Ricordare, mi chiedi ancora di ricordare, davvero ne avrei abbastanza, dei ricordi, delle chiacchierate, delle liti, ne ricordo molte, le bevute che diventavano ubriacature di passione e orgoglio. Tutto tra quei tavoli finiva in lite, non un sorriso che si impigliasse nel momento, non una carezza che s’involasse oltre le lenzuola o la voce che non salisse fino a tonalità urticanti.
Ricordo un bar del centro, i tavolini presi a calci e le sedie scagliate ovunque con la gente che si allontanava dal pericolo come scarafaggi nell’ombra, al riparo. Una delle tante liti, certo, le scatenavi di proposito sempre ripetendo le solite cose, che la nostra storia era un inferno, che ero una nullità io e tutti i miei sogni di grandezza, che non sapevi che cosa ci stessi a fare con me e non lo capivo nemmeno io che non sapevo nemmeno di averli mai avuti dei sogni di grandezza. E continuavi, senza aggiungere una parola gentile, che ero solo un porco sempre pronto a captare le femmine disponibili nel raggio dei miei sensi, di quel pezzo di carne, non lo nominavi mai col suo nome, che avevo tra le gambe e reagiva alle femmine come il bastone di un rabdomante all’acqua. Bell’immagine, ti dissi, quasi lusinghiera. Fu quella frase a farti andare su tutte le furie e quando diventavi così la domanda che sparavi a bruciapelo era sempre la stessa, incongrua, implicita talvolta, più spesso manifesta. “Voglio un bambino, da te certo e da chi se no, sei l’uomo con cui vivo da tre anni, quanto devo aspettare?”
Era diventata una fissazione, non se ne veniva mai del tutto fuori, ogni chiacchiera, ogni uscita, anche quelle con gli amici erano turbate da questo pensiero unico. Ogni decisione che andasse presa, dal dove andare in vacanza o a quale auto comprare, tutto verteva silenziosamente su quel punto, su quel confine che io cercavo di non valicare mai, rimanevo guardingo come un infiltrato in territorio nemico, come un soldato su di un campo minato.
Non c’era via di uscita, mi guardavi negli occhi aspettando una risposta, io cercavo solo una via di fuga non dal tuo sguardo, ché sarebbe stata un’ammissione di sconfitta, ma proprio dall’argomento che più diventava ostinata richiesta, più in me si scontrava con un sentimento opposto e contrario che mi allontanava da te, almeno il tempo necessario per uscire dallo stallo. E se non ci riuscivo allora era un volteggiare di sedie, piatti, bicchieri e tavolini e parolacce e offese che lasciavano tutti, persone conosciute e non, a bocca aperta. Le altre coppie si guardavano e ci guardavano chiedendosi se un giorno magari anche loro avrebbero fatto la nostra stessa fine, ma all’epoca non credevamo certo di avere fatto una brutta fine, eravamo come dire in corso d’opera, impegnati a cadere, a precipitare, ma con una leggerezza che sfiorava l’eleganza, certo un po’ naif ma tutto sommato intima e sincera.
Per te tutto accadeva con eccessiva velocità, il tempo ti ossessionava come in un conto alla rovescia, ed io capivo che i miei silenzi, la mia elusività non avrebbe portato a nulla di buono. Lo sapevo e sapevo cosa avrei dovuto fare, ma non potevo fare altro che immaginare e addirittura comprenderti se mi avessi trafitto la carne con un coltello fino al cuore, se avessi affondato la lama tanto in profondità per volermi sorprendere, non solo per uccidermi. Allora mi lasciavi a guardare lo specchio accanto ai tavolini e mi dicevi “Per favore, non baciarmi, oppure ogni sorriso mi rotolerà sulle guance e dovrò truccarmi di nuovo”.
Ho passato gli ultimi dieci anni a curare una ferita che non si rimargina, una frattura che non trova ricomposizione, un dissidio che mi ha lasciato orfano di me stesso. Me ne sto qui, in silenzio, da solo, come un appestato, uno contaminato da un ordigno atomico, sì esploso dentro il mio cervello esausto. Dieci anni sono tanti nella vita di un essere umano, e adesso i ricordi, vuoi i ricordi, come se fosse facile dimenticare, come se fosse facile ricordare il male che hai disseminato a fin di bene. Ci vuole coraggio, oppure incoscienza, io ci ho messo la stupidità forse, ma non la cattiveria. Tu, hai chiuso la porta e te ne sei andata con la tua pancia fecondata, con il pieno di sogni e senza dire un gran ché, senza nemmeno dire che eri incinta, ed io dovrei sentirmi in colpa?, non credo, non vedo come, né perché. Tanto più che dieci anni se ne sono andati anche cercando di capire e non solo cercandoti perché convinto che ti fosse capitato qualcosa. Dieci anni sono tanti nella vita di un essere umano, considerata l’esiguità e l’incertezza degli anni a disposizione, parlo di quelli della lucidità, o quantomeno della consapevolezza, dieci anni rappresentano un ampio tratto di vita per qualsiasi essere umano, figurarsi per uno che alla fine aveva ammesso di amarti in una notte di lampi e promesse.
Ricordare, mi chiedi ancora di ricordare, adesso che ti ho davanti vorrei solo dimenticare, dimenticare chi sei. Ma soprattutto vorrei sapere cosa sei venuta a fare qui all’inferno, nell’inferno denso e rovente di questa vita mia. Invece sei tu a voler sapere. Certo ho avuto altre donne, come un rabdomante evoluto però il mio bastone ha captato solo farfalle dal volo lieve e leggero sulla mia vita, presenze inconsistenti forse, eppure mi hanno assecondato, qualcuna lo so, l’ho mandata via con le ali un po’ bruciacchiate, ma fa parte del gioco. Qualcuna, meravigliandomi davvero, è addirittura tornata e qualcuna ho lasciato che si riposasse un poco, non è mica facile la strada per l’inferno e tu dovresti saperlo, ma non ho fatto volare più tavolini o sedie e peggio ancora bicchieri.
Sono andate via tutte, con le buone o le cattive, alla fine è la cosa che so fare meglio, lasciare sulla pelle un piccolo marchio indelebile, indelebile come lo è una sconfitta, come il dolore per una sconfitta specie se inattesa, illusa da un gesto gentile, da una porta riaperta. Fa male il ricordo, ma il futuro senza prospettiva incide ancora più in profondità, scarnifica la vita di senso o come si dice di speranza.
Qui, lo sai bene anche tu, tra questi tavoli sporchi ed appiccicosi non c’è tempo e spazio per la speranza, lo sai non è gioco praticabile in tutti i campi. Bisogna ammetterlo, gli ultimi dieci anni li ho vissuti a bordo campo, o meglio al margine di me stesso. Sono diventato un abitante della mia periferia, dimenticando e poi dimenticando quale fosse il centro, quali fossero i miei più intimi sentimenti, finanche i pensieri si sono fatti radi e centrifughi, periferici e distratti. Solo il passo necessario e tuttavia malfermo, mi ha guidato, mi ha condotto verso questo infernale presente, lontano da qualsiasi faccia d’angelo che mi potesse distrarre dall’obiettivo primario, distruggere tutto quel che di buono potesse contenere questa mia carcassa d’uomo. E’ stato il prezzo da pagare per l’indipendenza, per non avere voluto vendere l’anima al diavolo, l’ho aggirato, ho trovato una via di fuga, da me stesso e da te che custodivi un segreto, ho trovato una scappatoia, una soluzione alternativa. Mi sono fatto diavolo, feccia, angelo rinnegato, piombato al suolo per sventura, forse, reietto per definizione, per approssimazione continua e pervicace. Me lo avevano detto che sarebbe stato doloroso, ma mai quanto l’avere vissuto una vita non vera, non quella voluta ma nemmeno quella incidentalmente trovata lungo il cammino.
E tu, insisti, mi chiedi di ricordare. E’ questo il problema, ho speso gli ultimi dieci anni a ricordare, a prolungare i miei passi come sfuggendo su rette che mi proiettavano nel vuoto assoluto del mio orizzonte. Mi chiedi di ricordare, come se fosse sufficiente, e proprio a me che vorrei solo imparare a dimenticare. Non mi consola nemmeno sapere che hai completato il giro, la tua personalissima rivoluzione per ritornare e sprofondare in questo inferno, lo sapevo già che il tuo posto era qui.
Mi parli addirittura di un figlio che fino a pochi minuti fa non sapevo di avere e non mi basta una fotografia in luogo di un corpo o di un referto medico. A dirla tutta, credo addirittura che la tua insistenza a volermi fare ricordare, cos’altro poi non so, sia strategicamente controproducente al raggiungimento del tuo obiettivo. Perché dovrei voler ricordare quel che per di più non ho mai dimenticato. Ricordare cosa, i baci rubati, le carezze trattenute, le liti e gli sfoghi di rabbia, le notti di sesso? Ricordare, a queste condizioni sa di raggiro, di ricatto morale. Presupporrebbe una incondizionata dose di fiducia nei tuoi confronti. Dovrei crederti ed io non penso di essere in grado di farlo. Qui, lo sai bene anche tu, non si crede a niente, è già tanto se si aprono gli occhi.
il quadro è "I naufraghi dell'amore" - Angelo dall'Oca Bianca
Inviato da: Fracchiared
il 03/03/2012 alle 13:33
Inviato da: Fracchiared
il 25/02/2012 alle 18:46
Inviato da: Fracchia
il 24/02/2012 alle 23:34