Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 17

Post n°17 pubblicato il 21 Febbraio 2005 da Nekrophiliac
 
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OPETH: BLACKWATER PARK (2001)

Possono due brasiliani, Martin Lopez e Martin Mendez a batteria e basso, e due svedesi, Peter Lindgren e Mikael Akerfeldt a chitarra e vocals, entusiasmare suonando assieme? La risposta in carne ed ossa sono gli Opeth, una delle poche band che dopo tanti lavori non ha sbagliato un colpo, proprio perché Blackwater Park ha centrato perfettamente nel segno. L'evoluzione rispetto al precedente Still Life (1999) non è stata molto marcata, anzi, c'è stato uno strano cambiamento perché il sound delle parti pesanti risulta ancora più pesante, addirittura doom in certe canzoni, mentre invece quello delle parti melodiche rimane quasi invariato rispetto al predecessore, se non fosse per un maggior uso di arpeggi che contribuiscono a creare l'atmosfera oscura e malata che caratterizzano l’album. Con il quinto capitolo della loro storia, gli Opeth scrivono un disco estremamente complesso e che non lascia spazio ad allegre digressioni, ma fa rimanere imprigionati tra i riff ipnotici di chitarra e la voce, a volte dolcissima e suadente salvo poi tramutarsi in un growl proveniente direttamente dall’abisso. In Blackwater Park sembra di sentire un gruppo più adulto, più avanzato tecnicamente e più coordinato nelle scelte dei tempi e delle alterazioni musicali che caratterizzano il disco. Le parti melodiche iniziano a scarseggiare per lasciare sempre più spazio alle ritmiche dure e martellanti che si trascinano per lunghi minuti inalterate e gloriose come non mai, la voce risulta sicuramente migliore che in ogni altro loro (capo)lavoro, soprattutto per quanto riguarda le parti cattive e gotiche. È un disco destinato a far innamorare coloro i quali avranno il coraggio di avventurarsi nei suoi meandri, scalfendo l’iniziale titubanza riguardo a sonorità a volte troppo lente per poi farsi guidare da una magia musicale in cui gli Opeth stanno dimostrando di non essere inferiori a tanti nomi ben più conosciuti nel panorama metal. L'opener, The Leper Affinity, riprende, come sonorità, da dove ci eravamo lasciati nel 1999: parti violente e pesanti alternate a parti melodiche nelle quali fa capolino la bellissima voce pulita di Mikael Akerfeldt in una tempesta mostruosa di riffs in cui è un piacere affogare. Con un pianoforte che fa perdere definitivamente la testa, si conclude il primo brano. La successiva, Bleak, parte pesante, ma in sottofondo la chitarra fa trasparire un po' di melodia che poco dopo sfocerà in un bellissimo chorus. Il suono è spumeggiante ed incisivo, il riffing graffiante, la batteria offre un'ottima scenografia e nel complesso il brano testimonia un ben determinato sviluppo artistico, grazie anche ai lenti assoli di chitarra elettrica sotto chitarra classica e voce pulita. Ben fatto. Come da consuetudine, la terza traccia è lenta, ma Harvest è una spanna sopra tutti, gli arpeggi sono divini e il chorus è veramente coinvolgente. La malinconia distrugge.

Altro che Parco dell’Acqua Nera. The Drapery Falls è un altro pezzo che stupisce l'ascoltatore con un inizio melodico seguito dalla voce filtrata di Mikael, tuttavia, in breve si viene catapultati in una pesantezza che si mantiene su standard molto alti. Si prosegue con Dirge For November che ricorda l’atmosfera di Harvest anche se la canzone è decisamente più lunga ma a dir poco meravigliosa con un riff deciso e un growl che fa tremare i muri. The funeral portrait è uno dei pezzi più oscuri mai scritto dagli Opeth, e contiene anche uno dei riff tra i migliori della loro storia. Spietata e angosciante, la sesta traccia è il manifesto del gruppo svedese. La penultima traccia, Patterns In The Ivy, è strumentale e dura poco più di 1 minuto, la sua funzione? Spianare la strada alla pesantissima Blackwater Park: growl e pesantezza sonora per un ottima chiusura. La canzone forse più innovativa dell'intero album, resta, comunque, strettamente legata alle sette che la precedono, sia per i suoni utilizzati che per l'atmosfera che riesce ad evocare. Il death-progressive degli Opeth è coinvolgente, appassionante e soprattutto eccellente, ecco il motivo perché un disco come questo è, a dir poco, divenuto presto un vero must.

 
 
 
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