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Post N° 87

Post n°87 pubblicato il 22 Agosto 2007 da jinny1978
 








































Agosto: il fiore di loto, dove abitano le fate delle acque.










In
un tempo lontano ormai più di diecimila, ventimila anni, alla foce del
grande fiume che già da allora attraversava la pianura padana, dai
monti fino al mare, il fiume grande e placido che gli antichi
chiamavano Eridano, e i più recenti abitanti della pianura Po, alla
foce del gran fiume dunque c'era una immensa palude, così grande che
arrivava ad occupare gran parte di quella che adesso è diventata
pianura.
La palude era grande e bellissima, come tutto era bello
nel mattino del mondo. L'acqua era chiara, di un indescrivibile colore
verde-azzurro, là dove spuntavano le leggere canne sottili dei giunchi
a migliaia, docili al vento come enormi ventagli mormoranti di dee
sontuosamente abbigliate. Più scura era invece l'acqua, là dove
affioravano i grandi fiori di loto, gli enormi petali bianco-rosati
posati sull'acqua placida che immobile rifletteva il verde delle canne
e l'oro del sole.

Si diceva che i fiori di loto proteggessero i regni delle fate delle
acque, che si nascondevano proprio sotto le grandi corolle, ma a nessun
essere vivente era dato vederli, e comunque nessuno che si credeva li
avesse visitati era mai tornato per raccontarne.

Perché i regni delle fate possono svelarsi dovunque, all'improvviso,
luminosi di promesse di gioia, e sparire altrettanto improvvisamente,
lasciando un vuoto buio di incolmabile rimpianto. Si può morire di
nostalgia, struggendosi per il desiderio di quel mondo perduto. Si può
impiegare il resto della vita nella ricerca vana di qualcosa che forse
non esiste, immaginata sempre un filo al di là dell'orizzonte, sempre
un pelo sotto la limpida acqua di un lago, alla fine delle dune che si
inseguono in un deserto, appena dopo la svolta di un sentiero nella
foresta, quando già sembra di sentire le risate argentine degli esseri
fatati confuse col canto degli uccelli.

Si, può essere davvero pericoloso, per la quiete della propria anima,
anche solo intravedere il mondo delle fate.

Gli uomini che vivevano nei villaggi sparsi ai limiti della grande
palude sapevano tutto questo, al modo che un tempo gli uomini sapevano
le cose, essendo tra loro in sintonia tutti gli esseri del creato;
affrontavano quindi la grande palude con prudenza e rispetto, e ne
avevano un poco timore, pur ammirandone la variegata bellezza e pur
traendo da essa il proprio sostentamento; si cibavano infatti dei pesci
della palude, e ne cacciavano le molte specie di uccelli: anatre e
folaghe durante l'autunno, ed aironi, e gallinelle d'acqua: con le
canne e coi giunchi, poi, costruivano le loro abitazioni e le barche
con le quali scivolavano sull'acqua quieta, e con gli splendidi
boccioli dei fiori di loto le loro donne si adornavano i capelli.

In uno di questi villaggi viveva una giovane vedova, con un bambino
nato da poco, ed il fratello un poco più giovane di lei, fiero e
indomabile come un guerriero barbaro, invece del povero pescatore che
era. IL giovane amava andarsene per la palude, ed amava anche i rischi
che questo comportava, più che temerli. Con la sua barchetta leggera
scivolava tra i giunchi, tuffandosi proprio là dove erano più folti,
perché aveva sentito raccontare dai vecchi che talvolta, nei ciuffi più
folti, si apriva una porta che conduceva ai regni delle fate.

Infine, un giorno in cui il meriggio sembrava essersi allungato
all'infinito, e la notte non sopravvenire mai, e al giovane gli occhi
bruciavano talmente per il luccichio del sole che non riusciva più a
distinguere la direzione che aveva preso, né riusciva a comprendere
dove era finito, e il sudore colava lungo il suo corpo fino a
trasformarlo in una statua di bronzo e il mondo intero sembrava tacere
in attesa, e non si udivano versi di anitra dall'ombra dei canneti, né
voli striduli di uccelli nel cielo, e tutto era verde, oro ed azzurro,
e silenzio, perché nemmeno la barca faceva rumore mentre scivolava
verso un gruppo più folto degli altri come se la direzione fosse decisa
e inevitabile, il mondo delle fate si spalancò davanti agli occhi del
ragazzo, all'improvviso. Egli comprese subito - sebbene non sapesse
spiegarsene il perché - che il luogo dove si trovava era fatato, e si
avvicinò al centro di quel luogo misterioso, dove, affioranti dalle
acque e quasi sospesi sopra di esse, si trovava un forziere colmo di
monete d'oro, ed accanto dormiva quieta, sdraiata su un comodo divano,
una fanciulla, i lunghi, lisci capelli scintillanti come oro filato e
le labbra piegate da un misterioso sorriso.

Le fate, accorse in gran numero lievi come farfalle, si raccolsero
intorno al giovane con le lucide ali dorate scosse da un fremito
leggero e lo invitarono con le ridenti voci argentine a scegliere uno
dei due doni. IL forziere lo avrebbe ovviamente reso ricco, con la
bellissima giovinetta avrebbe diviso una lunga vita felice di reciproco
amore.

IL giovane esitò, ma solo per poco; pensò alla sorella, alla povera
vita che lei viveva, al bimbo nato da poco e che già conosceva il
dolore, al fatto che di belle donne il mondo era pieno e che, in fondo,
all'amore lui non credeva...... Scelse dunque il forziere e lasciò
senza rimpianti quel mondo incantato.

Da quel giorno, la vita della famigliola cambiò radicalmente, poiché le
monete nel forziere sembravano non finire mai. Per ognuna che se ne
toglieva, un'altra misteriosamente compariva al suo posto. La sorella
era finalmente tranquilla e felice ed il suo bel bambino cresceva forte
e sano. IL fratello però, a mano a mano che il tempo passava, si
interessava sempre meno dell'accumularsi della ricchezza, perché il suo
unico pensiero era l'immagine della bellissima fanciulla che non aveva
svegliato.

La dolce ossessione non lo abbandonò più. Lui passava i suoi giorni
scivolando sull'acqua con la sua barchetta, sempre alla ricerca della
caverna fatata, sempre sperando che al prossimo ciuffo di giunchi, al
prossimo colpo di remo si riaprisse la porta che lo avrebbe condotto
alla bella creatura che lo aveva stregato.

Finì per non tornare neanche più a casa a dormire, si dimenticò di
mangiare e di bere, e infine morì. Lo ritrovarono qualche giorno più
tardi, che sembrava addormentato, con la barchetta impigliata in un
ciuffo di giunchi più folto degli altri e sulle labbra un misterioso
sorriso.

La sorella, che aveva compreso di essere stata in parte la ragione
della scelta che aveva portato alla morte il fratello tanto amato,
volle dare al bambino nato da poco il nome di "Giunchi", in ricordo
della storia dolce-amara che era all'origine della fortuna della
famiglia, che col tempo crebbe sempre più in importanza e ricchezza.

Le fate, però, non dimenticarono di punire la scelta priva d'amore del
giovinetto che le aveva, in un tempo lontano, trovate nella grande
palude e così tutti i primogeniti della famiglia vennero condannati a
non saper riconoscere l'amore, quando lo incontrano, e a vivere senza
conoscerne la felicità.

La grande palude è ormai quasi sparita, col passare dei millenni.

Però una quindicina di chilometri prima di confluire nel Po, il fiume
Mincio forma la distesa lacustre che abbraccia da tre lati la città di
Mantova, e lì si possono trovare, sulla distesa d'acqua placida, ancora
ciuffi di giunchi e di canne che tremolano al vento, e, verso il finire
d'agosto, i fiori di loto che aprono a migliaia le grandi corolle
bianco-rosate. Qualche barchetta si avvicina cauta scivolando
sull'acqua quieta, ma nessuno osa addentrarsi fra la grande distesa dei
fiori sospesi sull'acqua più scura , anche se i rematori sorridono alle
domande indiscrete dei turisti curiosi, se sia vero che là sotto hanno
trovato l'ultimo rifugio i regni delle fate delle acque.








by
Rossana

















 


















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