Creato da Nekrophiliac il 21/02/2005

DARK REALMS V2

So, I've decided to take my work back underground. To stop it falling into the wrong hands.

 

 

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Post N° 88

Post n°88 pubblicato il 04 Novembre 2006 da Nekrophiliac
 
Foto di Nekrophiliac

CHEMICAL BROTHERS: DIG YOUR OWN HOLE (1997) 

Questione di bioritmica. La storia rinasce ogni volta più spessa, evoluzione sì continua, ma la radice è la stessa. Sostituito il nome Dust Brothers nel momento in cui scoprirono che esisteva già, poiché appartenente ad un duo di produttori statunitensi, i Chemical Brothers, ovvero Tom Rowlands e Ed Simons conosciutisi alla Manchester University nel 1989, si presentarono con Exit Planet Dust (1995) nelle semiserie vesti di propagatori delle novelle ritmiche da night club. Ne furono in effetti avanguardisti, in originalità e qualità, nella "Madchester" dell’ultimo decennio del secolo scorso. La nociva mistura di rock e acid house che misero a punto divenne l'asse di sostegno di questo album, elettronica prevalentemente strumentale, di immemorabile memoria, rimandando ad un passato appartenuto ai teutonici Kraftwerk. Tale sound, coniato dai due, amalgama un’overdose di funk, rock e hip-hop, come in un disorganico collage di pop art. La regolare prassi si ripropone monotonamente dall'inizio alla fine, cioè, campionare battiti hip hop, indirizzarli verso sempre nuovi loop, poi, prima accartocciandoli in spirali di sintetizzatori, e dopo danneggiandoli a colpi di chitarre rock. Bisogna render loro atto di dar vita a tutto ciò con un atteggiamento irreale e demenziale, che stravolge l’orecchio dell’ascoltatore che si appresta a percepire le prime folli tracce: Leave Home, destinata a perdurare come uno dei loro capisaldi, e la pressante In Dust We Trust, sino alla siderale escalation di Chemical Beats. Successivamente, con la pubblicazione dell'EP Loops Of Fury (1996), intenso e furioso, grazie a tre irresistibili brani quali l’omonima Loops Of Fury, Breaking Up e Get Up On It Like This, lanciò in orbita i Chemical Brothers, pronti per pubblicare Dig Your Own Hole (1997), il secondo, attesissimo, album del duo più celebre e celebrato della techno mondiale, che, non a caso, riparte dai loro esordi, con estrema disinvoltura, dalla fusione fra tutto ciò che risulta oggigiorno “ballabile” e tutto ciò che è inquadrabile nel “rock”.

Diffidare dalle imitazioni. Dig Your Own Hole, rilevante capitolo per la musica degli anni ’90, è stato un vero e proprio trampolino di lancio in campo commerciale per i Chemical Brothers. È, in maniera indiscutibile ed imperscrutabile, il miglior disco pubblicato dal sodalizio inglese: settanta acri minuti di suoni esplosivi, a cui nessun umano corpo può opporre resistenza, per undici infettate schegge nelle quali gli opprimenti tempi metropolitani si liquefanno con irritazione ed inquietudine, plasmando un capolavoro del genere. In teoria, è un disco che sembrerebbe accontentare più gusti, ma, in realtà, appare sempre un po’ distante da chi preferisce, in campo musicale, ben altro. L’estatica e quanto mai ricca musica dei Chemical Brothers, così come quella di molteplici altri artisti che si occupano di techno, si riunisce insieme a innumerevoli altri generi per sagomarne uno nuovo di zecca, che può “suonare”, da orecchio ad orecchio, melodico o inebriante, regolare o trascinante, uggioso o elettrizzante. In ogni caso, l'evoluzione digressiva, a seguito del sopra citato Exit From Planet Dust (1995), poteva farsi difficoltosa, tuttavia, i due alchimisti sono mirabilmente riusciti a scovare assortite soluzioni acrobaticamente cacofoniche, nell’attraente stravolgimento delle leggi così attuato. Un disco dal quale tutti si aspettavano precise indicazioni per il futuro. Un disco a seguito del quale il mondo non è stato più lo stesso, perchè è un po' come quando ti innamori, e qualcosa nel tuo modo di percepire determinati aspetti muta per sempre, in bene o in male. Non c'è niente da dire o fare. Impossibile analizzarli a freddo. Nel bagaglio di datate ispirazioni datate, i Chemical Brothers hanno deciso di rigettare a priori i legami con la chimica che sbalordisce, e, piuttosto, riaffermare, invece, i legami biologici della compositiva arte libera da schema alcuno.

Acidi e basi. Qui non è questione di incontrare il gusto delle masse, ormai non è tanto questione di stile, ma è questione di classe, è essere diverso da ogni produzione che si fa, diverso nella musica, insomma, l’originalità come prima qualità. L’apertura di Dig Your Own Hole è affidata alla straripante Block Rockin' Beats, caratterizzata da una bass-line dei 23 Skiddo e da un ritornello vocale così semplice, che tutti gli appassionati della dancefloor possono facilmente comprendere, senza dover conoscere chissà quale lingua straniera. È un pezzo che dà veramente la carica: il ritmo è cadenzato dal suono della chitarra e da una serie di suoni intersecati, uniformati e campionati alla perfezione – praticamente delle fantasiose sincopi sismiche alla Public Enemy – a foggiare, con l’apporto della batteria, una musica autorevole e mai ordinaria od oltremisura ripetitiva.

Si prosegue sulla stessa linea con la title-track, Dig Your Own Hole, ennesimo avvincente mix di suoni campionati che, a tratti, richiamano alla mente i frastuoni senza tregua del territorio urbano, che tra sirene, tribalismi africani e pulsioni funky, terminano direttamente nel terzo aggressivo pezzo dell’album, ovvero Elektrobank. I suoi otto minuti sono emblematici del programma del disco con le persistenti metamorfosi dell'arrangiamento attorno a una macchinosa modulazione poliritmica. Qui ad un ripetitivo baccano di sottofondo va, lentamente aggiungendosi, una voce che pronuncia una manciata di parole di difficile comprensione, intramezzate a grida e schiamazzi, finché non esplode una fonda e opprimente musica che prosegue, senza calo di ritmo alcuno, per oltre cinque minuti, fino a stemperarsi nel suono della batteria che riduce progressivamente la sua intensità. Piuttosto, gli ultimi due minuti sembrano esser completamente al di fuori dal resto del pezzo, ecco uno dei tanti “marchi di fabbrica” dei Chemical Brothers.

In questo caso, in mancanza d’uno stacco netto, si assentano le prime note di Piku, da un fittizio ritmo, al quale va sovrapponendosi un altro a pochi secondi di distanza. La fanfara interrotta e riciclata all'infinito è una vera e propria dimostrazione di equilibrismo eufonico da parte di due emaciati interpreti dell’arte del campionamento. Piku fluisce gradevole, e proprio quando la musica sembra “imballarsi”, sfruttando un abile seppur dilettevole sollazzo ritmico, raggiunge nel finale il suo culmine, divenendo Setting Sun, la canzone che dell’album è probabilmente la più nota. Per gradi, si fa sempre più imponente e scrosciante a batteria, si amplificano i toni e gli echi disturbati, disposti precisamente al di sopra dell’imperversa voce di Noel Gallagher, non uno qualunque, bensì l’anima creativa degli Oasis. Il ritmo è semplicemente irrefrenabile, e di per sé, diviene quasi inammissibile trattenersi dal muoversi o dal cantare l’intera canzone.

Subito dopo spazio a It Doesn’t Matter, sperimentale pezzo con tendenze più dirette all'house, e dunque volutamente ripetitivo, carico di collera, che sembra mai esplodere, la cui forza risiede proprio nella ripetizione continua. È uno dei pezzi più particolari del disco, che si può apprezzare fino in fondo solo se si comprende a pieno il suo significato. E così Don’t Stop The Rock finisce col fondersi insieme al pezzo precedente, attraverso un unico e ricorrente suono che l’accompagna per gran parte del suo andamento, e, anzi, in più d’una frazione diviene addirittura quello dominante, per poi scomparire e riaffacciarsi di tanto in tanto. Don’t Stop The Rock è ancora all’insegna della ripetitività, che è simbolo proprio della realtà metropolitana scrutata dai vigili occhi dei Chemical Brothers, tuttavia, è impeccabile, “antinomicamente” parlando, l'armonia di tutti i brani, sapientemente costruita in certosina maniera, facendo spiccare l’impressione di artificiale che il loro meticoloso montaggio ha da sempre conferito alle primigenie musiche. Ancor prima della fine, sono già percepibili le parole che danno vita al titolo del successivo pezzo, ovvero Get Up On It Like This, più divertente e ritmato, contagiato tanto dal rap, tanto dal versante più propriamente techno, appartenente allo stile d Fatboy Slim. Quest’ultimo, pezzo più breve dell’intero disco (meno di tre minuti), precede ciò che, invece, si può definire il più esclusivo, il più fuori dagli schemi, praticamente un sobbalzo elettrodomestico senza storia: Lost In The K-Hole, forgiata nell’eccezionale basso, dà quasi origine ad un senso d’evasione, propria dei grandi sognatori. Pur tenendo salde alcune peculiarità che sono alla base del genere, Lost In The K-Hole spicca per le magiche melodie ed echi da oltretomba. Si giunge, quindi, alla decima traccia, Where Do I Begin, cantata dalla composta e seria voce dei Portishead, Beth Orton, dove la musica, perlomeno nei primi tre minuti, sembra essere completamente al di fuori degli standard di Dig Your Own Hole. Un’originalità che conferisce maggior movimento all’intero disco. Dopo aver titubato per la prima parte del pezzo, ecco che nella seconda alzano il capo gli originali Chemical Brothers, con la solita baraonda di prorompenti e replicati martellamenti a strati, che danno l’idea della circostanza di vero e proprio caos, chiamato a distruggere qualsiasi schema conferisse equilibrio all’interno di Where Do I Begin.

Praticamente saldato al finale, si snoda l’ultimo pezzo di questo leggendario disco, ovvero The Private Psychedelic Reel, lunga ed elettronica ballata dalle atmosfere orientaleggianti, realizzata con la collaborazione dei Mercury Rev, e in particolare della loro voce Jonathan Donahue, che qui però suona il clarinetto. È la summa delle capacità compositive dei “Fratelli Chimici”, una sorta di viaggio da nove minuti, che racchiude la magia, la bellezza, la forza, la bravura, la genialità, che il duo ha sottratto al mondo sogni, e trasformto in pura musica. Stentare a credere. Chiudere gli occhi e lasciarsi andare completamente. Un suono ipnotico del sitar che anima sonorità psichedeliche, proiettate verso il buio spazio. Memorie dell’epoca rave, memorie adolescenziali. Una canzone che entra in testa una volta e non uscirà mai più. In conclusione, d’innanzi a simili giochi di prestigio, i Chemical Brothers finiscono per esser i protagonisti indiscussi della nuova era della musica elettronica. Irraggiungibili.

 
 
 
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