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parte terza

Post n°174 pubblicato il 10 Settembre 2010 da nem_o

L'incontro con Sorella Chiara (parte terza)

Pomeriggio.

Caldo infernale.

Il viaggio è finito.

Non resta che un’ultima cosa da fare.

In certo qual modo era stata lasciata per ultima, un po’ per il timore di andare e “rovinarsi” il viaggio con un momento troppo forte, un po’ per pigrizia.

Ma era l’ora di Sorella Chiara.

Acchiappato un taxi, si parte in direzione della “Bethlehem House” delle Missionaries of Charity. Il taxista, come prevedibile non ha idea di dove andare, benché gli abbia dato l’indirizzo.

Vaghiamo per il quartiere di Nork Marash, su una collina adiacente al centro, cerco di far capire che cerco delle monache, un passante capisce e infine mi lascia davanti al portone di un anonimo edificio.

Sul campanello leggo “Bethlehem House”, suono, entro nel portone e sulla sinistra una scala mi conduce ad un ingresso e a una scarpiera. Un po’ come negli ingressi dei rifugi alpini.

Mi accomodo in attesa, le sorelle sono impegnate in preghiera.

Dopo pochi minuti arriva lei.

E’ sorpresa di vedermi, non pensava che sarei realmente passato.

E’ sicuramente opera della Provvidenza mi fa notare più volte.

Scambiamo qualche parola bevendo un bicchiere d’acqua.

Sono un po’ impacciato, vorrei dire mille cose, ma non riesco a dirle. Mi limito a qualche accenno al mio viaggio e a chiederle qualcosa sulla sua storia. Vorrei ringraziarla per quello che fa. Non solo per i bimbi di Yerevan, ma per tutta l’umanità. Persone come sorella Chiara fanno bene al mondo, danno la speranza che il bene esista ancora, che il male non ci travolgerà.

Alla fine non dico nulla di tutto ciò, la ringrazio e basta.

Spero capisca anche se mi rendo conto che non ha bisogno della mia comprensione per andare avanti a fare quello che fa.

Mi accompagna a fare un giro per la casa dopo aver sostato per qualche istante in silenzio nella Cappella.

Mi fa posare le scarpe e mi da un paio di ciabatte dalla scarpiera dell’entrata. Capirò poi che non è solo un luogo di animazione per bambini ma una specie di ospedale, si entra dunque con scarpe pulite.

La casa accoglie bimbi rifiutati dai genitori, bimbi che hanno gravi handicap e a volte scarsa possibilità di sopravvivenza. I genitori non li accettano, li abbandonano negli ospedali.

La casa si sviluppa su due piani. Al piano terra ci sono i bambini più grandi (5-6 anni), al primo i più piccoli e i più gravi.

Su una parete le foto degli angeli, i bimbi che non ce l’hanno fatta.

Mi dice sorella Chiara che in questo momento non ci sono bimbi gravissimi. Per fortuna, penso io. Già questi mi lasciano senza parole.

Torniamo giù passando per il cortile, un’area tenuta in ordine da volontari, anche italiani, che vengono qui tutti gli anni.

Sono un po’ turbato ma felice.

Il libro che leggevo aveva messo in cattiva luce l’operato delle Suore di Madre Teresa durante il terremoto. Sembrava che a Spitak dispensassero solo medagliette e preghiere.

Qui invece vedo che danno speranza.

E soprattutto non a parole, ma con i fatti.

Ci salutiamo, mi dona due medagliette, una per me e una per Vanessa.

Esco da quest’oasi di umanità e mi rituffo nel caldo del pomeriggio armeno.

Felice di aver realmente finito il mio viaggio.

 

 
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