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Cronache del dopobomba

Post n°78 pubblicato il 18 Aprile 2008 da fiodor.yang
 

By Fiodor – Febbraio ‘08

 

Bastardi! L’hanno fatto davvero. Nessuno ha mai veramente creduto che potessero farlo. E invece l’hanno fatto. Hanno lanciato la bomba.

 

Sono ore che scaviamo. Il muro di macerie davanti ci sembra abbia qualche spiraglio. Come dei brillantini, qua e là. Sentiamo una corrente d’aria da quei brillantini; debole, ma la sentiamo. Dall’altra parte di questa montagna di rovine potrebbe esserci la stazione. L’uscita.

C’ eravamo quasi, dentro la stazione, quando è successo. Prima un tuono sordo. Poi l’onda, come essere nella pancia di un serpente gigante che strattona violentemente la coda. Prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra. Quelli in piedi si sono ridotti a marmellata subito, schiacciati gli uni sugli altri e sulla parete del vagone. Io, insolitamente seduto oggi, ho ficcato mezza testa giusto in bocca allo studente alla mia destra, come una martellata, e l’ho mandato a sbattere forte al vetro del finestrino. E’ svenuto subito, o morto, non so. Il sangue gli è uscito a getti dalla bocca e dalla testa. Poi i rumori si sono come ovattati, il tempo è rallentato fino a quasi fermarsi. Ho guardato, inebetito-incredulo-incapace di reazione, quelle fontane di liquido rosso fragola che, con la consistenza del miele, pian piano gli ricoprivano tutto il volto. D’improvviso il tempo ha ricominciato a correre frenetico e i rumori, grida-stridii-metallo contorto, mi sono penetrati nelle orecchie facendomi urlare dal dolore. Intanto, continuavo ad essere sballottato insieme a tutto il resto del mondo attorno. Quando il serpente ha finalmente risolto il suo raptus epilettico, la luce era già spenta da un pezzo. Non sentivo più urla, il fumo e la polvere mi avevano impietrito i polmoni, avevo una montagna di  corpi morti aggrovigliati sopra e i denti conficcati nella gomma del pavimento. Ma mi sembrava fossi vivo. Con sforzi enormi mi sono liberato dei disgraziati ammassatimi sopra, ho tossito fuori tutto ciò che potevo, polvere-sangue-paura, e  mi sono arrampicato verso la porta automatica che nel frattempo, aperta, era diventata il soffitto.

 

Alfonso lavora alacremente. Sbuffa-impreca-urla-suda. Le dita tozze riescono ad artigliare manciate enormi di detriti. Le braccia potenti riescono a spostare pezzi di rovine che noialtri tre nemmeno tutti assieme ci riusciremmo. Alfonso non è atletico, avrà una cinquantina d’anni, una specie di campanone al posto dello stomaco e due gambe corte e larghe. Ma lavora ai mercati generali, è una vita che carica e scarica cassette e cassette di frutta e verdura. Non si stanca mai. Ha una certa difficoltà a mettere insieme una frase di un certo senso ma in questo frangente quello che conta sono i palloncini che ha sulle braccia e che si gonfiano ad ogni artigliata.

 

Quando ci siamo ritrovati nel tunnel buio abbiamo tutti pensato a un semplice incidente ferroviario. Un controllo che va a puttane, un guidatore strafatto, può succedere. A pensarci, qualche dubbio sarebbe dovuto venirci. Un incidente in metrò nell’ora del rientro, per quanto grosso, non può lasciare solo quattro sopravvissuti. Ma i dubbi non ci sono venuti. Quello che avevamo passato non ci faceva pensare ad altro che: “finalmente è finito”. La situazione era questa: dietro, il tunnel era copiosamente crollato e quasi completamente ostruito; davanti, la parete coi brillantini. Decisione semplice: sfondiamo la parete e usciamo.

 

Mentre Alfonso continua a scavare, che Dio lo benedica, Ale passeggia continuamente lungo la parete e saggia la ricezione del suo cellulare-radio in ogni punto. In alto, in basso, nel mezzo. Ma non sente più niente. Prima, miracolo!-fortuna-sfiga, era riuscito a beccare una radio locale per dieci secondi. Sufficienti a captare in quale irrimediabile casino ci avevano ficcato. L’ho visto spalancare gli occhi, aprire e chiudere in continuazione la bocca senza dire niente come un pesce nella boccia, poi gettare via il cellulare-radio, poi precipitarsi a riprenderlo, mettersi le mani nei capelli e davanti agli occhi, piangere, miagolare, ridere, abbaiare e ragliare. In quest’ordine e poi in ordine sparso. Noialtri perplessi-preoccupati-divertiti-impauriti. Poi ci ha spiegato. Lui fa il fisico ricercatore, abituato a dare del tu a cose di cui le persone normali nemmeno sospettano l’esistenza. Anche nel dramma, ha sentito il bisogno-dovere di ricercare i termini più elementari per far capire noialtri. Purtroppo questo ha sortito l’effetto di rendere la spiegazione più dura e fredda di quanto fosse necessario: Milano era stata colpita da una bomba nucleare di media potenza, mezza città non esisteva più,  l’altra metà non se la passava molto meglio, tutto era piombato in una specie di crepuscolo, grigio-polvere-neve radioattiva. Tutto qui. Tutta la nostra vita era stata completamente ribaltata, forse non avremmo avuto nemmeno più una nostra vita tra poco, e lui ce lo diceva in quattro parole e due sorrisi.

 

Non avevamo altre notizie, dieci miseri secondi di un dee-jay milanese terrorizzato e magari impasticcato. Ale ci ha pazientemente spiegato, con il tono che si usa con i bambini, che doveva esserci stata una escalation di eventi (ad escalation, Alfonso ha smesso di scavare come fosse stato colpito, si è girato ed è rimasto a fissare Ale a bocca aperta, si e` perso il resto della spiegazione; gliel’ho dovuta ripetere più tardi: una specie di lezione privata). Dunque, secondo Ale, un pazzo da qualche parte doveva aver sbroccato di brutto e premuto il bottone. Gli altri dovevano aver reagito immediatamente. Così, come in un’ inarrestabile reazione a catena, tutte le principali città della Terra dovevano essere state colpite da una tempesta di bombe nucleari, e il pianeta doveva essere stato ridotto a una via di mezzo tra il deserto e Marte. La congettura di Ale aveva senso. Anche se odio profondamente Milano, non era pensabile un accanimento dedicato, mirato. Anzi, la città non doveva nemmeno essere stato un obiettivo primario dell’ attacco. O del contrattacco. Chi aveva cominciato, noi o loro? Non che avesse importanza adesso. Molto del mondo di prima non aveva più alcuna importanza adesso. Eravamo consapevoli di stare per uscire in un mondo che nessuno di noi aveva mai visto, deserto-sterile-micidiale, ma non avevamo altra alternativa che fare la fine dei topi. Dunque … Alfonso, sotto!

 

Claudia mi guarda assente. Non mi vede. Sembra di continuo sul punto di scoppiare a piangere, ma poi non lo fa mai. Era con altre due liceali, nel vagone, le ha viste spezzarsi in tronconi. Le pesa, quello che ha visto, le pesa essere rimasta sola, essere piombata in questo incubo, non poter avere più la vita che avrebbe voluto. Le hanno sfasciato il futuro. Mi fa compassione, vorrei tirarla su ma ho paura di non trovare le parole giuste e allora mi limito a guardarla. “Ma che hai da guardarmi così?” si risveglia all’improvviso, violenta-tagliente-definitiva. Le faccio un cenno con la mano e scuoto la testa per dire “niente”, e ritorno a scavare. Sono sempre stato un campione a rovinare tutto. Claudia piange a singhiozzi, ora.

 

Il caldo è insopportabile, la polvere e il fumo ci appestano ancora i polmoni, siamo doloranti, sanguinanti, boccheggianti per la mancanza di ricambio d’aria pulita da respirare. Se non ci sbrighiamo a sfondare un varco mi sa che possiamo tranquillamente finirla qui. Forza Alfonso-la-locomotiva, stantuffa ancora, portaci dall’altra parte …

 

 

… luce bianca improvvisa mi inonda gli occhi, li stringo forte quasi tramortito dal dolore … “Alfonso, grande! Ci sei riuscito, hai sfondato!”, “Ale, Claudia, presto che usciamo!”, urlo, incespicando sulle parole per l’ ansia e con gli occhi ancora serrati. Pian piano li apro alla luce. Tra le ciglia intravedo qualcosa … o qualcuno … che mi sta molto vicino al viso. Continuo a recuperare la vista, man mano schiarisco, metto meglio a fuoco. E’ un viso. Lentamente ricostruisco gli occhi, la fronte, il naso, la bocca … mia moglie mi guarda con uno sguardo perplesso-accusatorio.

 

LEI: “Ma che, sei completamente impazzito? E’ possibile che non c’è più verso di averti con noi? Stai sempre rintanato qui dentro, con questo gioco. Quando ti ho spostato il casco hai chiamato … chessò, Alberto, Vale, Claudia … ma chi è stà gente?”.

IO: “Veramente erano Alfonso e Ale con Claudia. Amore, questa non è una console come le altre, cioè … ti metti questo casco e ci stai completamente dentro, addirittura senti gli odori, le sensazioni, i dolori anche. Poi questo gioco, si chiama Cronache del dopobomba: tu sei te, cioè … fai il tuo lavoro, hai la tua famiglia, tutto come nella realtà. Io, per esempio, prendevo il metrò per andare al lavoro e rincasare, proprio come faccio tutti i giorni ...”

LEI: “Capirai che divertimento rivivere lo stesso schifo di tutti i giorni! E lo devi anche pagare, questo gioco?”.

IO: “No … fammi finire ... solo che poi, all’improvviso accade … scoppia la bomba … e tu ti trovi nel mondo di dopo, cioè … in una situazione sempre diversa, che dipende da quello che hai fatto nel gioco mondo di prima … capito?”

LEI: “Guarda che mi sembri matto”

IO: “cioè … se ti sei fatto amico qualcuno, magari questo è sopravvissuto con te e ti aiuta. Se hai comprato qualcosa, magari questo ti serve nelle situazioni in cui ti troverai dopo, oppure magari non ti serve a niente, cioè … capito?”

Ma lei è già uscita dalla stanza e non mi ascolta più. La finestra è spalancata, guardo la console, lo schermo e il casco che sembrano quasi ridicoli adesso, non protetti più dal buio totale che avevo creato attorno.

Mesto, già sconfitto, la raggiungo in cucina.

LEI: (Tono distaccato-freddo-risoluto-non domande-non colloquio-solo sentenze) “Guarda, Marco, io non ce la faccio più. Tu ti trastulli con le tue bombe e dopobombe, cronache e giochini, ma hai quarantaquattro, dico quarantaquattro, non quattordici, anni. Ma pensa piuttosto a caricarti, finalmente, delle tue responsabilità di marito e padre. Perchè non …”

<strano, non ho mai pensato a marito e padre come a qualcosa di cui debba caricarmi! Già il termine mi sa di fatica, sopportazione, sacrificio. Ecco, mi sono distratto, ho perso quello che sta dicendo>

LEI: “ … e che cavolo! Non hai fatto una gran carriera, non hai uno stipendio adegua …”

<si, la carriera, lo stipendio … come se non lo sapessi che non c’entrano nulla con i meriti, le competenze … che è tutto un gioco di alleanze, cordate e favoritismi … tutte cose che mi fanno vomitare … Ecco, mi sono distratto ancora!>

LEI: “… mai a darmi una mano, io sono SOLA!”

<l’ha detto proprio così, maiuscolo>

LEI: “… anche con Valerio, che lui si ha quattordici anni e avrebbe bisogno di un padre più presente, invece di crearti un mondo parallelo, vivi QUESTO di mon …”

Mi accascio sulla sedia, sconfitto ma almeno senza battaglia.

Valerio mi guarda e mi sussurra (sul sottofondo della mamma sentenziante): “Dura, eh?”

Io gli sorrido, un pò amaro. C’e` sempre stata questa intesa, tra noi, questo non-bisogno di molte parole.

Gli faccio: “Durissima, ma … lo sai, io non mi spezzo”.

 
 
 

Notte

Post n°77 pubblicato il 26 Marzo 2008 da anna.rebaioli
 

Notte.
Notte dentro la stanza.
I sogni arrivano silenziosi come cavalli.
Cavalli nel vento, criniere intrecciate a presagi, a ricordi.
Le parlano di piste che si perdono nell'infinito racconto del deserto.
Notte nel bosco che si sporge verso il mare.
Notte che l'accompagna verso il mattino.

 
 
 

A proposito di quanto accade in Tibet ...

Post n°76 pubblicato il 21 Marzo 2008 da fiodor.yang

... magari e` banale ... ma in questi drammatici giorni per il Tibet sono andato a riascoltare il pezzo di cui riporto il testo qui sotto. E`incredibile che siano passati 45 anni e che non sia cambiato nulla ... nulla ... anzi, forse se qualche cambiamento c'e` stato, e` stato in peggio ... 

Nota: "white dove" si traduce con "colomba della pace"

Blowin' in the wind (Bob Dylan - first released in "The freewhilin' Bob Dylan", 1963)

 

How many roads must a man walk down

Before you call him a man?

Yes, 'n' how many seas must a white dove sail

Before she sleeps in the sand?

Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly

Before they're forever banned?

The answer, my friend, is blowin' in the wind,

The answer is blowin' in the wind.

 

How many times must a man look up

Before he can see the sky?

Yes, 'n' how many ears must one man have

Before he can hear people cry?

Yes, 'n' how many deaths will it take till he knows

That too many people have died?

The answer, my friend, is blowin' in the wind,

The answer is blowin' in the wind.

 

How many years can a mountain exist

Before it's washed to the sea?

Yes, 'n' how many years can some people exist

Before they're allowed to be free?

Yes, 'n' how many times can a man turn his head,

Pretending he just doesn't see?

The answer, my friend, is blowin' in the wind,

The answer is blowin' in the wind.

 

 

 
 
 

Sangue

Post n°75 pubblicato il 17 Marzo 2008 da anna.rebaioli
 

La donna inciampa.
Sangue sull'erba.
Occhi pieni di cielo e rimpianto.
Il quaderno è infangato come il suo respiro.
Un ragazzo, forse un giardiniere, la guarda.
La vede ogni giorno passeggiare fra il sentiero e il sogno.
La vede con un uomo, forse il marito.
La vorrebbe stringere, fermare.
La vorrebbe sentire respirare.
Il ragazzo la disegna nel cielo, unendo le stelle con il suo amore.

 
 
 

Contro le Olimpiadi di Pechino spegnamo la tv

Post n°74 pubblicato il 15 Marzo 2008 da heygio8
 

Chiedo scusa se mi intrometto con un qualcosa che non centra con la poesia, ma forse sì perchè la poesia è libertà...parola che in quel paese è decisamente negata.

Naturalmente non obbligo nessuno ma invito le vostre coscienze a rifletterci e a pensare di fare un gesto semplice ad agosto quando nella inquinata, industrializzata e potente Cina si svolgeranno i Giochi Olimpici, giochi nati per unire, per uno spirito di uguglianza, uno spirito di pace, spirito decisamente negato in quella terra. Una Nazione divenuta la prima potenza mondiale non può negare nessuna libertà. Perchè si diventa potenza non solo grazie all'economia ma soprattutto dando la possibilità di potersi esprimere liberamente, poter dire ciò che si pensa e di scrivere quello che sto scrivendo io, senza essere represso con il fucile.

Penso quello che sta succedendo oggi nella piccola regione del Tibet, dove piccoli monaci con tuniche amaranto che tanto somiglia al sangue che è vita, manifestano per avere la propria libertà. Ma ogni loro parola, ogni piccolo passo è falcidiato dalle armi dal sangue che bagna le strade di Lhasa. Una grande potenza non può reprimere le manifestazioni, una grande potenza non può neanche avere le Olimpiadi e per questo noi dobbiamo spegnere le TV e invece di guardare le imprese degli atleti che cercano l'eternità della gloria, di uscire e di goderci il sole di agosto o qualsiasi altro clima. E' un piccolo gesto di protesta, l'unico gesto che mi è venuto in mente per dimezzare la grande giostra dei Giochi...un gesto per affermare che io sto con quei monaci, sto con la libertà!

 
 
 
 
 

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