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RACCONTO

Post n°29 pubblicato il 05 Dicembre 2011 da Manutella77

LA PANCHINA DEL TERZO BINARIO

(racconto vincitore del concorso "Versi per l'anima" 2011)

 

Mi guardavo riflessa nel piccolo specchio della cipria, ripassando lentamente il rossetto sulle labbra. Ero così bella, con gli occhi verdi, lucenti.

La panchina sembrava osservarmi con sospetto e ironia, forse domandandosi perché non mi sedevo. Non c’era nessuno lì seduto, perché non mi sedevo io?  Perché non mi ci siedo ora?

Lunghi treni stridono nella stazione grigia. Partono, arrivano, svaniscono nella nebbia con sibili lontani, sempre più lontani.

Un gruppo di anziane signore, allacciate strette nei loro cappotti fuori moda, parlano, parlano senza capire cosa dicono. Le persone sembrano distanti da me, sbiaditi personaggi di un romanzo di cui non faccio parte. Non mi interessano le loro chiacchiere, le preoccupazioni che hanno, tutte le domande che si fanno sulla figlia, la sorella, il suocero di non so chi.

Quando ero giovane avevo capelli lunghissimi e neri e stavo in piedi davanti alla panchina del binario numero tre ad aspettare quel lunghissimo treno pieno di vita.

Scendevano famiglie, bambini, coppie di fidanzati, militari. Scendevano tante persone colorate.

Loro spaccavano il vapore, spaccavano il silenzio. Lui illuminava il mio universo con un semplice sorriso, dolce, infreddolito.

Lunghi treni sbuffavano nella stazione non più grigia. Avevo l’abitudine di arrivare una ventina di minuti in anticipo. Camminavo avanti e indietro per il breve binario sui miei tacchi alti sempre intonati alla borsetta, controllavo l’orologio, l’orizzonte, tendevo l’orecchio al più lieve rumore.

Infine il treno arrivava con il suo clamore, il fracasso dei freni, la voce dell’altoparlante. Le persone si affrettavano, si salutavano, oppure, come me, aspettavano senza muovere un passo.

Lui spiccava tra la folla, alto, spalle larghe, portava un cappotto color cenere con le punte del colletto alzate e una grossa borsa a tracolla. Si avvicinava lentamente con passo deciso.

“Sei sempre più bella”, mi sussurrava sorridendo.

Ora non sono più bella, i miei occhi non brillano, non brillano più. Sono spenti come questa stazione che puzza di vecchio.

Un giorno d’inverno, freddo come questo, lui arrivò e non disse niente, mi fece sedere sulla panchina, serio e triste.

“Devo partire per sei mesi.”

Sei mesi, sei mesi, sei mesi, rimbombavano nella testa, sei mesi.... silenzio.

“Tornerò... mi sposerai?”

Le quattro signore si sono sedute, stanno attaccate una all’altra e riescono ad occupare la lunghezza esatta della panchina. Sembrano stanche pecore che si fanno caldo tra loro in molti modi, con il corpo, con le parole, con le larghe sciarpe fatte a mano.

“Guarda, c’è la matta! Tutti i venerdì viene ad aspettare il fidanzato di trent’anni fa!”

Le ho sentite, sì, le ho sentite, ma non mi importa di loro, non mi importa di nessuno ormai.

“Intercity da Milano in arrivo al terzo binario”.

Finalmente.

Stringo tra le mani il manico della borsetta. Aspetto.

Eccolo, un uomo rabbioso che si fa spazio tra la gente! Sparisce dietro una colonna, riappare, si avvicina, viene verso la nostra panchina, verso di me... non c’è più.  Non c’è più, non c’è più ...

Stordita mi accascio sul marmo. Ho freddo ai piedi e alle mani. Tocco la forma dell’anello che spunta sotto il guanto.

Ho giurato che l’avrei aspettato. Tornerà.

 


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