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Il fatto di Pavia

Post n°549 pubblicato il 27 Luglio 2014 da pedro_luca
 

pavia 3

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Il fatto diPavia

 Rev. 1

Dedicato a:

Dino, Teresa,Giovanna, Alberto, Domenico, Carlo e Antonietta

.

 

 Pavia,li 1511 Redatto per il comandante Diego Clausez

 fattoda addebitare ad ignoti

 

 

 

 

Alcuni, nello sparuto gruppo di chierici barnabiti che risalivano la calle degli orti per andare ad orare le preghiere del mattino nella chiesa di Sant’Agnese, avevano ben visto la copiosa macchia di sangue che colava da sotto il portone di casa De Maggis, ma non si fermarono. Avevano fretta e gran desiderio di recitare le orazioni dell’ora prima. Ma non era quello il motivo principale per cui non s’erano degnati di sbattere il batacchio in ferro della porta e chiedere cosa fosse successo. La questione vera era che fatti e misfatti di sangue accadevano piuttosto frequentemente in quei tempi turbolenti,  e la competenza per delitti e crimini, di qualsiasi natura fossero, era un’esclusiva della guarnigione imperiale. Quei nuovi adepti della santa, poi, anche se avevano già ricevuto assicurazioni al riguardo da parte del legato papale, non erano ancora stati riconosci utiufficialmente come ordine religioso, perciò ritennero che sarebbe stato almeno imprudente esporsi pubblicamente come gruppo organizzato, col rischio di esser accusati di assembramento, fermamente vietato in quei tempi d’assedio, tempi in cui l’intreccio di tradimenti e cospirazioni erano norma non scritta. Anche i pescatori che risalivano l’erta, sette in tutto, s’avvidero di quella copiosa sciaematica, ormai coagulata, filtrante da sotto il pesante portone in legno dellacasa nobiliare, ma pure loro fecero finta di nulla e proseguirono il cammino.Sapevano che ad intromettersi in certe faccende avrebbero avuto in cambio solo guai, e di quelli ne ricevevano già in abbondanza dalla loro misera vita.

Quell’anno poi,nonostante il tempo fosse stato clemente ed avesse portato acqua piovana ina bbondanza, per cause che rimanevano più incomprensibili che strane, di pesci nel Ticino se vedevano pochi, come se improvvisamente avessero deciso di migrare in massa verso il mare. A peggiorare l’umore generale s’erano aggiunte da poco tempo le voci, per la verità non ancora verificate dalle autorità,dell’epidemia scoppiata a Milano, una pandemia dal nome che al solo sentirlo gelava il sangue nelle vene e gettava nel panico intere popolazioni, la peste.

Così fu il Bartolomeo, vecchio cocchiere dei De Maggis, che ebbe l’onere di scoprire ilcorpo del suo padrone,  messer Cosimo detto il paesano, seduto per terra sul passo carraio con la schiena appoggiata nell’angolo formato dal muro e dal supporto in legno della portone stesso.Aveva il volto inclinato sulla spalla sinistra e gli occhi chiusi. Non fosse stato per il viso esangue e la grande chiazza di sangue che gli copriva la giubba, macchia che proseguiva la sua corsa sul selciato fino a filtrare sottoil legno del portone, si sarebbe potuto credere si fosse addormentato colà al ritorno dai  bagordi notturni,  stremato nell’abbandono ai residui delle libagioni.

Bartolomeo corse ad avvertire Cesar Esualpio, l’uomo d’arme e di fiducia del casato. Loincontrò che stava scendendo le scale in procinto di andare, per l’appunto, in cerca del suo padrone. Cesar era un uomo di media statura, magro e svelto, ma a far da contraltare all’aspetto mite c’era il suo sguardo freddo, una luce degli occhi penetrante che a volte aveva il potere di inquietare assai il cocchiere, e questo nonostante lo conoscesse già da parecchi anni. Nel tempo si era convinto che ciò dipendesse dal fatto di averlo visto, alcuni anni prima, uccidere un uomo ferito ed ormai inerte, senza batter ciglio, con una naturalezza raggelante, come si fa quando si tira il collo ad una gallina, e questo solo per dar esecuzione all’ordine impartitogli dallo stesso Cosimo. Invece Bartolomeo era piuttosto rotondo e non molto alto di statura,con una testa di riccioli neri sempre arruffati e due pomelli rossi per rimarcare la sua grande passione per il vino tintoretto.

Quando Cesar avvisò la signoria, che ancora dormiva nella sua camera, donna Caterina non volle vedere il corpo e diede ordine affinchè il corpo di suo marito venisse pulito, cambiato e sistemato su di un tavolo nella grande sala del pianterreno. Solo dopo queste operazioni avrebbe acconsentito a vederlo. Non pianse, del resto davanti alla servitù non era cosa da farsi, ma si vedeva che sotto il suo apparente distacco e l’ostentata freddezza, soffriva. La notizia l’aveva colta di sorpresa, ma non era giunta del tutto inaspettata. Da un po’di tempo a questa parte il consorte aveva preso a frequentare gente forestiera,da poco giunta in città dal vercellese e, secondo il figlio primogenito, poco raccomandabile. Tra l’altro a causa di ciò, nonostante l’autorità paterna fosse ancora forte,  erano sorti parecchi screzi tra di lui e i figli. Discussioni molto accese, tanto che spesso si era rischiato la degenerazione nello  scontro fisico. Il protrarsi della situazione aveva pesato  sull’animo sensibile della donna e gli effetti si potevano cogliere sul suo volto sempre più rattristato e sul corpo già provato dall’età e dal valico della menopausa. Donna Caterina non era una donna dotata di particolare bellezza, aveva un volto ossuto e un corpo magro ma possedeva uno sguardo dolce ed aveva una gentilezza d’animo che traspariva nei suoi atteggiamenti e nel suo comportamento. Questo le conferiva un carisma, un fascino particolare e se mai avesse avuto origini nobili queste si evidenziavano in ogni suoi gesto. 

 
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