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Mi scuso per la mia risposta che non ha senso…: Vorrei...
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Auguri di un felice, sereno e splendido Natale dal blog...
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Creato da: antifascistavt il 06/07/2006
Coordinamento Antifascista della Tuscia

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girasolenotturno
girasolenotturno il 29/04/08 alle 23:26 via WEB
Mi scuso per la mia risposta che non ha senso…: Vorrei comunicare che per il 1° MAGGIO sarebbe bello mettere in luce le MORTI BIANCHE e il PRECARIATO noi abbiamo fatto un video se volete potrete essere dei Nostri. Alessandra
 

 
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Anonimo il 30/03/08 alle 21:24 via WEB
Non amo definirmi con ideologismi, di cui troppa gente fa suoi senza conoscere. Vado contro tutto ciò che viola la libertà di espressione, con prepotenza e vigliaccheria, se questo vuol dire essere antifascista vorrei darvi una mano nel combattere il male che sta macchiando Viterbo. Tanto per nn cadere nell'anonimato http://before--i--forget.spaces.live.com e questo è il mio contatto merlok@hotmail.it
 

 
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Anonimo il 23/03/08 alle 15:27 via WEB
Auguri per una serena e felice Pasqua...
Kemper Boyd
 

 
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Anonimo il 25/12/07 alle 21:42 via WEB
Auguri di un felice, sereno e splendido Natale dal blog Napoli Romantica...
 

 
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Anonimo il 28/07/07 alle 16:31 via WEB
Provate a fare un commento su questo blog di un becero fascista e scoprirete cosa intendono per democrazia..... http://blog.libero.it/Mussolini/view.php?nocache=1185631747
 

 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 03/06/07 alle 01:29 via WEB
CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO VIA STOPPANI 15 (QUART. SANT’ANNA p.zza princ.) – BUSTO ARSIZIO – VA – uscita autostrada A8 Laghi – ------------------------------------------------------------------------------------ dal blog più che tosto : http://italiarossa.splinder.com/ martedì, 22 maggio 2007 Resistenza, una vecchia storia irrisolta Malgrado lo scorrere del tempo, la ricorrenza del 25 aprile 1945 – la Liberazione – solleva sempre dibattiti sulla Resistenza, che svelano un «buco nero» nella coscienza teorica della cosiddetta sinistra rivoluzionaria, a prescindere dalle frasi fatte di facile effetto, che volentieri lasciamo ai preti. (Riceviamo e pubblichiamo) Il nodo irrisolto di quella «vecchia storia» si riverbera su questioni attuali e assai scottanti, che sempre più spesso richiedono risposte politiche adeguate all’attuale fase storica. Nel vuoto teorico, trovano spazio facili suggestioni, che oscillano tra il rifiuto di ogni intervento attivo all’appoggio indiscriminato a ogni movimento delle masse. In entrambi i casi, scorgo un approccio interpretativo che mal si coniuga con la tradizione marxista, lasciando prevalere quella che un tempo veniva definita «metafisica ideologica». Entriamo nel merito della questione. Certamente, la Resistenza fu un «grande imbroglio», che condusse migliaia di proletari al massacro, in netta subordinazione alla borghesia. Ma come fu raggiunto questo mostruoso risultato? Da vecchio materialista (dialettico), ho cercato di ripercorrere gli avvenimenti di quegli anni e ho visto che la borghesia italiana in quei frangenti - parliamo del 1943 – fu colta da una grande paura riguardo alle proprie sorti sociali, ma ho visto che anche gli emergenti imperialisti yankee ebbero qualche preoccupazione. La situazione era assai delicata e per giungere al risultato che oggi possiamo contemplare in tutto il suo splendore, la borghesia (sans phrase) dovette mobilitare tutti i suoi santi, di destra, di centro e, soprattutto, di sinistra. Fu un’azione combinata, nel corso della quale, in Italia, emerse il ruolo del nazionalcomunismo (quello che per alcuni è ancora il caro vecchio PCI!), che riuscì a compiere un doppio salto mortale: si appropriò della lotta contro il fascismo e vi appose il proprio cappello politico. Una volta sottomessa alle concezioni democratiche del PCI, la lotta al fascismo perse via via l’originaria carica eversiva, inducendo alla sua sottovalutazione molti comunisti radicali. In seguito, di fronte all’evidente catastrofe, alcuni rivoluzionari sono caduti in una visione «estetizzante», che li ha indotti non solo a rifiutare, ma anche a disprezzare l’antifascismo. Costoro spesso rimasticano la nota frase di Bordiga, secondo la quale «l’ antifascismo è il peggior prodotto del fascismo», senza capirne il significato. In pratica, così facendo, costoro lasciano libero il campo a un antifascismo democratico, sempre più degenere e politicamente devastante. Una misera consolazione, fatta con il senno di poi. Sicuramente, nelle condizioni dell’Italia del 1945, con il predominio dell’imperialismo yankee, la rivoluzione proletaria era impossibile. Non altrettanto impossibile era formare una tendenza proletaria, politicamente autonoma, che si contrapponesse alle soluzioni borghesi di ricostruzione nazionale, sostenute dal PCI di Togliatti e dalla CGIL di Di Vittorio. Queste soluzioni furono la vittoria postuma del fascismo, malgrado gli impiccati di piazzale Loreto. Sconfitto sul piano militare, il fascismo trionfò politicamente: Togliatti, Di Vittorio e Co. avanzarono e sostennero l’obiettivo fascista di affasciamento delle classi nell’interesse nazionale. In questo affasciamento consiste l’essenza del fascismo, che fu individuata fin dalle origini, da Bordiga e dalla direzione di sinistra del PCd’I. Ma questa è un’altra storia. Le note che seguono indicano alcuni significativi momenti della subordinazione del proletariato italiano alla soluzione borghese nel corso della Resistenza. Con le mie osservazioni, vorrei soprattutto fornire alcuni criteri analitici che consentano di affrontare materialisticamente le questioni che oggi, in uno scenario molto più ampio, incombono. Italia 1943: un laboratorio politico La centralità mediterranea e la funzione di «ponte» verso l’Europa Centro-orientale fecero sì che, al momento della rottura del fronte – nel settembre 1943 – l’Italia occupasse la posizione strategica di «ventre molle» dell’Europa. Queste valutazioni militari furono accompagnate da quelle politiche. L’Italia, scossa da forti tensioni sociali, divenne il banco di prova per sperimentare soluzioni, in grado di offrire garanzie di equilibrio ai futuri assetti geo-politici, che si andavano delineando nei rapporti tra gli USA e l’URSS. Premessa di questo esperimento era il controllo di una situazione sociale in cui agivano forti spinte verso il rinnovamento, sia in senso classista proletario sia in senso democratico radicale, intrecciate l’una con l’ altra. Lo sbarco anglo-americano in Sicilia, nel luglio 1943, fu la più grande operazione militare della storia, superata solo dallo sbarco in Normandia dell’anno seguente. Gli Anglo-americani mettevano piede nella «Fortezza Europa» che, per quanto destinata a capitolare, era allora saldamente nelle mani del Terzo Reich, dalle coste dell’Atlantico a quelle del Baltico e del Mar Nero. I problemi militari da affrontare erano colossali e ancor più colossali erano le implicazioni sociali e politiche riguardanti il futuro assetto dell’Italia, che avrebbe costituito un test per i diversi Paesi, che sarebbero stati via via liberati. Nascita di un partito nazionalpopolare Il crollo del regime fascista, il 25 luglio 1943, avvenne in seguito alle sconfitte militari e ai grandi scioperi del marzo 1943, che svelavano la debolezza del fronte interno e che furono i primi grandi scioperi nell’Europa occupata dall’Asse. Ma non furono fulmini a ciel sereno. Di fronte al drastico peggioramento delle condizioni di vita, nella seconda metà del 1942 ci furono agitazioni e scioperi in numerose fabbriche. E, nelle campagne del Mezzogiorno, ancor prima dell’ intervento bellico formale, nel giugno del 1940, scoppiarono rivolte contro le condizioni di grande miseria, accendendo focolai di tensione che, nel corso della guerra, sarebbero diventati permanenti. Il PCI scese in campo in quelle difficili circostanze e, in breve tempo, da piccolo organismo clandestino, con poche migliaia di aderenti, sparsi in mezzo mondo, molti in galera o al confino, politicamente disomogenei, si trasformò in un grande partito di massa, politicamente compatto. La sua crescita avvenne di pari passo con la sua metamorfosi nazionalpopolare, i cui presupposti erano presenti nell’ evoluzione che esso aveva attraversato dal Congresso di Lione (1926) in poi. La crescita di una piccola organizzazione, mantenuta con il «denaro di Mosca», può essere spiegata soprattutto considerando la passione e le aspettative, che il sogno comunista aveva suscitato nelle masse proletarie italiane. Per oltre un ventennio, e ancor prima che il partito nascesse nel 1921, i comunisti erano stati in prima linea nella lotta contro il fascismo. Dal 25 novembre 1926 (quando fu istituito) al 25 luglio 1943 (quando decadde), il Tribunale speciale per la difesa dello Stato condannò 4.030 comunisti a oltre 23mila anni di carcere. Complessivamente, il Tribunale speciale condannò 4.671 antifascisti, comminando 28.115 anni di reclusione e 9 sentenze capitali eseguite. In rapporto a queste cifre, le percentuali riguardanti i comunisti sono molto alte e diventano ancora più alte se consideriamo che, tra i condannati, vi furono 203 nazionalisti sloveni, con 2.796 anni di galera. Di conseguenza, la lotta contro il fascismo pesò essenzialmente sulle spalle dei comunisti. I socialisti, gli anarchici e i repubblicani condannati furono 88, con 779 anni di carcere e due condanne a morte, per gli anarchici. Furono maggiormente colpiti gli antifascisti generici («senza partito»): furono 323 e subirono 1.296 anni di carcere. A questi provvedimenti, bisogna aggiungere il confino, il domicilio coatto e l’emigrazione, cui furono costretti molti comunisti, ancor prima della marcia su Roma. Solo grazie a questo grande patrimonio di lotte alle spalle, il PCI poté candidarsi a svolgere un ruolo egemone sulla scena politica italiana. Frutto di «appropriazione indebita», questo patrimonio richiese una gestione estremamente cauta, per il nuovo gruppo dirigente si trattava di cavalcare una tigre. Ci riuscì attraverso iniziative spregiudicate, che furono rese possibili da un concorso di circostanze favorevoli, in una situazione estremamente dinamica, in cui l’appoggio di Mosca rappresentò un fattore importante ma non predominante. Con l’obiettivo prioritario dell’unità di tutte le forze anti- fasciste, in un fronte unico dove la bandiera rossa spariva e lasciava il posto al tricolore, il PCI conquistò crescenti spazi politici e divenne il vero protagonista della Resistenza. Posizione privilegiata che gli consentì di svolgere l’opera di moderazione nei confronti delle spinte proletarie classiste e anche di quelle democratico-radicali degli azionisti e dei repubblicani, anti-monarchici e anti-clericali. Dovette comunque affrontare una situazione di forti tensioni sociali, che rese molto difficile la sua azione di imbrigliamento, e questo a partire dalla propria organizzazione, che non poteva essere improvvisata da un momento all’altro. Al suo controllo sfuggirono comunque pericolose scintille di lotta proletaria, soprattutto al Sud, con l’occupazione delle terre e la renitenza alla leva. Il compito di controllo sul proletariato non poteva essere svolto dai vecchi partiti borghesi, che erano screditati, mentre socialisti e azionisti avevano una minore se non scarsa presenza nella classe operaia. Solo il PCI poteva mettere in campo un’eredita prestigiosa e un’organizzazione in via di consolidamento. C’est l’argent qui fait la guerre Nella strategia del PCI, la Resistenza, intesa come lotta armata contro l’occupante tedesco e contro i suoi manutengoli fascisti, svolse un importante ruolo. Ma questo approdo avvenne dopo lo sbarco alleato in Sicilia, quando i proletari del Sud erano già scesi nelle strade per protestare contro le conseguenze della guerra e si erano scontrati duramente con gli occupanti. Le «quattro giornate” di Napoli (28 settembre-1 ottobre 1943) furono l’epicentro di rivolte popolari che, in quelle settimane, coinvolsero decine di località della Calabria, Basilicata, Puglia e Campania. Le lotte contadine del Mezzogiorno rappresentano un capitolo trascurato della Resistenza, subordinato alla concezione di lotta di liberazione nazionale, sostenuta dal PCI, che aveva come riferimento principale lo sbandamento dell’esercito italiano dopo l’8 settembre, alimentando una concezione in cui prevale l’ aspetto militare. Pur circoscritta a questo preciso contesto, la Resistenza presentava comunque due tendenze di fondo. La più esaltata, la funzione di «quinta colonna» delle armate alleate, fu quella in realtà meno importante, basti considerare che, solo in Italia, gli eserciti belligeranti contavano più di due milioni di uomini, impegnati continuativamente, in confronto ai quali, i 256.000 partigiani riconosciuti come combattenti – e lo furono inoltre in modo discontinuo - erano un piccola componente. Più importanti furono le azioni armate condotte per motivi di difesa contro la repressione nazi-fascista, per impedire la deportazione dei lavoratori, per proteggere scioperi e proteste popolari. D’altro canto, questa Resistenza era nata come forma elementare di autodifesa dei soldati italiani sbandati, dopo l’8 settembre, contro le rappresaglie e le deportazioni. Solo successivamente, assunse la connotazione di lotta di liberazione nazionale, a fianco degli Alleati, sovrapponendosi quindi alle forme di autodifesa, legate ai movimenti sociali e provocando, anche, gravi conseguenze per la popolazione civile, come nel caso della strage di via Rasella a Roma. Le lotte di autodifesa, direttamente o indirettamente, coinvolsero ampi strati della popolazione, soprattutto nelle città e nelle fabbriche, che costituirono l’humus sociale in cui presero piede le aspettative politiche più avanzate. La lotta armata per la liberazione nazionale ebbe il suo punto di riferimento nelle formazioni partigiane, nelle quali prevalse - e non poteva essere diversamente - la disciplina militare alla quale, di conseguenza, restarono sottomesse le passioni politiche dei combattenti. Le caratteristiche stesse della guerra partigiana, facendo prevalere la flessibilità operativa, resero duttili le fasi e i tempi dell’irreggimentazione militare, lasciando spazi di indipendenza politica, che comunque furono prima circoscritti e poi emarginati, via via che il PCI consolidava a livello nazionale la sua struttura organizzativa. Nei primi mesi di attività (novembre 1943), i 3.800 partigiani allora operanti in Italia in massima parte erano militari sbandati e una buona metà era autonoma, ossia apolitica. Nel marzo del 1944, prevalsero le formazioni politiche, che avevano raggiunto il medesimo livello di preparazione militare, sostenuto da una maggiore determinazione morale, alimentata dalla costante propaganda degli azionisti e, soprattutto, dei nazionalcomunisti. Questi ultimi, fin dal 19 settembre 1943, avevano organizzato il primo battaglione Garibaldi, nella zona di Gorizia e di Udine, a contatto con i partigiani sloveni, dando corpo a una presenza sempre più massiccia. Secondo il censimento di Ferruccio Parri, nel luglio 1944 su circa 50.000 partigiani, metà erano garibaldini, 15.000 di Giustizia e Libertà, 8.000 autonomi e 2.000 tra socialisti e anarchici (Brigate Matteotti) e repubblicani. Una volta raggiunta questa posizione egemone, il PCI riuscì a imporre anche ai partigiani politicamente più riottosi l’obiettivo prioritario della liberazione nazionale, che gli consentì di conquistare la fiducia degli Alleati, soprattutto degli Americani, per ottenere che gli aiuti, in denaro e mezzi, fossero forniti con maggior consistenza e regolarità alle Brigate Garibaldi. Gli scioperi del marzo 1944 Gli operai del Nord, costretti a fare i conti con una situazione di fame e di pericolo - tra i bombardamenti degli alleati e le requisizioni e le razzie dei nazisti -, erano spinti a scendere in sciopero, come era avvenuto nel novembre e dicembre 1943 nelle grandi fabbriche di Torino, di Milano, di Sesto San Giovanni e di Genova. Di fronte a queste agitazioni operaie, il CLNAI ritenne opportuno imprimere il proprio orientamento politico, organizzando lo sciopero del 1° marzo 1944, che vide la massiccia partecipazione di operai dell’ Italia settentrionale e della Toscana. Come un anno prima, lo sciopero per la durata e la massa dei partecipanti non aveva riscontro in alcun altro paese dell’Europa occupata. Tuttavia, la conduzione politica, la mancanza di precise rivendicazioni economiche e, infine, la repressione che ne seguì, con arresti e deportazioni, lasciarono negli operai un senso di insoddisfazione, rilevato anche da ambienti politici vicini al PCI, che fu il principale promotore dello sciopero. Le stesse modalità organizzative avevano rivelato fin dall’inizio un’ impostazione azzardata: invece di tessere una rete clandestina, che consentisse di far scoppiare lo sciopero al momento opportuno, per cogliere di sorpresa i padroni e gli apparati repressivi nazi- fascisti, «L'Unità» e tutti i giornali emananti dal PCI avevano sbandierato con largo anticipo l’imminente «sciopero generale insurrezionale». Il Partito Comunista Internazionalista precisava che in questo sciopero gli operai si erano trovati «nell'assurda e tragica situazione d'essere nello stesso tempo i veri protagonisti della lotta attiva e la pedina manovrata senza risparmio dalle forze che si muovevano sul piano della guerra». Il risultato tangibile di tale condotta degli scioperi fu il sensibile incremento produttivo delle industrie settentrionali, favorito dallo stato di incertezza e prostrazione in cui versava gran parte della classe operaia. Condizione che avrebbe poi reso possibile la subordinazione politica degli operai alla linea nazionalista del CLNAI, in cui il PCI assumeva il ruolo di forza egemone. Di fronte al peggioramento delle condizioni di lavoro e alle deportazioni, l’arma dello sciopero stava lasciando il posto ai sabotaggi e agli attentati, innescando una spirale di violenze contro gli operai e creando nelle fabbriche un clima difficile, le cui conseguenze furono ovviamente negative anche sul piano della produzione, con buona pace per lo sforzo bellico degli Alleati, che in questo modo coglievano due piccioni con una fava: operi politicamente disgregati e produzione in calo. Il processo di disgregazione politica del fronte operaio era stato inaugurato dagli scioperi del marzo 1944 e fu molto evidente a Milano, come osservò Anton Vratusa, fiduciario dei Partiti comunisti sloveno e jugoslavo: «[Fino al marzo 1944], la lotta sindacale o più precisamente la lotta economica delle masse operaie viene considerata dal PCI come prova della combattività delle masse operaie e come preparazione generale sul terreno dell’insurrezione nazionale per la cacciata dei nazisti e per l’annientamento del fascismo e della sua base sociale, cioè del capitale finanziario. Fino ad oggi [marzo 1944] questo metodo della lotta era praticamente al primo posto. Ad esso erano consacrati i massimi sforzi e il maggior tempo disponibile, forse persino a danno dello stesso movimento garibaldino. [Con lo sciopero del marzo 1944 si verifica un cambiamento] a favore del movimento garibaldino su di una base massiccia». L’altra faccia del mutamento, che Vratusa non poteva, o non voleva, rilevare, consisteva nell’inversione di un ordine di priorità, a tutto danno delle lotte operaie. Tuttavia, il PCI, agli operai, non chiedeva solo la subordinazione, esigeva anche il sacrificio, lanciando la direttiva avventurista di «scendere in strada e manifestare contro tedeschi e fascisti», il cui esito, mancando adeguate strutture militari di autodifesa, sarebbe stato solo la cruenta repressione. In seguito al modesto risultato dello sciopero del 21 settembre 1944 di Milano e provincia, il Comitato federale comunista di Milano, affermava: «La “causa principale” del ritardo delle lotte operaie a Milano, rispetto allo sviluppo della guerriglia o delle lotte a Genova e a Torino, va ricercata nell’atteggiamento della stragrande maggioranza di nostri compagni i quali erano, e lo sono ancora, su di un terreno attesista più delle masse. E la cosa più grave è che, mentre le masse lo manifestano apertamente questo loro stato d’animo, essi invece non lo dicono apertamente, e [...], mentre a parole si dichiarano ampiamente per la linea del partito, in fatti sono più, ma molto più, attesisti delle masse». Lo stato d’animo dei militanti operai del PCI denunciava un rapporto assai difficile con le masse operaie nel loro complesso. I nazionalcomunisti avevano comunque raggiunto l’obiettivo di impedire azioni operaie autonome. La svolta di Salerno Mentre nel Nord il PCI metteva le fondamenta per la sottomissione della classe operaia e a Roma mandava al macello i militanti del Movimento Comunista d’Italia, il 27 marzo Palmiro Togliatti sbarcava a Napoli. Il 31 marzo, si riunì a Napoli il consiglio nazionale del PCI delle regioni liberate e Togliatti, con quella che sarà ricordata come la «svolta di Salerno», liquidò la pregiudiziale antimonarchica, che fino ad allora condivisa dai partiti di sinistra del CLN. Inizialmente osteggiata da Pd'A e PSIUP, la svolta consentì l’ingresso del CLN nel governo e aprì il formale riconoscimento Alleato della Resistenza. La questione istituzionale era rimandata alla fine del conflitto. La conversione filo-monarchica del PCI era stata anticipata dal discorso di Togliatti, tenuto a Mosca il 21 novembre 1943, il cui tono conciliante favoriva il clima di distensione che Mosca desiderava per l’ imminente incontro di Teheran (27 novembre-1°dicembre 1943), in cui i Tre Grandi avrebbero discusso sulle rispettive zone di influenza e l’ Italia sarebbe rientrata in quella occidentale. La dichiarazione del futuro «capo amato» era stata accolta con grande freddezza, non priva di dissapori, dai dirigenti del partito in Italia, che si sarebbero trovati scoperti non solo nei confronti dei dissidenti e delle formazioni politiche «estremiste», ma anche di PSIUP, PdA e dei repubblicani, questi ultimi uscirono poi dal CLN. Il rientro in patria di Togliatti fu allora necessario per imporre la nuove linea del PCI con l’imprimatur di Stalin. Il lungo viaggio di ritorno, durato più di un mese, servì a frapporre un certo lasso di tempo tra la dichiarazione del 21 novembre, la conferenza di Teheran e la svolta, per eludere i fin troppo facili collegamenti tra i tre episodi. Allo stesso tempo, il viaggio fu un’ occasione per presentare agli Alleati le buone intenzioni dei comunisti italiani. Partito da Mosca in febbraio, Togliatti fece tappa al Cairo e ad Algeri, dove ebbe contatti ufficiosi con esponenti politici e militari anglo-americani. Nel frattempo, il 14 marzo 1944, l’URSS, prima tra le nazioni alleate, riconobbe il governo Badoglio. Quando il 27 marzo Togliatti sbarcò a Napoli, oltre all’imprimatur di Stalin, recava con sé anche il placet di Churchill e Roosevelt. Grazie a queste credenziali, quello che fino ad allora era un oscuro e temuto fuoruscito il 24 aprile entrava nel governo di unità nazionale come ministro senza portafoglio, accanto al filosofo liberale Benedetto Croce, agli ex ministri Carlo Sforza (indipendente) e Giulio Rodinò (cattolico) e al vecchio deputato socialista Pietro Mancini. Dopo la liberazione di Roma, l’11 giugno, Togliatti fu nominato vicepresidente nel nuovo governo ispirato al CLN e presieduto dal vecchio socialista riformista Ivanoe Bonomi. Il partito nuovo Accanto all’impegno governativo, Togliatti avviò una profonda trasformazione del partito, da cui nacque il «partito nuovo», caratterizzati dall’abbandono della precedente struttura di quadri a favore di una vasta aggregazione politica, aperta alle varie componenti della società italiana. Grazie a questo processo di rinnovamento, al momento della Liberazione il PCI raggiunse circa mezzo milione di iscritti che, alla fine del 1945, diventarono 1.770.267, inquadrati nelle cellule di fabbrica, nelle sezioni territoriali e in organismi di massa, come le Case del Popolo e le sedi dell’Associazione Nazionale Partigiani Italiani (ANPI). La conversione moderata del PCI apriva tuttavia un contrasto con quei dirigenti, in particolare Pietro Secchia e Luigi Longo, che operavano nell’Italia settentrionale sottoposta alla RSI, dove la lotta partigiana aveva acceso molte aspettative di riscatto sociale. La situazione, per quanto difficile, si avviava comunque verso la soluzione. Nella primavera-estate del 1944, il «partito nuovo» si stava radicando nel Centro-sud – in agosto fu liberata anche Firenze -, dove poteva contare sulla relativa libertà d’azione politica e sulla propria presenza nel governo. Il nuovo e duttile indirizzo favoriva inoltre i rapporti con le istituzioni statali, centrali e periferiche, i cui frutti si sarebbero visti in seguito. Tra i partiti del CLN, solo la Democrazia Cristiana, grazie agli stretti rapporti con la Chiesa cattolica, poteva allora vantare una presenza altrettanto capillare sul territorio. Il PCI dell’Italia liberata aveva assunto una posizione sempre più predominante rispetto alla direzione settentrionale. Al Nord, il PCI aveva raggiunto l’egemonia sulle forze politiche della sinistra, presenti nel CLNAI e, in generale, nelle formazioni partigiane. Problemi del tutto marginali aveva incontrato con il movimento anarchico, ormai ombra di quello che era stato dopo la Prima guerra mondiale. Nei confronti del Partito Socialista, il PCI non ebbe difficoltà a calmare i bollori estremisti di Lelio Basso, più di forma che di sostanza. Riguardo al Partito Socialista, l’obiettivo reale del PCI era il controllo o la subordinazione di un tendenza politica, che allora riscuoteva consensi almeno pari ai propri. L’operazione fu facilitata dal carattere eterogeneo della compagine socialista e dal modesto contributo militare da lei prestato alla Resistenza. Il radicalismo democratico del Partito d’Azione non turbò più di tanto le svolte moderate del PCI, nei confronti della Monarchia e della Chiesa, in quanto alla partecipazione azionista alla Resistenza non corrispondeva un’altrettanto significativa presenza nella società civile. Dopo la Liberazione, il Pd’A si estinse ancor prima di sciogliersi. Aveva inoltre eliminato le formazioni dissidenti presenti nel movimento partigiano, come il Partito Comunista Integrale («Stella Rossa») e altri piccoli raggruppamenti con una presenza localmente circoscritta, come il gruppo del «Lavoratore» di Legnano. Ottenuti questi risultati, la missione politica del gruppo dirigente al Nord poteva dirsi esaurita, restava solo da gestire l’attività fino alla Liberazione che, in sintonia con le direttive di Togliatti, si configurava come un compito di ordine pubblico durante la fase di passaggio delle consegne dalla RSI al governo «legittimo». Contemporaneamente, Togliatti aveva provveduto a ridimensionare l’ originario ruolo del movimento partigiano, sostenendo la costituzione del Corpo Italiano di Liberazione – decisa il 18 aprile 1944 - che, raccogliendo i reparti militari presenti nel Sud, combatté a fianco degli eserciti alleati. Due mesi dopo, il 19 giugno, all’interno del CLNAI fu costituito il Corpo Volontari della Libertà (CVL), organismo militare unitario, che riuniva le diverse formazioni partigiane, sottoposto al comando del generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo di Roma, ovviamente con l’approvazione degli Alleati. L’ iniziativa inquadrava – in modo subalterno - il movimento partigiano nella strategia bellica degli Alleati. Negli ultimi mesi di guerra, la crescita numerica del movimento partigiano fu direttamente proporzionale al suo deperimento politico. Gli ultimi entusiasmi si spensero nel novembre del 1945, con le dimissioni del governo Parri, prestigioso esponente del CLNAI. Il suo governo era nato all’indomani della Liberazione, con l’ambizione di avviare la ricostruzione del Paese, ispirandosi agli ideali di rinnovamento sociale e politico, che avevano animato l’esperienza resistenziale. A raffreddare le velleità degli ex partigiani di sinistra, aveva già provveduto Togliatti, Ministro di grazie e giustizia, impartendo severe disposizioni per la repressione di ogni manifestazione, che potesse turbare l’ordine pubblico. Nella primavera del 1946, il guardasigilli non esitò a tendere la mano ai fascisti, con l’amnistia che mise in libertà centinaia di aguzzini e torturatori, mandando a gambe all’aria la tanto decantata epurazione per i crimini commessi da esponenti del regime fascista, mentre migliaia di ex partigiani finivano sotto processo e, il più delle volte, in galera. Le prime avvisaglie di questi sbocchi reazionari si erano avute già quando, nelle zone liberate dagli Alleati, il PCI si era subito distinto nell’opera di normalizzazione politica, favorendo gli interventi repressivi della magistratura e della polizia democratiche, che provvedevano a colpire ogni forma di dissenso e di «illegalismo». Nel Meridione, le lotte di braccianti e contadini, le occupazioni delle terre si intrecciarono spesso con la diffusa renitenza alla leva. Nel Ragusano, si ebbero vere e proprie rivolte, che furono stroncate solo con l’intervento dell’esercito. Ma anche i lavoratori delle città subirono violente repressioni ogni qualvolta cercarono di difendere le loro condizioni di vita, come avvenne a Palermo il 19 ottobre 1944, con la morte di 29 manifestanti. Drastiche furono le misure adottate contro i militanti rivoluzionari che partecipavano alle lotte: nell’estate del 1945, sei esponenti pugliesi del Movimento Comunista d’Italia furono arrestati e inviati al confino. Alla Liberazione, l’unica organizzazione politica sopravvissuta alla normalizzazione fu il Partito Comunista Internazionalista, con l’ eccezione del Partito Comunista Operaio (bolscevico-leninista), vicino alla Quarta Internazionale, che restò vitale, soprattutto in Puglia, fino ai primi anni Cinquanta. In generale, il Partito Comunista Internazionalista divenne il punto di riferimento verso cui conversero le forze supersiti delle altre formazioni politiche, come la Frazione di Sinistra dei Comunisti e dei Socialisti Italiani che, a sua volta, aveva accolto militanti di «Bandiera Rossa». La presenza e la crescita di un partito rivoluzionario dimostra che la repressione statale e nazionalcomunista
 

 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 21/05/07 alle 22:37 via WEB
lunedi' 21 maggio 2007 un po in ritardo ma meglio tardi che mai..... CIRCOLO DI INIZIATIVA PROLETARIA GIANCARLO LANDONIO VIA STOPPANI 15 (QUART. SANT’ANNA p.zza princ.) – BUSTO ARSIZIO – VA – uscita autostrada A8 Laghi. Dal blog : http://italiarossa.splinder.com/ Liberi ma schiavi Sono passati oltre sessant'anni dal 25 aprile del 1945, data che segna la liberazione delle principali città del Nord Italia dal dominio nazi-fascista e la fine di fatto della seconda guerra mondiale in Italia. Questa data segna un discrimine tra gli anni della dittatura fascista e la costruzione di un paese democratico-borghese. Da lì seguiranno la fine della monarchia, l'instaurarsi di una Repubblica parlamentare e l'elaborazione di una Costituzione democratico-borghese, basata sul(lo sfruttamento del) lavoro (salariato), che interpreta e incarna i valori borghesi nati dalla guerra di Liberazione e dalla Resistenza (8/9/1943- 25/4/45). In Italia il regime fascista, al quale le disfatte militari avevano fatto perdere l’appoggio delle stesse classi dominanti, e già minato alle fondamenta dai primi scioperi operai (Fiat di Torino; Pirelli, Borletti, Falck di Milano, tra l’8 e il 13 marzo), era caduto il 25 luglio 1943 in seguito ad una congiura della monarchia, che mirava a sostituirlo con una dittatura militare capace di portare il paese fuori dalla guerra mantenendo il pugno di ferro sul proletariato. Il nuovo capo del governo nominato dal re è infatti il maresciallo Pietro Badoglio il quale, però, non sapendo come evitare una dura reazione tedesca alla sua progettata defezione dall’alleanza con la Germania, e volendo impedire, contro di essa, la mobilitazione delle masse popolari, l’8 settembre 1943 lascia il paese in balia delle forze tedesche, fuggendo coi suoi ministri e con la Corte nell’Italia meridionale già occupata dalle forze anglo-americane, poco dopo che è stata resa nota al mondo la capitolazione dell’Italia. Contro le forze di occupazione tedesche, e contro una repubblica fascista costituita da Mussolini, responsabili di mille atrocità, si battono gruppi partigiani di diverse tendenze politiche. E’ il periodo che verrà chiamato della “resistenza” (8 settembre 1943 - 25 aprile 1945), guidata dal Comitato di liberazione nazionale (Cnl). Ma all’interno del Cnl vi sono tensioni, contrasti e strategie divergenti, tra chi vuole salvare la monarchia e chi mira ad instaurare la repubblica. Le tendenze sinceramente comuniste (i gruppi internazionalisti di Torino, Milano, Asti, Casale Monferrato, Sesto San Giovanni, Parma, Firenze, Bologna; Stella Rossa di Torino; Bandiera Rossa di Roma; ecc.), verranno sistematicamente soffocate e i militanti rivoluzionari perseguitati e assassinati anche dagli stessi partigiani togliattiani Tra i tanti ricordiamo: Fausto Atti, ucciso il 27/3/45 a Trebbo di Reno (Bologna) da partigiani del pci; e Mario Acquaviva, ucciso a Casale Monferrato da un sicario del pci l’11/7/45. Tra il 1 e l’8 marzo 1944 gli operai delle fabbriche del nord attuano uno sciopero generale contro gli occupanti tedeschi e per una pace immediata. Nella primavera del 1945 le armate anglo-americane raggiungono il Po: i nazi-fascisti, stretti in una morsa, sono sconfitti. Primo capo del governo dell’Italia liberata dall’occupazione tedesca è il capo partigiano Ferruccio Parri, del cui ministero fanno parte tutti e sei i partiti che hanno partecipato alla resistenza anti-fascista, e cioè quello liberale, quello democratico del lavoro, la democrazia cristiana, il partito d’azione, il partito socialista e il partito “comunista” italiano. Col 25 aprile 1945, nel mentre si chiude la parabola fascista dell’imperialismo italiano, si apre la parabola democratica dell’italo-imperialismo. Se oggi fascisti e antifascisti si ritrovano insieme ciò avviene non perché il berlusconismo abbia rimosso la Resistenza, i fatti storici non si possono cancellare; ma perché fascismo e antifascismo rappresentano due modi diversi o contrapposti di perseguire gli stessi interessi borghesi, la medesima affermazione dell’italo-imperialismo. Il movimento partigiano nel suo insieme, fu uno schieramento patriottico a favore di una coalizione imperialistica (l’anglo-americana-francese appoggiata dalla Russia) contro l’altra (la nazi-fascista dell’asse Germania-Giappone-Italia). È naturale che i due tipi di borghesi, di controrivoluzionari e di anticomunisti si ritrovino insieme a difesa dello stesso interesse (la difesa dell’italo-imperialismo), anche se non è escluso che possano ritornare quanto prima a scannarsi da sponde opposte in nome della patria, della libertà o della civiltà occidentale. Quindi su questo terreno l’opera di mistificazione compiuta dal governo Berlusconi non è tanto più perniciosa di quella svolta dal governo D’Alema, per non andare più indietro nel tempo. Ricordiamo, pertanto, questo 25 aprile per attrezzarci meglio nella lotta proletaria contro l’italo-imperialismo, non per piagnucolare contro il revisionismo storico. Nell’immediato, rintuzziamo sul nascere gli attacchi dello squadrismo fascista, formando i comitati proletari di auto-difesa e di attacco alla borghesia e ai suoi scagnozzi. v.: La Sinistra comunista e la Resistenza
 

 
Cane_nero
Cane_nero il 25/04/07 alle 22:39 via WEB
Eì bello trovare questo blog il 25 Aprile :)
 

 
Utente non iscritto alla Community di Libero
Anonimo il 26/02/07 alle 00:04 via WEB
Guardate un poco che razza di losco individuo ha in mano le sorti del governo Italiano!!!
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antifascistavt
antifascistavt il 08/02/07 alle 17:38 via WEB
Avendoci accusati di antidemocrazia, forse vorresti farci capire che la tua “democrazia” (quella fascista) sia di gran lunga migliore. Sinceramente il dualismo Prodi Berlusconi non era di certo la prerogativa di chi saliva in collina per sparare ai fascisti. Il fatto che poi la cosiddetta destra radicale si appropri schifosamente delle lotte della sinistra ritoccandole qua e la per riempirle di razzismo e nazionalismo, dovrebbe farti capire quanto siete inutili ed attaccati a quel pezzo di storia che vi ha visti sconfitti e che dovete a tutti i costi rigurgitare. Siccome non vogliamo che si alimentino sterili discussioni nel nostro blog, eviteremo di dare spazio alle ulteriori provocazioni “destroidi” che si dovessero ripresentare. CAT
 
 
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Petizione Contro l'intitolazione della Circonvallazione a Giorgio Almirante

Il giorno 19/07/2006 il sindaco di Viterbo ha intitolato una parte della circonvallazione di Viterbo a Giorgio Almirante.

Almirante è stato uno dei redattori della rivista “La difesa della Razza” caratterizzata da feroce e becero razzismo ed antisemitismo.

Militante attivo della Repubblica sociale di Salò che, alleata dei nazisti, torturava e massacrava i cittadini italiani democratici, è stato, dopo la guerra, tra i fondatori dei Movimento Sociale Italiano, diventando poi segretario dello stesso partito. Il MSI di Almirante, si caratterizzò anche come organismo politico che mitizzava la dittatura mussoliniana e che esaltava anche le dittature contemporanee, come la dittatura greca dei Colonnelli, la dittatura militare Turca e il colpo di stato cileno, mentre denigrava ed offendeva il movimento antifascista e la democrazia repubblicana italiana. Il MSI di Almirante si rese protagonista inoltre di una miriade di aggressioni contro studenti, operai e militanti democratici con conseguenti ferimenti ed omicidi.

Lo stesso Almirante partecipò attivamente all’attacco violento contro la facoltà di giurisprudenza insieme al collega Caradonna.

Almirante ancora protagonista di un inquietante episodio collegato alla strategia della tensione. Viene infatti incriminato per favoreggiamento del terrorista Cicuttini, autore della strage di Peteano. Si salverà con l’amnistia.

La storia politica di quest’uomo, si chiude senza alcun riconoscimento delle battaglie civili che hanno contribuito alla costruzione della democrazia italiana.

Intitolare a questo personaggio una via di una città italiana, significa quindi offendere chi è morto lottando contro i nazifascismi ed offendere chi ha speso la propria vita per costruire e rafforzare la democrazia italiana.

Chiediamo rispetto per l’Italia. Chiediamo che questa targa sia rimossa dalle vie della città di Viterbo.

Per aderire inviate via e-mail il vostro nome e cognome all’indirizzo antifascistavt@libero.it

Iniziativa appoggiata dal Coordinamento Antifascista della Tuscia

 

 

 

 
 

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