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A teatro
Post n°138 pubblicato il 14 Gennaio 2013 da meninasallospecchio
Amo il teatro, da sempre. Ci vado meno di quanto vorrei, in provincia l'offerta è quella che è, ma quando posso, quando c'è qualcosa di interessante o insolito, vado sempre volentieri. Da quando è cominciato? Ero ragazzina, avrò avuto 15 anni. Dalla mia cittadina di provincia partiva un pullman, la domenica pomeriggio, appositamente organizzato per portare gli abbonati al Teatro Stabile di Torino. I miei non mi avrebbero mai pagato un simile lusso, ma avevo dei vicini di casa che mi offrivano un posto quando qualcuno era assente. La prima volta che andai a teatro a Torino era uno spettacolo da Pasolini, Affabulazione, con Paolo Bonacelli. Ma soprattutto, era il Teatro Carignano.
Per chi non conosce Torino, il Teatro Carignano è un gioiello dell'architettura barocca, un piccolo scrigno di 875 posti, splendente di stucchi dorati, accogliente di morbidi velluti e sonorità ovattate. La provincialotta quindicenne con pensieri suicidi rimase senza parole. Quando la voce calda e profonda di Paolo Bonacelli avvolse la platea, per me fu una rivelazione. Mai più senza. Andai altre volte a Torino: con il pullman dei babbioni, con la scuola, a quelle matinée di studenti rumorosi. Eppure me le ricordo ancora. Glauco Mauri in Riccardo III. Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo. La sorprendente scenografia di Enrico Job per Musik di Wedekind, con la regia di Missiroli. E poi ancora, quando fui finalmente a Torino per studiare, di nuovo Glauco Mauri per Brecht, Il signor Puntila e il suo servo Matti. Era una prima, con le signore in abito lungo, e io studentessa con i jeans, sola, anche se la mamma mi aveva detto di non girare sola per Torino di sera. Erano altri tempi, i primi anni '80. Torino era ancora la città delle BR, la sera in strada non c'era nessuno, i pochi passanti camminavano raso ai muri, paurosi l'uno dell'altro. Veniva a volte qualcuno con me, compagni di università, un concittadino compagno di viaggi in treno. Ma non si può sempre aspettare gli altri per fare ciò che ci piace, questa è una cosa che ho imparato presto. Così accantonavo la paura per avventurarmi su strade deserte e ritrovare la gioia di un teatro gremito, delle luci, delle voci, della concentrazione. Forse ho una forma lieve della sindrome di Stendhal. Mi capita di essere emotivamente sopraffatta dalla bellezza al punto di avere una sensazione fisica. A volte mi è successo anche a teatro. Altri tempi. Il teatro era innovativo. Lo Stabile era diretto da Missiroli, mentre in una sala di periferia si esibiva il Gruppo della Rocca, cooperativa teatrale di professionisti dalle performance spesso acrobatiche, diretto da Roberto Guicciardini. Beckett, Brecht, Ionesco... ma stava finendo. Dall'85, sotto la sciapa direzione di Gregoretti, il teatro tornò ad essere una faccenda da madamin: spettacoli della tradizione, allestimenti convenzionali. Finché non irruppe Ronconi. I tempi erano cambiati e Ronconi era troppo per il pubblico conservatore di Torino. Le madamin uscivano scandalizzate dai suoi spettacoli troppo lunghi e spesso (diciamolo) troppo costosi. Nel 1990, al Lingotto, l'incredibile Gli ultimi giorni dell'umanità, uno spettacolo-evento, con 60 attori, macchine d'epoca, un vero treno, quadri scenici paralleli e contemporanei, con gli spettatori liberi di muoversi fra le varie scene seguendo ora l'uno ora l'altro spezzone dell'opera. Indimenticabile. Sono felice di poter dire: io c'ero. (continua)
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