rassegnazione.

Come spesso accade, la giusta via sta nel mezzo: comprensione per quello che è comprensibile ed accettabile.
E poi è necessario ricordarsi che elargire comprensione non fa automaticamente scattare la comprensione nei nostri confronti, così come elargire disponibilità (spesso per catturare affetto, attenzione e simpatia) non si traduce in disponibilità ricevuta.

Io ci cado spesso nella trappola dell'eccesso di comprensione, giustifico spesso altrui mancanze ma fortunatamente mi fermo entro una certa soglia: alcune volte bisogna tirare fuori le unghie e inkazzarsi.
E poi la comprensione stanca, logora!!!!

Ci vuole un po' di sana cattiveria a volte e sano egoismo!!!!!!!

scritto da: twinmanu77   su: MONDOMANU


 
 
 

El culin del latt

Post n°158 pubblicato il 21 Aprile 2007 da redazione_blog
 

immagineCon una madre nata, come diceva sempre mia nonna, all'ombra della Madonnina e un padre calabro-campano, in casa si è sempre parlato prevalentemente in italiano. Con tutte le eccezioni del caso: la nonna che si rivolgeva a mio padre in calabrese stretto, l'altra nonna che infarciva di espressioni meneghine le sue conversazioni, riunioni familiari nel corso delle quali - a seconda della preponderanza dell'uno o dell'altro gruppo familiare - gli adulti scivolavano senza problemi nell'uno o nell'altro dialetto. Inclusi i buffi tentativi di imitazione di uno zio, sempre redarguito da mia nonna che sanciva che nemmeno un sordo lo avrebbe mai scambiato per un milanese.
A scuola, poi, il dialetto era bandito, anche perchè nella nostra zona le percentuali autoctone sono sempre state bassine, grazie anche alle forti presenze originarie di Veneto, Calabria e Puglia.  
Trovo dunque particolarmente interessanti
i dati diffusi oggi dall'Istat sull'utilizzo dell'italiano, dei dialetti e delle lingue straniere nelle famiglie italiane. Secondo l'Istituto, [...] le persone che parlano prevalentemente italiano in famiglia rappresentano nel 2006 il 45,5% della popolazione di sei anni e più (25 milioni 51 mila). La quota aumenta nelle relazioni con gli amici (48,9%) e in maniera più consistente nei rapporti con gli estranei (72,8%).[...]
Il che, letto dalla prospettiva opposta, significa che il 54,5% della popolazione in famiglia si esprime prevalentemente in dialetto.
Naturalmente, tutte queste percentuali cambiano - e sensibilmente - in ragione della zona geografica, dell'età, del livello di istruzione, con tutta una serie di variabili e di indicatori che sono ben illustrati nel documento.
Devo dire che, pur non parlandolo e non avendolo mai parlato di fatto, del dialetto apprezzo certe ricchezze espressive difficilmente riproducibili poi in italiano.
Quando mio padre, con tono scherzoso, dà a mia madre della regiura, (cosa per la quale lei, di carattere mite e mansueto in genere si adombra un po'), le riconosce un ruolo che un semplice padrona di casa non rende. Così come quel l'è mej piutost che ogni tanto gira anche tra amici, ha una valenza completamente diversa rispetto all'uovo oggi del proverbio italiano.
E se il tacabutun ha - riconosco - piena dignità anche in italiano, quel te set propri come el culin del latt resta per me del tutto intraducibile se non con un giro di parole che fa perdere tutta la ricchezza immaginifica dell'espressione dialettale.

[nota a margine: il calabrese lo capisco molto meno. Soprattutto non so scriverlo. Ecco perchè non mi ci sono azzardata]
[seconda nota a margine: meno divertente, ma un po' più inquietante è la questione relativa alle lingue straniere. Ma devo ancora guardare bene le tabelle]
[la foto è di Marcello Bertinetti]

scritto da SandaliAlSole su: Sconfinando

 
 
 

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