Creato da giuliosforza il 28/11/2008
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Oggi intendo divertirmi e divertire i miei lettori. E magari scandalizzarne qualcuno, al quale chiedo venia in anticipo.
Nell’opera del nostro amico Filippo Bruno nolano, in…arte Giordano, ricorre molto spesso la figura dell’asino, visto nel doppio aspetto dell’animale stupido caparbio e testardo della favolistica antica e moderna più ovvia e scontata, che ne fa simbolo di “grossezza”, rozzezza, pedanteria, ignoranza; e del suo contrario, che ce lo mostra modello di saggezza, di semplicità, di pazienza, di resistenza, di perseveranza, di forza e, sovente, di sorniona ed ironica vis comica.
Il sonetto-dedica della Cabala del cavallo pegaseo ne riassume tutti i tratti, nel doppio aspetto cui ho sopra accennato, ma nel Candelaio, secondo lo stile di quella commedia ridanciana, volutamente scollacciata e sboccata, che in realtà è un dialogo filosofico ove tutti i temi della denuncia bruniana emergono nella loro picaresca verve, c’è una pagina che voglio condividere con i miei lettori, e con essi riderne, tanto, nella sua oscenità, è istruttiva. Il più nobile degli animali che viene sodomizzato da quello ritenuto il più ridicolo! Leggo in Rowland (op. cit.) che, nel suo breve soggiorno a Genova, Bruno, che non aveva ancora del tutto dismesso l’abito domenicano, fu ospitato nel convento di Santa Maria in Castello dove i frati “esponevano in pubblico la loro reliquia più preziosa, avvolta in un drappo di seta, la coda dell’asino che aveva trasportato Gesù a Gerusalemme nella prima domenica delle Palme”. Probabilmente l’Errante dovette tener presente quell’ostensione nello scrivere la pagina del Candelaio che qui si riporta.
“Era un tempo che il leone e l’asino erano compagni; ed andando insieme in peregrinaggio, convennero che, al passar de’ fiumi, si tranassero a vicenda: com’è dire che una volta l’asino portasse sopra il leone, ed un’altra volta il leone portasse l’asino. Avendono, dunque, ad andare a Roma, e, non essendo a lor serviggio né scafa né ponte, gionti al fiume Garigliano, l’asino si tolse il leone sopra: il quale natando verso l’altra riva, il leon, per tema di cascare, sempre più e più gli piantava l’unghie nella pelle, di sorta che a quel povero animale gli penetrarono in sin nell’ossa. Ed il miserello, come quel che fa professione di pazienza, passò al meglio che poté, senza far motto. Se non che, gionti a salvamento fuor de l’acqua, si scrollò un poco il dorso, e si svoltò la schena tre o quattro volte per l’arena calda, e passaron oltre. Otto giorni dopo, al ritornar che fecero, era il dovero che il leone portasse l’asino. Il quale, essendo di sopra, per non cascar ne l’acqua co i denti afferrò la cervice del leone: e ciò non bastando per tenerlo su, gli cacciò il suo strumento, o, come vogliam dire, il…, tu m’intendi,- per parlar onestamente, al vacuo, sotto la coda, dove manca la pelle: di maniera che il leone sentì maggior angoscia che sentir possa donna che sia nelle pene del parto, gridando: “Olà, olà, oi, oi, oi oimè! Olà, traditore,!”. A cui rispose l’asino, in volto severo e grave tuono: “Pazienza, fratel mio; vedi ch’io non ho altr’unghia che questa d’attaccarmi”. E così fu necessario che il leone soffrisse ed indurasse, sin che fusse passato il fiume. – A proposito. “ Omnia rero vicissitudo este”; e nisciuno è tanto grosso asino, che qualche volta, venendogli a proposito, non si serva de l’occasione” (Candelaio, atto II, scena IV)
Leggo sempre in Rowland una canzoncina popolare del Cinquecento, riportata qui in italiano. Ne ho cercato senza esito il testo latino, che deve essere divertentissimo, riecheggiando la cadenza del Dies Irae. Si intitola Il Testamento dell’asino, ed anche in esso si fa riferimento alla …sacra coda. I primi due versi fanno da ritornello.
“Oimé, oimè, oimè
asino mio stai per morire, oimè.
Che la curia abbia la mia croce;
Ai cardinali getto le mie orecchie.
La mia coda vada ai frati
Eil mio raglio ai cori.
I predicatori abbiano la mia lingua; invece
Abbiano i giudici la mia testa;
ai facchini date la mia schiena,
le mie zampe agli ambulanti con il loro carico.
Date la mia carne ai digiunanti;
i ciabattini prendano infine la mia pelle:
Date la mia criniera per fare una spazzola,
date ai cani le mie ossa da rompere.
Gli avvoltoi abbiano le mie budella,
le vedove prendano il mio sapete cosa,
e - perché no? – ci infilino anche i miei testicoli.
Così ratificato il testamento
Si accasciò a terra l’asino e morì
Quanto ai pezzi rimasti,
dopo che il farmacista si sia preso le feci,
e i dottori la vescica,
lasciate che decidano i preti”.
Il testo manoscritto è conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana. E poi osate parlare di oscurantismo clericale!
Chàirete Dàimones!
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