Creato da massimoturtulici il 11/05/2009

LINEE DI FUGA

racconti, evoluzioni, derive e vagabondaggi

 

 

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Il testimone

Post n°75 pubblicato il 17 Giugno 2013 da massimoturtulici
 
Foto di massimoturtulici

 

Non c’è stato un giorno, un minuto, un’ora in cui l’abbia perso di vista. Sempre da lontano ho studiato le sue abitudini, vergognandomi di spiare. E’ stato necessario. E’ stato vitale. Al punto da non riuscire a fare altro ormai che seguire i suoi passi. Contorti e ripetitivi. Anche sotto questa pioggia che intride l’aria di gocce fini, impalpabili quasi, estenuanti perfino per il cielo da giorni ormai arreso all’acqua che scivola lungo i lampioni, lungo le mura dei palazzi, sulle fiancate delle auto, contro le vetrine dei negozi e dentro il colletto della camicia fino alla schiena.

        Seguo come un segugio, come sordida spia di questa vita altrui di cui, lo ammetto, mi sono appropriato già quando la curiosità ha smosso il primo sguardo. Non ho potuto fare a meno di seguire i passi, di osservare con attenzione le abitudini banali di quest’uomo nascosto. E’ così, per esempio, che dorme. Nell’effimero riparo della sua auto, una Golf verde di venti anni fa, stretto tra i sedili e le buste che dominano lo spazio. Vi si accomoda sereno anche se lo vedo, almeno per i primi minuti, gettare sguardi attorno in cerca di pace e riposo. Glielo concedo, di questi tempi la paura non è un vizio o un’insana reazione, ma non sono io a rappresentare un pericolo, vorrei poterglielo dire che non ho nessun interesse ad ucciderlo. Non saprei che farmene del suo sacrificio, della sua morte prematura. Perché è certo che non possa avere più di cinquantacinque anni, magari offuscati da questa patina che addensa le rughe e ingrigisce la pelle. Mentre osservo al culmine della vergogna e della pena, nei confronti prima di tutto di me stesso, scorgo una donna, il suo sguardo per l’uomo nell’angolo opposto al mio, dove è seduto a bere un caffè in un bar del centro. Perché mi meraviglio, forse sono l’unico a sapere che dietro la maschera si cela un barbone. Ha la barba un po’ lunga, ma non dà l’aria di essere sporco e a stargli vicino non viene la nausea, non puzza di strada, polvere e sudore. Forse, agli occhi di una donna, deve avere ancora del fascino. La donna dai capelli neri gli si avvicina, parlano piano, lei addirittura sorride. Lo invidio. Quant’è che una donna non ride alle mie parole e ai miei sguardi. Molto, troppo tempo. Tutto il tempo che ho ormai dedicato a questo pedinamento come si dice h24. Brutta espressione, ma rende l’idea della mia bassezza morale. Osservo, scruto, annoto, sintetizzo, talvolta scarabocchio disegni, testimonianze, le chiamo anche se so benissimo che non interesseranno mai nessuno. I due si sfiorano, lei gli dà un bacio su di una guancia, lui le stringe una mano tra le sue. Sorridono ancora. Poi, lei con passo lento esce dal locale incurante della pioggia che scivola sul suo cappello.

Le mie mani, penso mentre le guardo storte e filamentose, si aggrappano al piccolo binocolo che riduce la distanza tra me e l’ossessione di scoprire chi sia quest’uomo, questo vagabondo che dorme sotto casa mia da non so più quanto tempo. Le mie mani che accarezzavano corpi, fianchi e seni, che si attardavano lente e pazienti, intense e profonde su di un corpo di cui non ho più memoria, sono rimaste sole, immobili e sterili. L’orrore mi attanaglia, mi ammanetta, mi sento un verme, un animale qualsiasi strisciante nell’ombra di una curiosa e morbosa esistenza. Mi nascondo dicendo che è quella del barbone, ma in realtà è la mia. Banale e volgare, ripetitiva e stantia, grigia ed ingrigita da questo perlame acquoso. La mia vita, la ripetizione continua di una vita che, non fosse per le variazioni climatiche imposte dall’avvicendarsi delle stagioni, sarebbe assolutamente risibile e sopprimibile. Dico bene, non esagero. Per questo mi ostino, giorno dopo giorno, a seguire come ombra, come l’ombra dei suoi passi ignari, quest’uomo che certo alimenta ed esaspera la mia curiosità. E quando qualcuno mi scopre e intuisce se non le ragioni almeno le intenzioni, che io stesso non riuscirei a comprendere nemmeno vincendo la vergogna, striscio lungo i muri, il capo chino, la dignità sotto i piedi. Comunque so che quest’uomo non lavora, lo so con certezza, ma finge e si finge persona ancora occupata dietro gli abiti, pochi ma ancora impeccabili. Segno che un lavoro deve averlo avuto, che un destino diverso deve averlo vissuto. Al termine della recita giornaliera, del giro quotidiano per la città e oltre, quando il buio agevola il mio compito e protegge la sua vita marginale, non torna in un appartamento, si trincera nella sua auto parcheggiata da settimane nel piccolo parcheggio alberato sotto casa mia. Lo vedo, si chiude in macchina, reclina il sedile, se possibile dopo essersi cambiato badando ai pochi passanti confusi nelle macchie di luce gettate dai lampioni, e dorme. Io, insisto nella veglia finché non crollo disfatto dalle fatiche del giorno, dalla stanchezza, dal sonno e di certo anche dalla vergogna. All’inizio pensavo di potere, attraverso un diario, tenere a bada non solo i fatti ed i ricordi, ma anche la mia insana ossessione. Poi ho capito, con lo stesso terrore con cui poco fa ho usato la parola “compito”, che non sarebbe servito a niente. Da allora appunto solo i fatti salienti, eventi significativi di cui sono testimone. Ma di cosa, cos’è che sto spiando, perché è tutto così vitale?

Questa mattina, domenica, ho guardato subito fuori dalla finestra, per avere conferma che non si trattasse di un sogno. La luce era poca ma netta, e limpida l’aria. Non pioveva più, qualche ampio squarcio di un azzurro lapislazzuli rompeva la monocromia delle nubi. Ho avuto un colpo allo stomaco nel vedere il posto libero nel parcheggio. Sono sceso rapidamente in strada cercando con gli occhi e correndo attorno all’isolato come un pazzo, maledicendo me stesso, che razza di testimone! Ho scorto il profilo dei giorni distanti, di tutti quelli trascorsi, non solo degli ultimi e la scia di quelli futuri di cui ho avuto istintivamente paura. Della mia stessa vergogna, della mia impareggiabile pochezza. Ma di lui, del barbone non scorgo traccia. So solo che il mio quartiere era ormai piuttosto lontano ed io procedevo insensatamente nella ricerca. A piedi nella luce di una domenica mattina che rapidamente aveva cambiato faccia, mascherata di nuove nubi, ancora più gonfie, umida e spettrale. La pioggia, ancora la pioggia, sottile ed insistente ed io fermo ad un incrocio indeciso se andare verso uno qualsiasi dei punti cardine di ogni rotta.

Poi l’ho vista la Golf verde. Ho riconosciuto la targa e la sagoma del barbone al volante. Aspettava, il motore acceso, nelle adiacenze di un portone. Da cui, pochi secondi dopo, è uscita la donna dai capelli neri, sollecita e con un borsone da viaggio che ha poggiato sul sedile posteriore. Quindi, sono partiti e mi sono passati vicino, lei seria nel vedermi immobile sotto la pioggia, provando forse un poco di pena per quel passante sconosciuto, lui sembrava ridermi piano guardandomi. Poi, l’auto ha proseguito veloce verso la sopraelevata, troppo veloce per me infisso al suolo, ridicolo testimone.

            Ho camminato tutto il giorno srotolando la strada ai miei piedi, un tappeto mi ha guidato su passi di cui avevo una insolita memoria per farmi entrare in un parco di cui non avevo frammenti. Non piove più ma la terra è infangata, un pantano senza tempo in cui i miei piedi mi muovono a fatica. Malgrado l’ora sia già tarda, ancora e finalmente scende un raggio di sole pomeridiano in questa giornata priva di tempo, e nel controluce del sole basso rimango estasiato, immobile e come me anche il mio amico seduto accanto a me sulla panchina, ad osservare la pioggia di foglie che staccano dai rami degli alberi, lievi come giornate senza futuro, con lentezza, la stessa che accompagna il volo di ogni singola foglia. Mi confondo, non sono più sicuro di averlo visto davvero, ormai somiglia a me stesso, come tutte le facce che incontro, del resto. Mi sembra giusto, sono solo il testimone in movimento, in viaggio verso i margini di un mondo che vedo distante ormai, la mia dimora è questo parco, qui mi rifugio e qui mi puoi trovare, se ti serve, finché il testimone sarà nelle mie mani.

Il quadro è “Seminatore al tramonto” V. Van Gogh, 1888

 

 
 
 
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