Creato da massimoturtulici il 11/05/2009

LINEE DI FUGA

racconti, evoluzioni, derive e vagabondaggi

 

 

SCUOLA DI LETTURA ORLANDO ESPLORAZIONI

Post n°78 pubblicato il 26 Febbraio 2014 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

Non fatevi rubare il tempo per leggere

Nasce a Roma una scuola di lettura

Che storia è questa? Dopo tante, forse troppe scuole di scrittura, arriva una scuola di lettura. Si può imparare a leggere? Sì, a leggere meglio. A difendere il tempo della lettura. A non temere i grandi classici.

La scuola di lettura, legata alla rivista Orlando Esplorazioni, è pensata come una palestra itinerante: diversi luoghi della città di Roma - librerie, aule universitarie, scuole – ospiteranno “lezioni di lettura” tenute da scrittori, giornalisti, studiosi, librai, editori. Non seguendo la logica della presentazione, del reading o dello show, ma il filo di un percorso di approfondimento. Sarà, appunto, come tornare a scuola: una scuola libera e creativa in cui magari riavvicinare classici che non abbiamo il coraggio di affrontare, tenersi aggiornati sulle novità editoriali al di là dei best-seller del momento, aprire finestre sulle tendenze letterarie internazionali, comprendere le dinamiche del lavoro editoriale e conoscere la prospettiva e i consigli dei librai, ma anche semplicemente sedersi e ascoltare degli “audiolibri viventi” con qualcuno che subito spiega e analizza cosa è stato letto… Un cantiere di formazione letteraria permanente. Andare a scuola di lettura può diventare uno spazio ritagliato ogni settimana, fra il lavoro, la palestra e tutto il resto: per non rinunciare ai libri nella nostra vita.
Per partecipare alla Scuola di Lettura è necessario iscriversi alla Associazione Culturale Orlando (link alla pagina di iscrizione)

http://www.orlandoesplorazioni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=33&Itemid=143

il collegamento al Premio Orlando Esplorazioni

http://www.orlandoesplorazioni.com/index.php?option=com_content&view=article&id=50




 
 
 

Caro Calvino

Post n°77 pubblicato il 14 Ottobre 2013 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

Il 15 Ottobre 2013 Italo Calvino avrebbe compiuto 90 anni.
La Casa delle Letterature e la rivista Orlando Esplorazioni
lo festeggiano con una serie di iniziative che avranno luogo
dal 15 al 25 ottobre. Un percorso espositivo con i lavori
di giovani artisti, illustratori, fotografi ispirati all’universo di Calvino.
Una serata inaugurale con lettura delle domande e dei pensieri
che scrittori e critici italiani hanno indirizzato
a un ipotetico Calvino novantenne.
Un regalo di compleanno: l’intenzione di Casa delle Letterature
di dedicare il suo giardino degli aranci alla memoria di Calvino,
appassionato di agronomia e botanica.

 

 
 
 

Angeli all'Inferno

Post n°76 pubblicato il 25 Luglio 2013 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

 

           Ricordare, mi chiedi ancora di ricordare, davvero ne avrei abbastanza, dei ricordi, delle chiacchierate, delle liti, ne ricordo molte, le bevute che diventavano ubriacature di passione e orgoglio. Tutto tra quei tavoli finiva in lite, non un sorriso che si impigliasse nel momento, non una carezza che s’involasse oltre le lenzuola o la voce che non salisse fino a tonalità urticanti.

            Ricordo un bar del centro, i tavolini presi a calci e le sedie scagliate ovunque con la gente che si allontanava dal pericolo come scarafaggi nell’ombra, al riparo. Una delle tante liti, certo, le scatenavi di proposito sempre ripetendo le solite cose, che la nostra storia era un inferno, che ero una nullità io e tutti i miei sogni di grandezza, che non sapevi che cosa ci stessi a fare con me e non lo capivo nemmeno io che non sapevo nemmeno di averli mai avuti dei sogni di grandezza. E continuavi,  senza  aggiungere una parola gentile, che ero solo un porco sempre pronto a captare le femmine disponibili nel raggio dei miei sensi, di quel pezzo di carne, non lo nominavi mai col suo nome, che avevo tra le gambe e reagiva alle femmine come il bastone di un rabdomante all’acqua. Bell’immagine, ti dissi, quasi lusinghiera. Fu quella frase a farti andare su tutte le furie e quando diventavi così la domanda che sparavi a bruciapelo era sempre la stessa, incongrua, implicita talvolta, più spesso manifesta. “Voglio un bambino, da te certo e da chi se no, sei l’uomo con cui vivo da tre anni, quanto devo aspettare?”

Era diventata una fissazione, non se ne veniva mai del tutto fuori, ogni chiacchiera, ogni uscita, anche quelle con gli amici erano turbate da questo pensiero unico. Ogni decisione che andasse presa, dal dove andare in vacanza o a quale auto comprare, tutto verteva silenziosamente su quel punto, su quel confine che io cercavo di non valicare mai, rimanevo guardingo come un infiltrato in territorio nemico, come un soldato su di un campo minato.

            Non c’era via di uscita, mi guardavi negli occhi aspettando una risposta, io cercavo solo una via di fuga non dal tuo sguardo, ché sarebbe stata un’ammissione di sconfitta, ma proprio dall’argomento che più diventava ostinata richiesta, più in me si scontrava con un sentimento opposto e contrario che mi allontanava da te, almeno il tempo necessario per uscire dallo stallo. E se non ci riuscivo allora era un volteggiare di sedie, piatti, bicchieri e tavolini e parolacce e offese che lasciavano tutti, persone conosciute e non, a bocca aperta. Le altre coppie si guardavano e ci guardavano chiedendosi se un giorno magari anche loro avrebbero fatto la nostra stessa fine, ma all’epoca non credevamo certo di avere fatto una brutta fine, eravamo come dire in corso d’opera, impegnati a cadere, a precipitare, ma con una leggerezza che sfiorava l’eleganza, certo un po’ naif ma tutto sommato intima e sincera.

Per te tutto accadeva con eccessiva velocità, il tempo ti ossessionava come in un conto alla rovescia, ed io capivo che i miei silenzi, la mia elusività non avrebbe portato a nulla di buono. Lo sapevo e sapevo cosa avrei dovuto fare, ma non potevo fare altro che immaginare e addirittura comprenderti se mi avessi trafitto la carne con un coltello fino al cuore, se avessi affondato la lama tanto in profondità per volermi sorprendere, non solo per uccidermi. Allora mi lasciavi a guardare lo specchio accanto ai tavolini e mi dicevi “Per favore, non baciarmi, oppure ogni sorriso mi rotolerà sulle guance e dovrò truccarmi di nuovo”.

 

            Ho passato gli ultimi dieci anni a curare una ferita che non si rimargina, una frattura che non trova ricomposizione, un dissidio che mi ha lasciato orfano di me stesso. Me ne sto qui, in silenzio, da solo, come un appestato, uno contaminato da un ordigno atomico, sì esploso dentro il mio cervello esausto. Dieci anni sono tanti nella vita di un essere umano, e adesso i ricordi, vuoi i ricordi, come se fosse facile dimenticare, come se fosse facile ricordare il male che hai disseminato a fin di bene. Ci vuole coraggio, oppure incoscienza, io ci ho messo la stupidità forse, ma non la cattiveria. Tu, hai chiuso la porta e te ne sei andata con la tua pancia fecondata, con il pieno di sogni e senza dire un gran ché, senza nemmeno dire che eri incinta, ed io dovrei sentirmi in colpa?, non credo, non vedo come, né perché. Tanto più che dieci anni se ne sono andati anche cercando di capire e non solo cercandoti perché convinto che ti fosse capitato qualcosa. Dieci anni sono tanti nella vita di un essere umano, considerata l’esiguità e l’incertezza degli anni a disposizione, parlo di quelli della lucidità, o quantomeno della consapevolezza, dieci anni rappresentano un ampio tratto di vita per qualsiasi essere umano, figurarsi per uno che alla fine aveva  ammesso di amarti in una notte di lampi e promesse.

            Ricordare, mi chiedi ancora di ricordare, adesso che ti ho davanti vorrei solo dimenticare, dimenticare chi sei. Ma soprattutto vorrei sapere cosa sei venuta a fare qui all’inferno, nell’inferno denso e rovente di questa vita mia. Invece sei tu a voler sapere. Certo ho avuto altre donne, come un rabdomante evoluto però il mio bastone ha captato solo farfalle dal volo lieve e leggero sulla mia vita, presenze inconsistenti forse, eppure mi hanno assecondato, qualcuna lo so, l’ho mandata via con le ali un po’ bruciacchiate, ma fa parte del gioco. Qualcuna, meravigliandomi davvero, è addirittura tornata e qualcuna ho lasciato che si riposasse un poco, non è mica facile la strada per l’inferno e tu dovresti saperlo, ma non ho fatto volare più tavolini o sedie e peggio ancora bicchieri.

            Sono andate via tutte, con le buone o le cattive, alla fine è la cosa che so fare meglio, lasciare sulla pelle un piccolo marchio indelebile, indelebile come lo è una sconfitta, come il dolore per una sconfitta specie se inattesa, illusa da un gesto gentile, da una porta riaperta. Fa male il ricordo, ma il futuro senza prospettiva incide ancora più in profondità, scarnifica la vita di senso o come si dice di speranza.

            Qui, lo sai bene anche tu, tra questi tavoli sporchi ed appiccicosi non c’è tempo e spazio per la speranza, lo sai non è gioco praticabile in tutti i campi. Bisogna ammetterlo, gli ultimi dieci anni li ho vissuti a bordo campo, o meglio al margine di me stesso. Sono diventato un abitante della mia periferia, dimenticando e poi dimenticando quale fosse il centro, quali fossero i miei più intimi sentimenti, finanche i pensieri si sono fatti radi e centrifughi, periferici e distratti. Solo il passo necessario e tuttavia malfermo, mi ha guidato, mi ha condotto verso questo infernale presente, lontano da qualsiasi faccia d’angelo che mi potesse distrarre dall’obiettivo primario, distruggere tutto quel che di buono potesse contenere questa mia carcassa d’uomo. E’ stato il prezzo da pagare per l’indipendenza, per non avere voluto vendere l’anima al diavolo, l’ho aggirato, ho trovato una via di fuga, da me stesso e da te che custodivi un segreto, ho trovato una scappatoia, una soluzione alternativa. Mi sono fatto diavolo, feccia, angelo rinnegato, piombato al suolo per sventura, forse, reietto per definizione, per approssimazione continua e pervicace. Me lo avevano detto che sarebbe stato doloroso, ma mai quanto l’avere vissuto una vita non vera, non quella voluta ma nemmeno quella incidentalmente trovata lungo il cammino.

            E tu, insisti, mi chiedi di ricordare. E’ questo il problema, ho speso gli ultimi dieci anni a ricordare, a prolungare i miei passi come sfuggendo su rette che mi proiettavano nel vuoto assoluto del mio orizzonte. Mi chiedi di ricordare, come se fosse sufficiente, e proprio a me che vorrei solo imparare a dimenticare. Non mi consola nemmeno sapere che hai completato il giro, la tua personalissima rivoluzione per ritornare e sprofondare in questo inferno, lo sapevo già che il tuo posto era qui.

            Mi parli addirittura di un figlio che fino a pochi minuti fa non sapevo di avere e non mi basta una fotografia in luogo di un corpo o di un referto medico. A dirla tutta, credo addirittura che la tua insistenza a volermi fare ricordare, cos’altro poi non so, sia strategicamente controproducente al raggiungimento del tuo obiettivo. Perché dovrei voler ricordare quel che per di più non ho mai dimenticato. Ricordare cosa, i baci rubati, le carezze trattenute, le liti e gli sfoghi di rabbia, le notti di sesso? Ricordare, a queste condizioni sa di raggiro, di ricatto morale. Presupporrebbe una incondizionata dose di fiducia nei tuoi confronti. Dovrei crederti ed io non penso di essere in grado di farlo. Qui, lo sai bene anche tu, non si crede a niente, è già tanto se si aprono gli occhi.

                       

il quadro è "I naufraghi dell'amore" - Angelo dall'Oca Bianca

 

 
 
 

Il testimone

Post n°75 pubblicato il 17 Giugno 2013 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

 

Non c’è stato un giorno, un minuto, un’ora in cui l’abbia perso di vista. Sempre da lontano ho studiato le sue abitudini, vergognandomi di spiare. E’ stato necessario. E’ stato vitale. Al punto da non riuscire a fare altro ormai che seguire i suoi passi. Contorti e ripetitivi. Anche sotto questa pioggia che intride l’aria di gocce fini, impalpabili quasi, estenuanti perfino per il cielo da giorni ormai arreso all’acqua che scivola lungo i lampioni, lungo le mura dei palazzi, sulle fiancate delle auto, contro le vetrine dei negozi e dentro il colletto della camicia fino alla schiena.

        Seguo come un segugio, come sordida spia di questa vita altrui di cui, lo ammetto, mi sono appropriato già quando la curiosità ha smosso il primo sguardo. Non ho potuto fare a meno di seguire i passi, di osservare con attenzione le abitudini banali di quest’uomo nascosto. E’ così, per esempio, che dorme. Nell’effimero riparo della sua auto, una Golf verde di venti anni fa, stretto tra i sedili e le buste che dominano lo spazio. Vi si accomoda sereno anche se lo vedo, almeno per i primi minuti, gettare sguardi attorno in cerca di pace e riposo. Glielo concedo, di questi tempi la paura non è un vizio o un’insana reazione, ma non sono io a rappresentare un pericolo, vorrei poterglielo dire che non ho nessun interesse ad ucciderlo. Non saprei che farmene del suo sacrificio, della sua morte prematura. Perché è certo che non possa avere più di cinquantacinque anni, magari offuscati da questa patina che addensa le rughe e ingrigisce la pelle. Mentre osservo al culmine della vergogna e della pena, nei confronti prima di tutto di me stesso, scorgo una donna, il suo sguardo per l’uomo nell’angolo opposto al mio, dove è seduto a bere un caffè in un bar del centro. Perché mi meraviglio, forse sono l’unico a sapere che dietro la maschera si cela un barbone. Ha la barba un po’ lunga, ma non dà l’aria di essere sporco e a stargli vicino non viene la nausea, non puzza di strada, polvere e sudore. Forse, agli occhi di una donna, deve avere ancora del fascino. La donna dai capelli neri gli si avvicina, parlano piano, lei addirittura sorride. Lo invidio. Quant’è che una donna non ride alle mie parole e ai miei sguardi. Molto, troppo tempo. Tutto il tempo che ho ormai dedicato a questo pedinamento come si dice h24. Brutta espressione, ma rende l’idea della mia bassezza morale. Osservo, scruto, annoto, sintetizzo, talvolta scarabocchio disegni, testimonianze, le chiamo anche se so benissimo che non interesseranno mai nessuno. I due si sfiorano, lei gli dà un bacio su di una guancia, lui le stringe una mano tra le sue. Sorridono ancora. Poi, lei con passo lento esce dal locale incurante della pioggia che scivola sul suo cappello.

Le mie mani, penso mentre le guardo storte e filamentose, si aggrappano al piccolo binocolo che riduce la distanza tra me e l’ossessione di scoprire chi sia quest’uomo, questo vagabondo che dorme sotto casa mia da non so più quanto tempo. Le mie mani che accarezzavano corpi, fianchi e seni, che si attardavano lente e pazienti, intense e profonde su di un corpo di cui non ho più memoria, sono rimaste sole, immobili e sterili. L’orrore mi attanaglia, mi ammanetta, mi sento un verme, un animale qualsiasi strisciante nell’ombra di una curiosa e morbosa esistenza. Mi nascondo dicendo che è quella del barbone, ma in realtà è la mia. Banale e volgare, ripetitiva e stantia, grigia ed ingrigita da questo perlame acquoso. La mia vita, la ripetizione continua di una vita che, non fosse per le variazioni climatiche imposte dall’avvicendarsi delle stagioni, sarebbe assolutamente risibile e sopprimibile. Dico bene, non esagero. Per questo mi ostino, giorno dopo giorno, a seguire come ombra, come l’ombra dei suoi passi ignari, quest’uomo che certo alimenta ed esaspera la mia curiosità. E quando qualcuno mi scopre e intuisce se non le ragioni almeno le intenzioni, che io stesso non riuscirei a comprendere nemmeno vincendo la vergogna, striscio lungo i muri, il capo chino, la dignità sotto i piedi. Comunque so che quest’uomo non lavora, lo so con certezza, ma finge e si finge persona ancora occupata dietro gli abiti, pochi ma ancora impeccabili. Segno che un lavoro deve averlo avuto, che un destino diverso deve averlo vissuto. Al termine della recita giornaliera, del giro quotidiano per la città e oltre, quando il buio agevola il mio compito e protegge la sua vita marginale, non torna in un appartamento, si trincera nella sua auto parcheggiata da settimane nel piccolo parcheggio alberato sotto casa mia. Lo vedo, si chiude in macchina, reclina il sedile, se possibile dopo essersi cambiato badando ai pochi passanti confusi nelle macchie di luce gettate dai lampioni, e dorme. Io, insisto nella veglia finché non crollo disfatto dalle fatiche del giorno, dalla stanchezza, dal sonno e di certo anche dalla vergogna. All’inizio pensavo di potere, attraverso un diario, tenere a bada non solo i fatti ed i ricordi, ma anche la mia insana ossessione. Poi ho capito, con lo stesso terrore con cui poco fa ho usato la parola “compito”, che non sarebbe servito a niente. Da allora appunto solo i fatti salienti, eventi significativi di cui sono testimone. Ma di cosa, cos’è che sto spiando, perché è tutto così vitale?

Questa mattina, domenica, ho guardato subito fuori dalla finestra, per avere conferma che non si trattasse di un sogno. La luce era poca ma netta, e limpida l’aria. Non pioveva più, qualche ampio squarcio di un azzurro lapislazzuli rompeva la monocromia delle nubi. Ho avuto un colpo allo stomaco nel vedere il posto libero nel parcheggio. Sono sceso rapidamente in strada cercando con gli occhi e correndo attorno all’isolato come un pazzo, maledicendo me stesso, che razza di testimone! Ho scorto il profilo dei giorni distanti, di tutti quelli trascorsi, non solo degli ultimi e la scia di quelli futuri di cui ho avuto istintivamente paura. Della mia stessa vergogna, della mia impareggiabile pochezza. Ma di lui, del barbone non scorgo traccia. So solo che il mio quartiere era ormai piuttosto lontano ed io procedevo insensatamente nella ricerca. A piedi nella luce di una domenica mattina che rapidamente aveva cambiato faccia, mascherata di nuove nubi, ancora più gonfie, umida e spettrale. La pioggia, ancora la pioggia, sottile ed insistente ed io fermo ad un incrocio indeciso se andare verso uno qualsiasi dei punti cardine di ogni rotta.

Poi l’ho vista la Golf verde. Ho riconosciuto la targa e la sagoma del barbone al volante. Aspettava, il motore acceso, nelle adiacenze di un portone. Da cui, pochi secondi dopo, è uscita la donna dai capelli neri, sollecita e con un borsone da viaggio che ha poggiato sul sedile posteriore. Quindi, sono partiti e mi sono passati vicino, lei seria nel vedermi immobile sotto la pioggia, provando forse un poco di pena per quel passante sconosciuto, lui sembrava ridermi piano guardandomi. Poi, l’auto ha proseguito veloce verso la sopraelevata, troppo veloce per me infisso al suolo, ridicolo testimone.

            Ho camminato tutto il giorno srotolando la strada ai miei piedi, un tappeto mi ha guidato su passi di cui avevo una insolita memoria per farmi entrare in un parco di cui non avevo frammenti. Non piove più ma la terra è infangata, un pantano senza tempo in cui i miei piedi mi muovono a fatica. Malgrado l’ora sia già tarda, ancora e finalmente scende un raggio di sole pomeridiano in questa giornata priva di tempo, e nel controluce del sole basso rimango estasiato, immobile e come me anche il mio amico seduto accanto a me sulla panchina, ad osservare la pioggia di foglie che staccano dai rami degli alberi, lievi come giornate senza futuro, con lentezza, la stessa che accompagna il volo di ogni singola foglia. Mi confondo, non sono più sicuro di averlo visto davvero, ormai somiglia a me stesso, come tutte le facce che incontro, del resto. Mi sembra giusto, sono solo il testimone in movimento, in viaggio verso i margini di un mondo che vedo distante ormai, la mia dimora è questo parco, qui mi rifugio e qui mi puoi trovare, se ti serve, finché il testimone sarà nelle mie mani.

Il quadro è “Seminatore al tramonto” V. Van Gogh, 1888

 

 
 
 

Avvoltoi

Post n°74 pubblicato il 03 Aprile 2013 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

Si è appena svegliato e aprendo gli occhi dimentica di essere in ferie. Guarda la sveglia, la mette a fuoco, per un istante teme che sia tardi. Poi ricorda. Decide che farà colazione al bar. Si lava, si veste in fretta. E’ una giornata strana, il tempo potrebbe cambiare da un momento all’altro. Ordina il suo caffè, si siede a un tavolo appartato, da cui non distingue le parole degli altri. Solo un fittissimo, uniforme ronzio. Getta un’occhiata distratta al giornale, gli sembra di sapere già tutto. Ma quanto sono vecchie queste notizie?. Sfoglia veloce, in cerca delle pagine di cronaca. La tazzina resta sospesa a mezz’aria. In una fotografia gli è sembrato di vedere un volto somigliante al suo. Lo fissa più a fondo, il cuore sembra già impazzito. Legge il titolo, sillaba per sillaba. Riguarda lui. Legge “Quest’uomo è in pericolo. Avvisatelo”.

Si alza terrorizzato scaraventando a terra il tavolo a cui era seduto e tutto quel che sosteneva. Gli altri si voltano verso di lui, ma è solo un istante, nessuno gli dice nulla, nessuno sembra averlo riconosciuto. Ritorna nell’ovattato e ormai opprimente mondo da cui pensava di essere uscito, una volta per tutte. Raccoglie il giornale, lo arrotola e lo mette sottobraccio. Esce senza sapere dove andare, cammina, attraversa la piazza, poi torna indietro, entra nel piccolo giardino comunale. Siede su di un panchina, il respiro affannoso, raccoglie un giornale abbandonato, lo apre e scorge ma in una foto diversa ancora la sua faccia, i capelli spettinati, la barba lunga e le pupille dilatate, in una fotografia che non ricorda di avere mai visto, né chi possa averla scattata.

Perché tutto questo interesse per la sua vita scialba? Di cosa vorrebbero avvisarlo? E soprattutto perché lui?

Respira profondamente, ma non serve a molto, il respiro è ancora più spezzato. Si alza ma fa solo pochi metri. Si accascia sulla panchina successiva mentre accanto gli passa un uomo. Vorrebbe fermarlo ma non ha il coraggio. Vorrebbe chiamarlo, ma vede che l’uomo ha perso il quotidiano. Lui si affretta e lo raccoglie con una curiosità morbosa che lo atterrisce, gli fa tremare le gambe, ma gli impedisce di tornare indietro, lo obbliga a procedere, a sfogliare le pagine e come temuto rivede ancora la sua faccia, la odia ormai. Non vorrebbe ammetterlo, ma non è la sola cosa che non sopporta più di se stesso. Adesso ha un profondo e lancinante dolore che gli perfora la testa da parte a parte, trafigge gli occhi che vedono e scende in profondità dove gli occhi non servono. Bastano solo i ricordi, avvoltoi che girano in tondo, senza fretta, attendono il momento propizio, che la vittima ceda alla fatica, all’affanno a quelle ombre alte che volteggiano minacciose sopra la testa. Legge la didascalia della foto che lo ritrae sorridente in un momento di insolita felicità. Sa benissimo quando gli è accaduto di sorridere in quella maniera, gli capita talmente di rado. Ricorda benissimo cosa lo fece sorridere. Una donna lo guarda uscire dal giardino, poi guarda la prima pagina del giornale, ma non fa a tempo a fermarlo, è troppo veloce, troppo spaventato. Attraversa la strada rischiando di essere investito dal bus, procede con un ansia che cresce di passo in passo, veloce sull’asfalto come se fosse fatto di brace ardente. Vorrebbe che finalmente piovesse, che il clima opprimente e minaccioso si trasformasse in vento, in turbini di nubi, in pioggia scrosciante e rumorosa. Invece ci sono solo queste nuvole giallastre che si addensano e creano una cappa di aria densa e appiccicosa. Insistente, toglie il respiro, ma non è solo l’aria, non solo il caldo. Quelle immagini, tutte le fotografie che non ricorda di avere scattato lo spaventano. Tutte le immagini che lo ritraggono in momenti che pensava di avere vissuto in assoluta solitudine o in profonda intimità, lo lasciano davvero senza respiro. Basta! Vorrebbe gridare, ma non ci riesce, il suo cervello non fa altro che ricordare e tutto rimbalza fragorosamente all’interno della sua testa, tutte queste immagini, questi ricordi minuti, questi frammenti, queste minutissime scaglie che come vetro sondano i ricordi e li risvegliano. Basta!  Continua a camminare, incerto, barcollante, adesso mette davvero paura. A se stesso prima di tutto perché la sua faccia non è più solo sui giornali, ma in ogni volto di uomo che incrocia, anche i bambini non sono altro che lui a varie età e di ogni età ricorda il momento, la ragione di quel transito, di quel passaggio attraverso.

Un tuono scuote l’aria e prende a piovere con fragore, lui si volta come scosso da un altro ricordo sente dire da qualcuno “ma non era l’uomo del giornale?” Troppo tardi lui vola sotto la pioggia, cammina sospinto dalla pioggia, da ogni singola goccia che contiene un ricordo e sono troppi, come i chilometri da camminare per i suoi piedi, i ricordi che deve contenere la sua testa, troppi, non ci stanno tutti, non possono proprio entrarci e poi tutte quelle foto, quei giornali. Qualcuno lo insegue. Scappa, dice a se stesso, si ma a quanti chilometri di distanza è la salvezza? Dov’è di preciso il posto in cui tutti questi ricordi, queste immagini stivate alla rinfusa, finiranno per svanire come vapore nell’aria. Cammina ordina a se stesso, taci e cammina. Talvolta ritorna sui suoi passi ed è li che lo vedo, determinato seguire un filo invisibile, poi sparisce di nuovo alla vista sagoma nera in un orizzonte saturo di luce.

 

 

 
 
 
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