Creato da Bibi1742 il 29/07/2009

Genova Nei Ricordi

Ma se ghe pensu...Uno straordinario viaggio alla scoperta della vecchia Genova, quella più sconosciuta.Ricca di leggende,aneddoti,curiosità,segreti,tradizioni e personaggi.Il fascino di luoghi dimenticati per ritrovare la magia delle atmosfere perdute.

De Ferrari

Creuza

acquario

 

 

Lanterna

 deandre_brisotto con scampi

 

 

 

 

 

 Genova-Forte_Sperone

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Proverbi genovesi- con la lettera C

Post n°11 pubblicato il 04 Agosto 2009 da Bibi1742
 
Foto di Bibi1742

  • Ben fæto pe forsa o no vä 'na scorsa
Ben fatto per forza non vale niente

  • Pescoèi de canna, caccioèi da visco e stramoèi
  •  
  • de cristo son i ciu abbelinae co se segge mai visto.
Pescatori con la canna, cacciatori con il vischio e trasmutatori,
 stupidi così non s'è mai visto.
  • Chi no sappa no lappa.
Chi non zappa non mangia la zuppa: chi non lavora non mangia.
  • Chi l'e staeto bruxou da-a menestra cada o sciuscia in ta freida.
Chi si è bruciato con la minestra calda, soffia sulla fredda.
  • Chi veu vedde un cattivo fasse arraggiâ un bon.
Chi vuol vedere un cattivo faccia arrabbiare un buono.
  • Chi no cianze no tetta.
Chi non piange non tetta: chi non si lamenta non ottiene niente.

 
 
 

Proverbi genovesi

Post n°10 pubblicato il 04 Agosto 2009 da Bibi1742
 
Foto di Bibi1742

  • A barba canua, a fantinetta a ghe sta dua.
A chi ha la barba bianca, la fanciulla sta in guardia.[1]
  • A quæ de sposâ a l'è comme quella de cagâ, quande a ven bezeugna andâ..
La voglia di sposarci e come quella di defecare, quando arriva, bisogna andare..
  • A moæ di belinoin a l'é de lungo gräia.
  • La mamma degli imbecilli è sempre incinta.
  • A mëgio mëxinn-a a l'è o decotto de cantinn-a.
La miglior medicina è il "decotto" di cantina.
  • Arvî cioî cioî
Aprile piovere piovere.
  • A Bella de Turiggia che tutti voean e nisciun a piggia.

La bella di Torriglia che tutti la vogliono ma nessuno la prende

 
 
 

Proverbi liguri

Post n°9 pubblicato il 03 Agosto 2009 da Bibi1742
 
Foto di Bibi1742

  • A bellezza a no fâ boggî a pûgnatta.
La bellezza non fa bollire la pentola.
Nella vita la bellezza non basta.
  • A fin do ratto a l'è d'èse mangiòu da-o gatto.
La fine del topo è di essere mangiato dal gatto.
Il più forte prevale sul più piccolo.
  • A o contadin l'è pëgio sûnnaghe o corno che o violin.
A il contadino è uguale suonargli il corno che il violino.
Un ignorante non capisce la differenza tra il corno e il violino.
  • A salûte senza dinœ a l'è unn-a mëza malattïa.
La salute senza soldi è una mezza malattia.
I soldi non saranno tutto, ma certo aiutano.
  • A unn-a donna ben maiä sciûga fito o sêo bugâ.
A una donna ben sposata asciuga presto il suo bucato.
Un buon matrimonio fa andare bene tutto.
  • A veddieiva un orbo.
La vedrebbe un orbo.
Una cosa palese è vista da tutti.
  • Aggiûtta i tô e i atri se ti pêu.
Aiuta i tuoi e gli altri se puoi.
È meglio aiutare prima i propri parenti e poi gli altri.
  • Andâ cö vento in poppa.
Andare con il vento in poppa.
Avere successo.
  • Andâ pe-i so venti.
Andare per i suoi venti.
Andare per i fatti propi.
  • Avèi ciû corna che cavelli.
Avere più corna che capelli.
Per indicare una persona tradita.
  • Avèi o verme scimonin addosso.
Avere il verme scimonino addosso.
Indica un bambino irrequieto.
  • Aveine e stacche pinn-e.
Averne le tasche piene.
Essere stanco di qualche cosa.

Da wikipedia

 
 
 

Proverbi genove: La bella di torriglia

Post n°8 pubblicato il 03 Agosto 2009 da Bibi1742
 
Foto di Bibi1742

La Bella di Torriglia è una figura leggendaria e popolare legata

 alla cittadina di Torriglia, in provincia di Genova. Secondo un'antica

 filastrocca, è colei che tutti vogliono, ma nessuno piglia (in dialetto genovese: A Bella

 de Torriggia: tutti a vêuan, nisciûn a piggia). La locuzione è divenuta

 un modo comune per indicare qualcosa di molto ambito solo in apparenza.

La maggiore pretendente a questo titolo è forse Rosa Garaventa

(nata a Torriglia in data sconosciuta e morta nel 1868),

 un cui ritratto venne pubblicato sul periodico umoristico-letterario Farfalla.

La veridicità della leggenda che vuole Rosa Garaventa essere stata

la Bella di Torriglia, viene messa in discussione da altre di segno opposto,

 di cui una risalente al XVI secolo, secondo la quale la vera Bella di Torriglia

 sarebbe stata tale Clementina, amante di Sinibaldo Fieschi, Signore di Torriglia,

 oggi comune in provincia di Genova.

Per il Fieschi, Principe di Borgo Val di Taro dal 1520 al 1532, venne coniato appositamente un Testone d'argento di sette grammi.

Clementina - si dice - gli rimase fedele tutta la vita pur se la relazione venne interrotta dall'esilio genovese della famiglia Fieschi.

Ma a Rosa Garaventa e alla misteriosa Clementina, altre fonti, oppongono

una terza pretendente al ruolo di Bella di Torriglia: sulla facciata di una

casa del comune ligure vi è un bel ritratto di fantasia, a piena figura,

 opera del pittore locale Pietro Lumachi, che raffigura tale Maria Traverso, morta nel

 1886, altra possibile Bella torrigliese.

A Torriglia viene anche preparata, dall'unica pasticceria del paese,

una tipica torta, composta da pasta frolla e impasto di mandorle,

che porta il nome di Bella di Torriglia.

dA WIKIPEDIA

 
 
 

Scioglilingua in dialetto genovese

Post n°7 pubblicato il 02 Agosto 2009 da Bibi1742
 
Foto di Bibi1742

  • A-o meu neuo gh'é neue nae neue: a ciù neua de neue nae neue a n'eu anâ;
  • il tipico uso delle vocali viene magistralmente esemplificato da questo stornello: "Al molo nuovo ci sono nove navi nuove e la più nuova, delle nove navi nuove, non vuole andare".
  • Sò asæ s'a sâ a sâ asæ pe sâ a sâsissa = "Non so se il sale basterà per salare la salsiccia".
  • Scià scie scignoa, sciando scià xeua 'n scî sci = "Scii, signora, sciando vola sugli sci".
  • G'àngiei gh'àn gi'euggi e gi'oege e gi'unge cómme gi'atri? =

     Gli angeli hanno occhi orecchie ed unghie come gli altri?" (variante tipica del comune di Cogorno).

  •  
     
     

    Frittelle Di Baccalà ( Friscieu de bacallè)

    Post n°6 pubblicato il 01 Agosto 2009 da Bibi1742
     
    Foto di Bibi1742

    Un piatto caratteristico della cucina tradizionale genovese

     sono le frittelle di baccalà, in dialetto detti "bacallè friti" o

     "friscieu de bacallè".

    Il baccalà è entrato nella gastronomia genovese a seguito dei ricchi

     e intensi scambi commerciali marittimi con il nord Europa.


    Fra le varie preparazioni questa è la più semplice che ancora oggi

    possiamo trovare in gastronomia come piatto"svelto".

    Occorrente:

     200 gr circa fi farina 00

    un bicchiere di vino bianco

    uno di acqua minerale gassata

    400 gr.circa di baccalà bagnato

    olio extravergine

    sale

    Il baccalà va lasciato in acqua corrente per almeno 48 ore.

    In una terrina amalgamatee la farina  con il vino bianco e l'acqua

     con una frusta per ottenere un impasto più denso che liquido.

    Togliete le pelle ai baccalà, tagliateli a filetti o a pezzetti, quindi immergeteli

     nella pastella dopo averla lasciata riposare circa due ore.

     Fate scaldare per bene abbondante olio di oliva extra vergine in padella capiente

     e quando sarà ben caldo immergetivi i pezzi di baccalà nella pastella servendovi di

    un mestolino.

    Quando saranno belli croccanti sistemateli su un vassoio con della carta assorbente

     per eliminare l'eccesso di unto.

    Servire caldi accompagnati da un buon vinello bianco secco.

     
     
     

    Modi Di Dire In Genovese

    Post n°5 pubblicato il 01 Agosto 2009 da Bibi1742
     
    Foto di Bibi1742

    Son zeneize, riso ræo, strenzo i denti e parlo ciæo = Sono genovese,
    rido raramente, stringo i denti e parlo chiaramente.
    Al bambino che si lamenta Gh'ò famme, facilmente
     la mamma risponde: Gràttite e zenogge e fatte e lasagne = "grattati le ginocchia
    e fatti le lasagne".
    D'altronde è noto anche ai bambini di ogni età che Chi no cianze, no tetta,
     ossia "chi non piange, non viene alimentato dalla mamma".
    Pòscito-êse alughetòu = Possa tu essere riposto,
    allogato per un po': alughetâ è il frequentativo del verbo alugâ
     (in italiano riporre, allogare) e l'uso del frequentativo è appropriato
    dato che la frase si diceva ai bambini vivaci: che potessero appunto
     essere riposti per un po' (di qui il frequentativo del verbo).
     Esistono alcune varianti:
     pòscito moî òrbo = "possa tu morire orbo"; pòscito ëse ammassòu! = "possa tu esser ammazzato".
    Chi veu vive da bon crestian, da-i beghin o stagghe lontàn = Antico proverbio che mette in guardia da fanatici ed ipocriti: "Chi vuole vivere da buon cristiano, dai beghini" (i falsi devoti) "stia lontano".
    A sfortunn-a a l'é 'n grifon, ch'o gïa in gïo a-a testa do belinon = Saggezza popolare che riflette il carattere risoluto ed alcuni simboli e luoghi comuni propri del popolo genovese: "La sfortuna è un grifone che gira intorno alla testa dello stupido".
     
    Citazione utilizzata anche da Fabrizio De André nella canzone Sinàn Capodàn Pascià dell'album Crêuza de mâ.
    Sciusciâ e sciorbî no se peu = Detto quasi esclusivamente ligure, significa "Soffiare e aspirare non si può". Non si può pretendere di fare una cosa e il suo contrario; occorre fare una scelta e sapersi accontentare.
    L'é megio avei e braghe sguaræ 'nto cù che o cù sguaròu'nte brâghe = "è meglio avere i pantaloni rotti nel sedere, che il sedere rotto nei i pantaloni".
    Da wikipedia

     
     
     

    Ma se ghe pensu

    Post n°4 pubblicato il 31 Luglio 2009 da Bibi1742
     
    Foto di Bibi1742

    Ma se ghe pensu (Ma se ci penso in italiano) è una canzone

    in dialetto genovese,


    che è diventata ormai simbolo della musica


    e della presenza di Genova nel mondo.

    In tempi recenti è stato eseguito da diversi cantanti,

    fra cui Mina nel 1967. Nel 2007 è stata incisa anche da

     Antonella Ruggiero,


    che già la cantò nel capoluogo ligure il 26 luglio 2004

     in occasione


    della manifestazione canora Just Like a Woman


    registrata nell'album Stralunato Recital Live.

     
    La canzone fu lanciata in un primo momento con il titolo Se ghe penso,

    senza la congiunzione iniziale "Ma",


    che non si sa bene quando e da chi sia stata aggiunta

    in un secondo momento.

    La paternità della canzone è invece sicuramente attribuibile

     a Mario Cappello

    (tanto per i versi quanto per la musica)

     mentre Attilio Margutti collaborò soltanto alla stesura musicale.

    L'anno di nascita del brano fu il 1925.

     
    La prima interpretazione del brano fu quella

     del soprano Luisa Rondolotti,

     che lo cantò al Teatro Orfeo, una sala genovese che oggi non esiste più.

    Erano gli anni in cui nasceva la canzone dialettale genovese derivazione

    degli antichi trallallero,

    e che sarebbe poi sfociata in un certo senso nella scuola dei cantautori genovesi

    passando prima attraverso lo swing dell'immediato dopoguerra di Natalino Otto

    e il gruppo degli urlatori anni sessanta di cui faceva parte il cantante con

     il saltino: Joe Sentieri.


     
    La canzone narra la storia di un genovese costretto

     a emigrare in America Latina

     
    in cerca di fortuna, ma ripensando alla bellezza

    della sua città e sopraffatto


    dalla nostalgia per essa, decide di ritornare.

    La canzone apre e chiude con il riferimento alla povertà

    del protagonista,


    che dopo essere partito senza un soldo

    (sensa ûn-a palanca),

    torna trent'anni
    dopo a Genova lasciando tutto quello che aveva guadagnato in America

     
    pur di rivedere la sua terra (E sensa tante cöse o l'è partïo)

    Non gli importa che il figlio preferisca rimanere: lui partirà in un viaggio

     a ritroso


    (nel tempo e nello spazio) per formare di nuovo il suo nido a Genova.

     
    Questa canzone è testimone dell'attaccamento dei genovesi

    verso la loro città e

    (finalmente) sfata il mito della loro avarizia,

    riconoscendo loro valori

    più alti di quelli materiali: ad un'iniziale bramosia di benessere


    (Aveva lottato per risparmiare e farsi la palazzina e il giardinetto),

     pian piano la nostalgia gli attanaglia il cuore.


     Testo


    « U l'ëa partiu sensa ûn-a palanca,
    l'ëa zà trent'anni, forse anche ciû.
    U l'aia luttou pe mette i dinæ a-a banca
    e poèisene ancun ûn giurnu turna in zû
    e fäse a palassinn-a e o giardinettu,
    cu-o rampicante, cu-a cantinn-a e o vin,
    a branda attaccâ a-i ærboui, a ûsu lettu,
    pe daghe 'na schenâ séia e mattin.
    Ma u figgiu ghe dixeiva: "Nu ghe pensâ
    a Zena cöse ti ghe vêu turnâ?!"


    Ma se ghe pensu allua mi veddu u mâ,
    veddu i mæ munti e a ciassa da Nunsiâ,
    riveddu u Righi e me s'astrenze o chêu,
    veddu a lanterna, a cava, lazzû o mêu...
    Riveddu a séia Zena illûminâ,
    veddu là a Föxe e sentu franze o mâ
    e allua mi pensu ancun de riturnâ
    a pösâ e osse duve'òu mæ madunnâ.

    U l'ëa passou du tempu, forse troppu,
    u figgiu u ghe disceiva: "Stemmu ben,
    duve ti vêu andâ, papá?.. pensiemmu doppu,
    u viäggio, u má, t'é vëgio, nu cunven!"
    "Oh nu, oh nu! me sentu ancun in gamba,
    son stûffu e nu ne possu pròpriu ciû,
    son stancu de sentî señor caramba,
    mi vêuggiu ritornamene ancun in zû...
    Ti t'ê nasciûo e t'æ parlou spagnollu,
    mi son nasciûo zeneize e... nu ghe mollu!"

    Ma se ghe penso allua mi veddo u mâ,
    veddu i mæ monti e a ciassa da Nunsiâ,
    riveddu u Righi e me s'astrenze u chêu,
    veddu a lanterna, a cava e lazzû o mêu...
    Riveddo a séia Zena illûminâ,
    veddo là a Föxe e sento franze u mâ,
    allua mi pensu ancun de riturnâ
    a pösâ e osse dove'òu mæ madunnâ.

    E sensa tante cöse u l'è partïu
    e a Zena u gh'à furmóu turna u so nïu. » (IT)
    « Era partito senza un soldo,
    erano già trent'anni, forse anche più.
    Aveva lottato per risparmiare
    e potersene un giorno tornare giù
    e farsi la palazzina e il giardinetto,
    con il rampicante, con la cantina e il vino,
    la branda attaccata agli alberi a uso letto,
    per coricarcisi sera e mattina.
    ma il figlio gli diceva: "Non ci pensare
    a Genova cosa ci vuoi tornare?!"

     TRADUZIONE:


    Ma se ci penso allora io vedo il mare,
    vedo i miei monti e piazza della Nunziata,
    rivedo il Righi e mi si stringe il cuore,
    vedo la lanterna, la cava, laggiù il molo...
    Rivedo la sera Genova illuminata,
    vedo là la Foce e sento frangere il mare
    e allora io penso ancora di ritornare
    a posare le ossa dov'è mia nonna.

    Ed era passato del tempo, forse troppo,
    il figlio insisteva: "Stiamo bene,
    dove vuoi andare, papà?.. penseremo dopo,
    il viaggio, il mare, sei vecchio, non conviene!"
    "Oh no, oh no! mi sento ancora in gamba,
    sono stufo e non ne posso proprio più,
    sono stanco di sentire señor carramba,
    io voglio ritornarmene ancora in giù...
    Tu sei nato e hai parlato spagnolo,
    io sono nato genovese e... non ci mollo!"

    Ma se ci penso allora io vedo il mare,
    vedo i miei monti e piazza della Nunziata,
    rivedo Righi e mi si stringe il cuore,
    vedo la lanterna, la cava, laggiù il molo...
    Rivedo la sera Genova illuminata,
    vedo là la Foce e sento frangere il mare,
    e allora io penso ancora di ritornare
    a posare le ossa dov'è la mia nonna.

    E senza tante cose è partito
    e a Genova ha formato di nuovo il suo nido.  »
     


     
     
     

    La farinata

    Post n°3 pubblicato il 31 Luglio 2009 da Bibi1742
     
    Foto di Bibi1742

    La Farinata "Fainà de seixai".

    Già nel XV secolo fu emesso a Genova un decreto per

    disciplinare la produzione della "SCRIPILITA" come allora

    era chiamata la farinata di ceci.

    Quando questo cibo nacque la farina di grano era un gran lusso,

    ancora oggi tuttavia è un piatto molto apprezzato e continua a troneggiare..

    Dorata...

    Fumante...

    Appetitosa...

    Nei grandi testi di rame

    Ricetta base per la farinata.

    300 gr.di farina di ceci

    olio extra vergine -1 bicchiere circa

    sale

    pepe(a piacere)

    Preparazione:

    Stemperate la farina di ceci in una terrina con acqua fino

     ad ottenere una pastella molto liquida.

    Per evitare grumi usate una frusta.

    Aggingete sale q.b.e lasciate riposare per 4-5 ore.

    Ogni tanto rimestate con un mestolo.

    Versate poi il composto in una teglia capace e bassa in rame

    amalgamate il tutto un'altra volta per distribuire bene l'olio.

    Mettete la teglia in forno(dovrebbe essere un forno a legna)

    a fiamma alta fino a che non si sarà formata in superfice  una

    crosticina dorata.Se volete potete aggiungere una macinata di pepe nero.

    Va servita calda e croccante.

     

    Questa è la ricetta base per la farinata classica, possiamo avere delle varianti

    aggiungendo dei bianchetti o cipolline tritate finemente.

     

    A questo punto non mi resta che augurarvi

    Buon Appetito!!!

     
     
     

    La Crosa (Creuza)

    Post n°2 pubblicato il 30 Luglio 2009 da Bibi1742
     
    Foto di Bibi1742

    La crêuza è un termine della lingua ligure spesso italianizzato in crosa.

     Viene fatto derivare, come l'aggettivo francese creux/creuse, dal

     Creuza

    new,courier,monospace">latino crŏsus,

     a sua volta di origine celtica, e definisce il tipico stretto viottolo 

    o mulattiera che fende, spesso verticalmente, le colline del Genovesato 

    e di tutta la Liguria.

    La crêuza', tipica struttura viaria suburbana, ha precise caratteristiche:

     la principale è quella di percorrere le colline se possibile sul crinale e

     spesso con la massima pendenza, piuttosto che negli avvallamenti,

    ciò è voluto a minimizzare l'impatto di compluvio della pioggia,

    limitando le opere relative;

     essendo soleggiata è inoltre evitata, o limitata, la permanenza di umidità neve

    e ghiaccio che negli avvallamenti possono permanere ed essere molto pericolosi,

     data la possibilità climatica della regione di avere repentini passaggi

     dal caldo al freddo in poco tempo, in caso di passaggio del vento ai quadranti

    settentrionali. È quindi privilegiata la conservazione della percorribilità in ogni

     condizione piuttosto che facilità di percorso.

    La pavimentazione tipicamente è data da mattoni al centro e ciottoli tondi ai lati,

     il profilo è decisamente convesso per il drenaggio laterale,

    anche del pericolosissimo ghiaccio incastrato tra i mattoni;

    può essere articolata in lunghi e bassi gradoni, definiti da blocchetti in pietra,

     nei tratti a maggior pendenza. Le crêuze, così come le coltivazioni a terrazza

     (le cosiddette fasce) caratterizzano il paesaggio di tutta la Liguria, sia quelle

    che si affaccia sul mare, più conosciuto e pubblicizzato, sia quello dell'entroterra,

     meno famoso ma non per questo meno caratteristico e bello, spesso cantato da

     famosi poeti, come Eugenio Montale, Camillo Sbarbaro e Dino Campana.

    In lingua genovese il termine di crêuza ha preso anche il significato figurato per

     “strada” o “percorso”. Così anche un fenomeno meteorologico, ben visibile dalle

     colline costiere, che si realizza sul mare, con mare calmo e vortici di vento sulla

     superficie. La superficie del mare appare brillante per il riflesso del sole, ma è

     percorsa da strisce scure, curve e contorte, prodotte dal diverso increspamento

    della superficie, quasi a segnare fantastici percorsi che si aprono per quella che è da

     sempre stata la via privilegiata ed a volte obbligata dei liguri, il mare aperto.

    Si dice quindi “u ma u fa e crêuze” cioè “ il mare fa le strade, i viottoli”, segna un

    percorso.

     
     
     

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