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La conclusione
Post n°499 pubblicato il 01 Febbraio 2016 da meninasallospecchio
Il tema è sempre stato la peggior rottura di coglioni nella vita di uno studente. Già considerato antiquato da Augusto Monti e da vari pedagogisti ottocenteschi, è sopravvissuto indenne a tutte le riforme della scuola, oggi affiancato, ma non soppiantato, da altre forme di componimento. Il tema è il peggior ricettacolo di banalità che uno studente medio, e persino uno studente bravo, riesca ad assemblare. Ti insegnano che è così fatto: un’introduzione, per entrare in argomento; uno svolgimento, per sviluppare le idee che non hai e che dovrai stiracchiare all’inverosimile; e una conclusione, in cui tirerai le fila del nulla cosmico per il quale hai sacrificato una porzione minuscola ma in ogni caso eccessiva dell’Amazzonia. Per lo studente medio, e anche per quello non medio, i momenti più tragici sono quelli dell’introduzione e della conclusione. Perché non si sa come cominciare. Allora si inizia con la madre di tutte le banalità: “Al giorno d’oggi…”. E già lì il prof sfodera la penna rossa, se non proprio quella blu. Al giorno d’oggi: francesismo. Ah sì? E come si dice? Si dice oggigiorno. Ok. “Oggigiorno…” e a seguire un pistolotto insulso che spiega quanto l’argomento di cui ci si accinge a disquisire sia diventato oggigiorno di rilevanza alquanto significativa. Fatico a ritrovare quel sentire. Possibile che da adolescenti si sia così irrimediabilmente banali? Ma non dovrebbe essere un’età di ribellione, di forti sentimenti, di ricerca dell’identità, ecc.? Perché allora la mente partorisce solo cazzate? Cioè, non cazzate, quello lo capirei: insulsaggini rimasticate degne del peggior conformismo. Dicevo che non mi ci ritrovo. Iniziare un post non presenta per me alcuna difficoltà, l’introduzione è persino talvolta stimolante. Si obietterà che sono libera di scegliere gli argomenti di cui parlare e che quindi nell’introduzione posso facilmente cavarmela descrivendo il contesto personale in cui il post è stato concepito. Certo, ma io scrivo persino più facilmente se obbligata a un particolare soggetto e ciò nonostante entrare in argomento non lo trovo problematico. Più difficile uscirne, la famosa conclusione. Questa mi angustia ancora oggi (oggigiorno?). Quando, succhiando la biro, vagavi con lo sguardo sulle nude pareti dell’aula cercando un’improbabile ispirazione e il prof ti chiedeva ragione della tua espressione infelice: “Non so come finire”, replicavi. A quel punto il prof la faceva facile: “Se non hai più niente da dire, smetti di scrivere”. Be’, se è per quello non avevo niente da dire neanche prima. Insomma, se il tema fosse pregno di contenuti, uno potrebbe anche mollarlo lì dopo aver snocciolato le ultime perle di saggezza. Ma una ridda di scemenze merita di essere adeguatamente conclusa con una scemenza finale e definitiva o, meglio ancora, che apra le porte della speranza di un radioso futuro. Possibilmente concepita in modo convenientemente involuto, per far passare ogni desiderio di leggere oltre. Magari strappando un’esclamazione: “Meno male che è finito, di più non ce la potevo fare!”. Bene. Questa ansia da prestazione conclusiva ce l’ho ancora. Cioè il post dovrebbe finire con una frase scherzosa, di qualità migliore delle precedenti, secondo una logica di crescendo. Oppure con una frase molto profonda che induca il lettore a meditare su quanto ha letto. Oppure, e questo è più facile, con un rimando a sviluppi futuri, non si sa quanto radiosi. Ma in genere non mi viene in mente niente. A volte i miei post languono nel limbo per qualche giorno in attesa di una conclusione adeguata. Per dire, anche questo, come lo finisco? Vado avanti a scrivere in attesa che mi venga in mente qualcosa? Potrei continuare per ore, non mi costa nessuna fatica, e anche l’Amazzonia non ne risente. Però in effetti potrei anche smettere. Massì, smetto.
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