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Sta per finire anche questa stagione areniana.
Una stagione fatta di parrucche e trucchi surreali, di tragedie liriche consumate su un palco all'aperto, di costumi da preti, toreri e guardie egizie.
Sta per finire e io rimetto le parrucche dei soldati nelle scatole da spedire.
Le calotte degl'eunuchi, i copricapi dei portatori di Radames, i cappelli degli schiavi.
La polvere areniana mi si è attaccata addosso come ogni anno, nella testa ancora l'ultima chiamata all'interfono.
Anche stasera, il solito copione.
Il direttore di scena, la voce che riempie i corridoi, gli arcovoli, camerini e cameroni.
"Manca mezz'ora all'inizio dello spettcolo. In bocca al lupo a tutti".
E ancora: primo segnale, secondo segnale, terzo segnale.
Le luci della sala che si abbassano progressivamente fino al completo spegnimento, il vibrato del gong, il segui persona che accompagna, illuminando il percorso, il direttore d'orchestra al podio per la penultima sera.
E lo spettacolo inizia.
Nel camerino baldi giovani figuranti e meno baldi e meno giovani coristi si alterneranno per il trucco all'orientale e i capelli pettinati secondo modalità opinabili.
Ci saranno le solite voci, la solita euforia da bar sport, il solito alternarsi di complimenti e recriminazioni.
La comparsa che sbaglia l'uscita, che si dimentica la portantina in attrezzeria causa ennessima birra annacquata del bar 37.
Il corista grasso e ripugnante che entra in camerino cantando e raggiunge con rapidità l'effeto sfollamento. Che sia kebab o puro sudore non è dato sapere.
E ancora una sarta che intreccia un turbante, un aiuto regia che sussurra oscenità via radio all'annunciatrice all'interfono.
Macchinisti che trasportano pezzi di un mondo distante attraverso i corridoi affollati di gente in abito da scena, gente in abito da sera, gente in divisa da lavoro.
E mentre Madama Butterfly andrà incontro alla sua personale tragedia, dietro le quinte l'atmosfera sarà quella di un'ennesima chiusura.
Feste nei cameroni, sui gradini degl'arcovoli, spritz bevuti davanti al bar di servizio, seduti sull'ulivo secolare di cavalleria rusticana, sul caretto di pagliacci, su un pezzo di scenografia non ben identificata.
Macchinisti con avvitatori, attrezzisti con tenaglia, truccatrici con pennelli, sarte con aghi, elettricisti con la cuffia, registi con la radio.
E ancora i porta strumenti vestiti di blu che spingono un'arpa passando per l'arco centrale, siparisti che dormono in attesa del cambio d'atto, comparse che giocano a carte truccate da servitori orientali.
E' un meta spettacolo, quello dei corridoi areniani.
Un villaggio che vive per tre mesi all'anno negl'arcovoli di un monumento romano.
L'umanità è varia, molto spesso eventuale.
L'aria che si tocca con le dita è quella di una festa che non si ferma nemmeno quando le luci si alzano e gli artisti vengono chiamati sul palcoscenico per gli applausi.
L'Arena è come un tasso alcolico mantenuto costante per un'estate intera.
E' viscerale, omnicomprensiva.
Sono sei anni che respiro quest'ossigeno modificato.
Da quando, intimorita, camminavo tra gli arcovoli a testa bassa ed evitavo di passare davanti ai cameroni degl'uomini per paura del testosterone.
Da quando truccavo e arrossivo per la vicinanza estrema con un ennesimo sconosciuto dall'inclinazione artistica.
Adesso non arrossisco, la testa è alta, la battuta sempre tra i denti in attesa della prossima strategia difensiva.
Adesso sono cresciuta, ma il delirio areniano mi scorre un po' come se non l'avessi mai assaggiato prima.
E quando anche l'ultima parrucca sarà stata imballata, l'ultimo pennello pulito nella trielina, ripenserò già con nostaligia a questi tre mesi da addetta ai lavori di un mondo surreale.
Mi mancherà il disgustoso spritz bevuto sul carretto dei macchinisti, le feste nei cameroni dove di lirico non entra mai nulla, solo rum e battute da stadio, il trucco sbagliato ancora una volta, una parrucca che mille forcine non riescono a fissare.
Mentre servirò il prossimo cliente al bar penserò a quella promiscuità di ruoli e attitudini che ti apre la visuale su dimensioni che difficilmente conoscerei al di fuori.
Penserò alle guardie blu di Aida, ai toreri di Carmen, ai vescovi volanti e agl'abatini di Tosca.
Penserò a quel pagliaccio a cui non sono mai riuscita a disegnare la bocca dritta, a quel soldato della fucilazione a cui avrei messo la parrucca anche venti volte in una sera.
E ci sarà spazio anche per tutti quelli che ogni sera sono entrati nel mio camerino.
Spesso con qualche ridicola pretesa, molto più spesso per un po' di compagnia.
Un migliaio di persone, di cui ormai conosco il nome.
Ogni tanto anche la storia, qualche volta le aspirazioni.
Staranno chiusi in una scatola imballata, per tutto l'inverno.
Insieme alle barbe e ai baffi finti.
Alle parrucche stile settecento e alle calotte di lattice.
Spero di tirarle fuori, un'altra estate ancora.
E adesso vado, ad aprire la porta del mio camerino per la penultima serata di lirica stonata.
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