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ontology art

ontologia dell'opera d'arte

 

 

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Post n°64 pubblicato il 22 Settembre 2009 da hyakynthys
 
Tag: nyhyl

Kant ha avuto il merito di comprendere che “La

manifestazione dell'ente (verità ontica) si impernia sul disvelamento della costituzione dell'essere

dell'ente (verità ontologica)” ([2: vol. 3, p. 13 = [4, p. 25]). Kant insomma, in primo luogo, si

sarebbe interrogato, heideggerianamente, non sul problema gnoseologico, ossia sul problema della

possibilità della conoscenza, ma sul problema ontologico, ossia sul problema dell‟essere e del

rapporto di tale essere con gli enti sia pure limitatamente all‟essere degli enti di natura.

A mio parere, un autore che è stato in grado di tradurre nel proprio linguaggio in modo così

speculativamente creativo la gnoseologia trascendentale di Kant, non può non essersi misurato con

l‟idea che se la scienza – come dice Reichenbach nel testo sopra citato - è in grado di creare

categorie nuove non reperibili nei dizionari tradizionali, e in particolare nel dizionario della

filosofia kantiana, ciò potrebbe significare – detto in termini heideggeriani – che essa è in grado di

approntare modi nuovi di pensare l‟essere degli enti di cui parla. Certamente, se andiamo a leggere

i paragrafi introduttivi di Essere e tempo ci imbattiamo in un Heidegger che è tutto teso a

rivendicare l‟assoluta priorità fondazionale dell‟indagine ontologica sulla natura dell‟essere in

generale; priorità che viene reclamata non solo rispetto alle indagini scientifiche particolari le quali,

muovendosi sul piano ontico, accantonano il problema dell'essere degli enti di cui parlano e si

concentrano esclusivamente sulle proprietà e le relazioni di essi, ma anche rispetto a quelle indagini

ontologiche di carattere più specifico (come sarebbe, appunto, la ricerca condotta dal Kant del

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periodo critico) le quali si interrogano non sulla nozione generale di essere, ma sul particolare modo

d'essere delle entità di cui si occupano le singole scienze.

Ma questa vibrante rivendicazione di priorità non rende Heidegger del tutto sordo a ciò che

nella scienza può avvenire, e che di fatto in quel momento stava avvenendo sotto i suoi stessi occhi

con i profondi mutamenti che investivano soprattutto la fisica. In Essere e tempo, infatti, egli mostra

di sapere bene, per dirlo proprio con le sue parole, che “L‟autentico „movimento‟ delle scienze - e

sottolineo la parola 'scienze‟ - ha luogo nella revisione, più o meno radicale e a se stessa

trasparente, dei loro concetti fondamentali. Il livello di una scienza si misura dall‟ampiezza entro

cui è capace di ospitare la crisi dei suoi concetti fondamentali. In queste crisi immanenti delle

scienze, entra in oscillazione lo stesso rapporto fra il procedimento positivo di ricerca e le cose che

ne costituiscono l‟oggetto” ([2: vol. 2, p. 13 = p. 9] = [3, p. 25]), ossia, nel linguaggio della

differenza ontologica, viene a porsi il problema dell'essere da riconoscere agli enti di cui ci si sta

occupando.

Se quindi ritorniamo alla contrapposizione heideggeriana tra ragione e pensiero da cui siamo

partiti, si potrebbe ben dire che per lo stesso Heidegger, nelle scienze, non è all‟opera solo un

procedimento razionale, o empirico-razionale, il quale mira a stabilire a livello ontico un complesso

di ipotesi e teorie riguardanti le proprietà e le relazioni degli enti che cadono sotto il loro dominio.

Accanto a ciò – almeno stando ad alcuni suoi passi - può presentarsi anche quel pensiero che porta

ad indagare, e se del caso a sovvertire, i confini, le modalità d‟essere e lo statuto ontologico degli

enti di cui le scienze si occupano.

Si potrebbe forse pensare che considerazioni di quest‟ultimo tipo compaiano nell‟opera

heideggeriana solo prima della svolta che porterà il filosofo a sottolineare, con forza via via

crescente, l‟ascolto del linguaggio e della parola poetica come risposta privilegiata, se non

addirittura unica, alla domanda sull‟essere in quanto contrapposta alle domande sugli enti. Alcuni

interpreti hanno sostenuto, infatti, che da un certo momento in poi Heidegger non riprende più “il

discorso sulla portata ontologica delle altre attività dell‟uomo, oltre all‟arte, […] se non per ciò che

riguarda il pensiero nella sua vicinanza con la poesia” ([11, p. 117]). Non per niente nella “Lettera

sull‟„umanismo‟” risalente al 1946-47 egli si rifarà ad Aristotele per affermare che “il poetare è più

vero dell‟indagine dell‟ente” [2: vol. 9, p. 363 = p. 193] = [8, p. 313]).

Lascio naturalmente queste questioni alle attente analisi degli esegeti del pensiero

heideggeriano tra i quali di certo io non posso essere annoverato. Vorrei far notare, però, che ancora

nel saggio su “L‟origine dell‟opera d‟arte”, risalente alla metà degli anni Trenta e in seguito

ristampato nella raccolta del 1950 Holzwege, Heidegger mostra di non aver abbandonato l‟idea che

nella scienza possa esservi spazio per un genuino movimento di pensiero. È vero che, quando parla

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della verità come apertura originaria e del suo accadere nell‟opera dell‟uomo, non pone la scienza

fra le attività umane (come la fondazione di uno stato, la religione o l‟arte) in cui tale accadimento

può realizzarsi. Di più: se si prosegue poco oltre nella lettura, è addirittura esplicito nel negare

all‟attività scientifica ciò che riconosce all‟arte e ad altri modi di operare dell‟uomo. Al contrario di

quanto avviene in questi ambiti – egli scrive – la “scienza […] non è affatto un accadere originario

della verità, ma è di volta in volta la strutturazione di un ambito veritativo già aperto, e invero una

strutturazione attuata attraverso il comprendere e il fondare ciò che, nella sua cerchia, si mostra

come possibilmente e necessariamente corretto, esatto” ([2: vol. 5, p. 49 sg. = p. 50] = [6, p. 60];

cfr. [5, p. 46 sg.]). E tuttavia, subito dopo una caratterizzazione così decisamente negativa, torna a

farsi avanti la consapevolezza che ci sono aspetti dell‟operare scientifico cui tale caratterizzazione

non può venire applicata: “Quando e nella misura in cui – aggiunge e conclude Heidegger – una

scienza va al di là dell‟esattezza e perviene a una verità, cioè all‟essenziale disvelamento

dell‟essente in quanto tale, essa è filosofia” ([2: vol. 5, p. 49 sg. = p. 50] = [6, p. 60]; cfr. [5, p. 46

sg.]).

Anche nell‟attività scientifica può esservi dunque spazio per l‟esercizio del pensiero e quindi,

nella visione di Heidegger, per la filosofia. Certo, può suscitare qualche legittima ironia un simile

riconoscimento, il quale vede la scienza, nel suo momento più alto, trasformarsi in qualcosa di

diverso da sé. Non posso discutere in questa sede il complesso rapporto scienza/filosofia né la

questione – ammesso e non concesso che di una vera questione si tratti – se certe drastiche

trasformazioni concettuali che possono verificarsi, e si sono di fatto verificate, nell‟ambito delle

scienze debbano essere etichettate come scientifiche o filosofiche. Tuttavia, quello che qui mi sta a

cuore mostrare è che proprio la riflessione su tali radicali mutamenti di impianto categoriale – al

centro della meditazione del Reichenbach degli anni ‟20 ma, come abbiamo visto, percepiti anche

da Heidegger – ha condotto l‟epistemologia di oggi a una concezione della razionalità scientifica

lontana dalla visione che per lo più ne dà Heidegger e che costantemente troviamo in gran parte

degli heideggeriani. In altre parole: il fatto che nella scienza, come essa storicamente si sviluppa,

siano presenti momenti di pensiero nel senso heideggeriano del termine – momenti, cioè, in cui una

scienza o la scienza, sempre heideggerianamente, scopre l‟ente come tale e ripensa i suoi propri

fondamenti - ha posto con prepotenza la questione se la razionalità scientifica possa ancora essere

identificata con una ragione confinata all‟applicazione automatica di regole astratte univocamente

determinate e formalmente specificabili.

Benché oggi siano in molti a pensare che il contrasto fra scienza rivoluzionaria e scienza

normale non sia così netto come Thomas Kuhn lo ha presentato, resta comunque vero che è stata

soprattutto l‟indagine sulla struttura delle rivoluzioni scientifiche che ha condotto gli epistemologi a

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ripensare la visione tradizionale della razionalità scientifica. Dalla riflessione sui cambiamenti dei

paradigmi (nel senso di matrici disciplinari) che si verificherebbero nelle fasi cosiddette

„rivoluzionarie‟ è nata una concezione come suol dirsi „a tessitura aperta‟ di tale razionalità, una

concezione che non la esaurisce più - come fa Heidegger quando la contrappone al pensiero – in

procedure di tipo logico e algoritmico e neanche, più in generale, in una razionalità di tipo

criteriale, e cioè basata sull‟uso di concetti ritenuti chiaramente definibili e circoscrivibili nelle loro

applicazioni. La razionalità, lungi dall‟essere solo conformità a regole più o meno compiutamente

formalizzabili, si estrinseca anche attraverso l‟attività del giudizio e della deliberazione, ossia

attraverso un processo che non è guidato da principi di natura generale e i cui esiti non sono il

risultato di un modo di ragionare di tipo esclusivamente „calcolistico‟. Una parte cospicua delle

nostre valutazioni e decisioni razionali viene compiuta non mediante la "disputa", ma mediante la

discussione critico-razionale la quale dipende dall‟applicazione di procedure discorsive peculiari

che vanno da quelle studiate da Aristotele quando parla della saggezza al sistematico impiego di

metafore ed analogie, dalla denuncia delle contraddizioni performative ai giudizi casistici presenti

in molte parti della giurisprudenza, della medicina clinica e della critica artistica (da quella

letteraria a quella musicale e figurativa). Vi è insomma una razionalità che procede con modalità

diverse da quelle che Kant attribuiva al giudizio determinante, ma che resta, nondimeno, una

razionalità.

Può un simile allargamento del concetto di ragione essere considerato una sorta di

„avvicinamento‟ delle prospettive dell‟epistemologia contemporanea a certe istanze

dell‟impostazione ontologico-ermeneutica di Heidegger? Da un lato certamente sì (v. [9, § 6]), ma

dall‟altro non bisognerà dimenticare – come ha osservato uno dei più profondi interpreti statunitensi

del filosofo tedesco – che il metodo mediante cui, fin da Essere e tempo, Heidegger ha mirato alla

comprensione dell‟essere dell‟ente intende porsi come “un'alternativa alla tradizione delle

riflessione critica in quanto [tale metodo] cerca di porre in rilievo e di descrivere la nostra

comprensione dell'essere dall'interno di tale comprensione senza tentare di rendere il nostro cogliere

le entità teoricamente chiaro” ([1, p. 4]). Laddove invece la chiarezza e l‟intersoggettività restano

un requisito ideale di primaria importanza anche entro la concezione „allargata‟ della razionalità che

esce dalla riflessione epistemologica odierna.

In ogni caso, di fronte a un concetto di razionalità divenuto così ampio, „mobile‟ e „aperto‟,

bisognerà quanto meno riconoscere che sembra difficile continuare a contrapporre scienza e

filosofia, ragione e pensiero in termini così drastici come quelli prevalentemente utilizzati da

Heidegger e ancor più difficile confinare o relegare la scienza al regno del non pensiero. Con buona

pace delle formulazioni heideggeriane che vanno in questa direzione (e senza nulla togliere

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all'importanza di Heidegger nella filosofia del Novecento), pare più opportuno riconoscere che la

scienza non è solo ragione calcolante, ma anche, e soprattutto, ragione pensante.

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