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A Roma, alle ore 15 e 52 del 23 marzo 1944 passarono cantando puntualmente come ogni giorno “Hupf meine Model, Salta ragazza mia” i riservisti altoatesini del Battaglione Bozen, aggregato al Polizei Regiment della Wehrmacht. Trentatre di essi vennero fatti letteralmente a pezzi da un’esplosione dinamitarda. Fra i morti, una salma a lungo nascosta, quella di un bambino di 13 anni, tagliato in due dalla deflagrazione. Inoltre, due altre persone furono estratte dal cumulo delle vittime, alle quali dopo molto tempo vennero dati un nome e una qualifica: si tratta di Antonio Chiaretti e Enrico Pascucci, entrambi appartenenti al gruppo clandestino politico militare anticomunista denominato Bandiera Rossa. Si accertô che erano state vittime di un tranello, attirate sul posto e a quell’ora da altri militanti antifascisti. L’orrendo massacro avvenne in via Rasella, che sbuca nella centralissima Piazza del Tritone. La reazione efferata, purtroppo prevedibile in una capitale dichiarata “città aperta”, inchioda barbaramente “l’atto di guerra” di via Rasella, come tale definito nell’anno 2001 dalla Suprema Corte di Cassazione della Repubblica, nell’oscuro ipogeo delle Fosse Ardeatine. Vi vennero fucilati 335 cittadini italiani da parte dei reparti agli ordini del colonnello nazionalsocialista Kappler, il 24 marzo.
Scorrere i loro nomi è utile: circa 30 appartengono al Centro militare clandestino di tendenze monarchiche guidato dal colonnello Giuseppe Cordero di Montezemolo del Comando supremo italiano; 52 appartengono al Partito d’Azione e alle formazioni di Giustizia e Libertà; 75 sono artigiani, commercianti e intellettuali di religione ebraica; 68 militavano in Bandiera Rossa. Nessuno apparteneva al Partito comunista italiano, che pure contava a Roma di un forte apparato militare e di consistenti complicità coperte. Molti militanti e confidenti erano stati già arrestati, indiziati e, alcuni, tristemente perseguitati. Nessun comunista si trovò in carcere a Regina Coeli o nel luogo di detenzione esattamente in quel giorni della strage e della rappresaglia. Vi si trovarono invece tutte persone che il Pci considerava nemici esecrandi, da mettere fuori combattimento: comunque. Soprattutto sono considerati nemici giurati gli appartenenti a Bandiera Rossa. Essi sono valutati, senza mezzi termini, puramente “trotzkisti”: i peggiori avversari di Stalin. Leone Trotzkji, ebreo, fondatore dell’Esercito rosso, era stato, infatti, prima condannato, poi esiliato, braccato in tutto il mondo dalla polizia sovietica, per essere assassinato a Città del Messico da un esecutore di origine italo-spagnola, nel 1940, dopo una spietata caccia durata vent’anni. Dopo la guerra civile spagnola del 1936-38, nella Roma di quegli anni feroci, continuava il massacro. L’apparato comunista organizzò e seppe cogliere l’occasione di via Rasella e le sue conseguenze.
L’attentato venne escogitato, pensato e previsto dai membri comunisti della rete romana: Giorgio Amendola, che ne è il più alto in grado, Mauro Scoccimarro, Antonio Cicalini, di sicura scuola moscovita, oltre a minori ma preziosi collaboratori, infiltrati, delatori, confidenti nelle organizzazioni fasciste, nelle istituzioni carcerarie, nei presidi sanitari e polizieschi del fascismo. Amendola propose il luogo, l’ora e le modalità dello scoppio di via Rasella. Gli altri uomini d’azione, responsabili di settore e sopraflutto del Gap, il sistema terroristico facente capo al Pci, cioè Gruppi d’Azione Patriottica, perfezionarono e operarono il resto. Nel suo volume Lettere a Milano, al quale andò come onorificenza il premio Viareggio per la saggistica del 1974, Amendola rivelò che era stata sua l’iniziativa della designazione del luogo e del reparto tedesco da attaccare. Egli ne parla espressamente nelle pagine 290 e 291. Una volta messo in pratica l’attentato in via Rasella, si trattava di compilare, mercanteggiare, correggere e definite le liste del fucilandi per il comando della Wermacht che le aveva sollecitamente chieste. Furono allora mobilitati tutti gli addetti ai rapporti di intelligence mantenuti dalla Federazione del Pci con la Direzione di Regina Coeli, la Questura di Roma, la divisione della polizia politica del Ministero italiano degli interni, l’Opera Volontaria di Repressione Antifascista (OVRA), tutto il sistema spionistico esistente a Roma. Il teste principale di questo turpe mercato venne opportunamente liquidato a tempo debito. Donato Carretta, direttore di Regina Coeli, venne linciato tra l’aula del Palazzaccio, le scale di Ponte Umberto e le onde del Tevere alle 9 di mattina del 18 settembre 1944. Gli altri collaboratori furono l’ex comunista Guglielmo Blasi, divenuto informatore della polizia militare tedesca, il tipografo autodidatta Giulio Rivabene, di cui Amendola puntualmente scrive nel suo libro nello spazio dedicato a militanti corrotti. Nel numero 7 del gennaio 1944 de l’Unità, la direttiva era stata tempestivamente data: «Si invitano i compagni a smascherare e colpire gli agenti trotzkisti, ossia di Bandiera Rossa, nel Partito, nel Sindacato, nelle formazioni armate, ovunque essi si annidano». Nel giornale clandestino milanese del dicembre 1943, La nostra lotta, Pietro Secchia aveva dato il via al circuito malsano di informatori, gestori, operatori dell’infame reperimento dei fucilandi della “strage cercata” di via Rasella.
“L’attentato che provocò quella carneficina fu voluto per un solo scopo. A Roma ormai le formazioni della Resistenza che non riconoscevano il Cln avevano la maggioranza. Ed erano a buon punto le trattative avviate dalla federazione Repubblicana Sociale con Kappler perché i tedeschi lasciassero Roma senza spargimenti dl sangue. Ma nel voler far fallire questo accordo c’era un interesse del Pci, per fini dl politica interna”. (Roberto Guzzo, fondatore dei gruppi Bandiera Rossa, cit. in Pierangelo Maurizio, Via Rasella, cinquant’anni di menzogne, Maurizio Edizioni, Roma 1996, p. 69).
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