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 Canto II. L'idiota e il solitario.

Post n°2 pubblicato il 10 Novembre 2008 da Majakovka
 

 


"Dio mio, Dio mio,perché mi hai abbandonato?"

Matteo 15,34


La Bibbia è una cornucopia artistica, un'età dell'oro, un eden di immagini, temi, affreschi, motti e massime. Da millenni uomini comuni, sabini, notabili, porporati, schiere di artisti di ogni genere e grado leggono, interpretano, soggiogano, truffano, creano, o più semplicemente pensano basandosi sui testi del Libro dei Libri. Personaggi come Dante Alighieri, sommo cantore del Medioevo e della lingua patria; Bonifacio VIII lestofante in cremisi; Michelangelo Buonarroti, maestro poliedrico e sezionatore di cadaveri; Fedor Dostoevskij, genio crudele. Questa, tuttavia, non è la sede adatta per menzionare e parlare di tutti quegli uomini che nel bene o nel male si sono legati indissolubilmente al Verbo. Nelle pagine che seguono, invece, mi limiterò solo a un breve excursus all'interno di due opere, che sebbene siano piuttosto lontane nello spazio - sia fisico che culturale - e nel tempo, sono tuttavia avvicinate da motivi cristiani comuni: L'idiota1 di Fedor Michajlovič Dostoevskij e Diario di un parroco di campagna di Geoerges Bernanos.

Secondo nella cronologia dei grandi romanzi dopo Delitto e Castigo, L'idiota venne scritto da Dostoevskij fra il 1867 e il 1868, in uno stato di eccitazione creativa quasi di schizofrenia dove le idee apparivano e svanivano a guisa di spettri, ma in tempi dove purtroppo i creditori esigenti i denari scialacquati dallo scrittore al tavolo verde erano fin troppo reali. In alcune epistole Dostoevskij confessa di essere quasi intimorito dal progetto del nuovo romanzo; la rappresentazione di un uomo "positivamente bello" e "totalmente buono" è un problema di ardua soluzione: tutti hanno fallito. - È un compito sconfinato - scrive Dostoevskij alla nipote - Al mondo c'è una sola persona positivamente bella: Cristo...

Fedele al significato di "diverso", straniero" dell'aggettivo "idiota" che lo accompagna per tutto il romanzo, il principe Lev Nikolaevič Myškin compare dal nulla su di un treno che da Varsavia porta a Pietroburgo. Di lui Dostoevskij non dice praticamente nulla: si sa solo che rientra dalla Svizzera dopo un periodo di cure e che è in cerca di una sua lontana parente, la generalessa Epančina. Introdotto da quest'ultima nell'alta società, Myškin stupisce, turba, diverte per la sua bontà e la sua innocenza che a giudizio di molti sconfina nell'idiozia. Ma non basta: egli, sprovvisto di "intelligenza sociale", non è in grado di adattarsi agli schemi, ai giochi di potere, alle gelosie imperanti nel mondo degli uomini e pertanto spesso è emarginato, deriso e sbeffeggiato. La sola intelligenza di cui è fornito è quella "primaria", ossia una straordinaria sensibilità verso gli stati d'animo e i procedimenti psicologici altrui. Grazie a questa virtù, il principe tenterà, fallendo, di salvare l'unico essere che è stato in grado di amare fino in fondo: Nastas'ja Filipovna. Ella è, seguendo un allegoria cristiana, Maria Maddalena, la donna perduta che viene salvata da Cristo. Tuttavia Dostoevskij scrive un finale diverso: Nastas'ja morirà uccisa da Rogožin - vero e proprio sosia negativo del principe - ribaltando così le scritture. Maddalena seguirà in fine il demonio (Rogožin) non perché sia malvagia, piuttosto rinuncia alla sua salvezza per preservare la purezza e l'innocenza del Cristo-Idiota che non ha la forza per salvarla e amarla come lei vorrebbe essere amata. Myškin, come unico dono ed estremo atto di pietà di cui è capace, veglierà il suo cadavere e consolerà Rogožin, l'assassino, ormai posseduto e schiavo del suo delirio. Tuttavia, è possibile parlare di fallimento totale del principe? No non lo è. La sua venuta non salva il mondo ma tuttavia lo scuote, lo fa riflettere, lo confonde e forse lo rende più conscio della sua abiezione. Insomma, il sottosuolo dostoievskiano fatto di urla, ansie, dubbio, cattiveria, disperazione, si agita, si contorce, esce quasi allo scoperto, scavato ed eccitato proprio da quell'uomo che avrebbe dovuto quietarlo. Il sottosuolo però non si domina, non piega; la cattiveria dell'uomo, la sua aridità, la sua sofferenza restano tali. La sentenza del fallimento dell'Idiota lucida e terribile è pronunciata da Ippolit in punto di morte: la sofferenza è sofferenza, e non può essere un'idea, benché si tratti della Salvezza e della Redenzione, a redimerla.

Dal punto di vista figurale, sebbene sia forte la tentazione di leggere in Myškin un nuovo Cristo, un'analisi più profonda, in tal senso, invita alla cautela. Il compito del Messia è chiaramente anticipato nel libro di Isaia:


Ecco il mio servo io lo sosterrò; il mio eletto di cui mi compiaccio; io ho messo il mio spirito su di lui, egli manifesterà la giustizia alle nazioni (Isaia 42,1)



E ripreso nel vangelo di Matteo:



Ecco il mio servitore che ho scelto, il mio diletto, in cui l'anima mia si è compiaciuta. Io metterò lo Spirito sopra di lui ed egli annuncerà la giustizia alle genti (Matteo 12,18)



Cristo, secondo la Bibbia, è il portatore della giustizia, il Figlio prediletto a cui Dio ha affidato la missione più importante e difficile: farsi uomo e soffrire sulla croce per portare salvezza e redenzione all'intera umanità.


Disprezzato e abbandonato agli uomini, familiare con la sofferenza, pari a colui davanti al quale ciascuno si nasconde la faccia, era spregiato e noi non ne facemmo stima alcuna [...] maltrattato si lasciò umiliare e non aprì bocca.

Come l'agnello condotto al mattatoio come la pecora muta davanti a chi la tosa, egli non aprì bocca. Dopo l'arresto e la condanna fu tolto di mezzo

(Isaia 53,3,7-8)

A mio avviso credo che siano sufficienti questi passi biblici a far risaltare le differenze fra i due personaggi. Il principe non deve portare e annunciare la giustizia, non è sostenuto ed eletto da nessuno. Egli, al contrario, incarna in sé la giustizia la applica e la annuncia incosciente del messaggio che porta; non pronuncia dure arringhe contro i farisei, non scaccia i mercanti dal tempio, ma confonde, turba scuote attraverso la sua innocenza, la sua "intelligenza primaria", come un Cristo-bambino. Ma il muro che divide più di tutti le due personalità è quello del fallimento, tanto che il personaggio di Dostoevskij è stato classificato dalla critica russa nella categoria dei lišnie ljudi2.


Il principe allora tendeva la mano tremante verso di lui [Rogožin] e gli accarezzava la testa, i capelli, le guance... più di quello non poteva fare [...] Una sensazione completamente nuova gli tormentava il cuore con un'angoscia infinita [...] Il principe era seduto immobile accanto a lui, e ogni volta che il malato gridava o delirava, si affrettava a passargli la mano tremante fra i capelli e sulle guance per calmarlo con le carezze. Ma non comprendeva più quanto gli veniva chiesto, non riconosceva la gente che lo circondava e se Schneider in persona fosse giunto dalla Svizzera per visitare l'allievo e paziente d'un tempo [...] avrebbe detto come allora: "Idiota!"3



Quanta pietà, quanta sofferenza, quanto amore cristiano in questo quadro. Il precetto del perdono portato alle sue estreme conseguenze: l'assassino consolato e assistito dall'innamorato dell'assassinata. Ed è proprio qui che il principe si avvicina di più a Gesù: per la sua comprensione dell'umana sofferenza, per la sua capacità di perdono, per la sua bontà incorruttibile. La sua tragedia umana ricorda quella di Cristo, deriso sbeffeggiato e infine ucciso da un mondo che non lo ha voluto capire e accettare.



Il filo che lega più strettamente Dostoevskij a Bernanos è il fatto di essere entrambi due scrittori cristiani. Il francese, vissuto a cavallo fra XIX e XX secolo, fu uno dei protagonisti intellettuali del suo tempo. Scrittore cattolico e filomonarchico fu un personaggio polemico e spesso scomodo sia per i suoi alleati, che per i suoi avversari. Nella sua opera ripropose con forza la dimensione cristiana dell'esistenza umana contrapponendola alla freddezza e all'aridità che dominavano il mondo borghese circostante. La sua è una religiosità calda, appassionata, mai scontata o ben pensante, che si focalizza sull'apostolo, imago Christi, e per questo spesso imbarazzante anche per la Chiesa stessa. Il suo modo di approcciare la sfera religiosa nell'animo umano può essere tranquillamente definito dostoievskiano. Infatti, il curato di Ambricourt è un'estensione, una modernizzazione dell'Idiota ma con delle differenze rilevanti che non possono essere taciute o passare inosservate.

L'incipit del romanzo è simile: il giovane parroco giunge ad Ambricourt, uno piccolo villaggio sperduto nelle Fiandre, come spuntasse dal nulla. Del suo passato Bernanos dice pochissimo, ricalcando così la tecnica di Dostoevskij: il curato è, come Myškin, un idiota, un estraneo, un forestiero. Nella realtà del piccolo paesino, dove la gente è diffidente, arida, gretta e l'unica consolazione del parroco è un diario che con lo scorrere del romanzo diventa un dialogo a cuore aperto con Gesù. Questo continuo rivolgersi a Dio e a suo Figlio, segna una prima grande discrepanza col principe, il quale non si appella mai direttamente al Signore, ma si "limita" a operare secondo i dettami della bontà e della carità cristiana, caratteristica questa che fa sì che sia accettato, con un sorriso di scherno, dalle persone che lo circondano. Il giovane curato, al contrario, è subito mal voluto a causa del suo cattolicesimo sincero, non convenzionale che suscita immediatamente il sospetto del piccolo paesino, così immerso nella sua sonnolenza, nella sua noia esistenziale. Gli insuccessi del prelato si susseguono l'uno dopo l'altro (il gruppo sportivo non raggiunge iscritti a sufficienza, il conte non vuole cedere il terreno per le attività parrocchiali, il catechismo va male, la parrocchia è piena di debiti ecc...), ma tuttavia questi lo avvicinano sempre più a Dio, attraverso una radicale spoliazione di sé che gli consente l' esercizio di un vero apostolato. Come il principe, il parroco di Ambricourt è dotato di una grande "intelligenza primaria" attraverso la quale riuscirà a liberare la contessa dal dolore insopportabile in cui l'aveva sprofondata la morte del figlio. Questa è la sua unica vittoria. Contrariamente all'Idiota, egli, attraverso uno sforzo sovrumano, salva dalla perdizione Maria Maddalena - la contessa -, permettendole di rendere l'anima a Dio in pace.

L'agonia e la sofferenza si intrecciano alla vicenda del "piccolo" parroco che, seguendo fedelmente i principi di Cristo e degli Apostoli, accoglie i tormenti altrui su di sé, soffre per gli altri, avanzando penosamente per il cammino della sua via crucis personale. Il cancro allo stomaco lo divora, lo strazia, ma egli tuttavia insiste nel negare la sua condizione misera, continuando a esercitare il suo ministero arrivando, con l'avanzare del male, ad una vera e propria imitatio Christi. Questa condizione di apostolo consapevole della sua missione, lo differenzia profondamente dal Cristo-Idiota dostoievskiano; ciò che li accomuna è "l'intelligenza primaria", il sincero slancio di pietà umana, la consapevolezza dei propri fallimenti umani e materiali.

Bernanos e Dostoevskij hanno narrato due storie di uomini giusti, illusi, coscientemente o meno, di riuscire a scuotere e a cambiare il mondo attraverso la bontà, l'esercizio dell'apostolato. Quell'illusione, in entrambi i casi, si andrà ad infrangere sulla miseria umana, sul sottosuolo; ma il fallimento è insito nel destino di questi uomini e loro alla fine perdonano, come Cristo, coloro che li hanno scherniti, derisi, che hanno fatto loro del male. In questa prospettiva le ultime parole del curato di Ambricourt sono le più appropriate: "Tutto è grazia".

1Il termine idiòt in russo non ha accezione spregiativa di "sciocco" o "stupido" (resa col termine duràk), ma piuttosto di "diverso", straniero", fedele all'etimo greco.

2Uomini inutili. Tuttavia nella traduzione italiana si perde buona parte della sfumatura dell'aggettivo lišnij che ha accezione sia di "inutile", sia di "superfluo".

3F.M. Dostoevskij, L'idiota, 2004, Garzanti, Milano, pp. 704-705.

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