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Vesuvio
...ma chi l'osserva non lo guardi solo come motore ,o come divoratore e consumatore ,ma lo guardi come creatore attivo di quanto abbiamo con noi,poichè l'ingegno,l'operosità ,la gesticolazione,il discorrer molto,l'urtarsi,il minacciar con le mani innanzi,non son che impulso vesuviano.
Quella facoltà eruttiva che han molte delle terre napoletane ,l'argillo della napoletana creatura possiede,e la fibra mossa e rimossa dagli operosi fluidi elettrici e magnetici fa del napoletano spesso un pazzo piacente o un sincero curioso (Carlo Tito Dalbuono)
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Il romanzo delle stragi
Io so.Ma non ho le prove.Non ho nemmeno indizi.Io so perchè sono un intellettuale,uno scrittore che cerca di seguire tutto ciò che succede ,di conoscere tutto ciò che se ne scrive ,di immaginare tutto ciò che non si sa o che si tace ;che coordina fatti anche lontani ,che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero coerente quadro politico ,che ristabilisce la logica là dove sembrano regnare l'arbitrarietà,la foliia e il mistero.
PierPaolo Pasolini
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da un articolo di ANDREA SCANZI apparso su la stampa
A 67 anni si esibisce in luoghi defilati. "Sul palco per non diventare un mito"
AOSTA
Chatillon se ne è rimasta placida, ai piedi del Monte Cervino. Non ha percepito l'evento, che infatti non c'era. Bob Dylan ha scelto il parco del Castello Baron Gamba come ultima tappa del suo minitour italiano (dopo Trento e Bergamo), e anteprima del festival Aosta Classica. Da 20 anni, Dylan vive on the road, come scriveva Jack Kerouac. Per certi aspetti è più beat oggi di ieri. Era il 7 giugno 1988, uno dei momenti più bassi della sua carriera. Da allora, più o meno, non si è mai fermato. Il 16 ottobre 2007, in Ohio, ha festeggiato il duemillesimo concerto del tour. La media annuale è scesa da 150 serate a 90-100: sempre molte, per un uomo di 67 anni che non si è fatto mancare nulla e che nel 1997 è scampato a una grave malattia cardiaca.
Lo chiamano Never-Ending Tour, tour senza fine. «Ciò che faccio è qualcosa di molto immediato», ha detto in una delle poche interviste andate al di là di stizziti monosillabi: «Salgo sul palco, canto e ho una risposta. Il mio suonare è talmente immediato da cambiare la natura stessa dell'arte. Non voglio diventare il mito di me stesso». Sembra paradossale, ma questa sovraesposizione ha anzitutto a che fare con l'aspirazione all'assenza. Se Lucio Battisti aveva tentato di emanciparsi dal proprio mito scomparendo e riapparendo saltuariamente sotto mentite spoglie, da musicista nazional-popolare a cantante futurista folgorato sulla via di Panella, la negazione di sé di Dylan è pirandellianamente legata a questa ciclicità dimessa, fatta di concerti minori e luoghi periferici. I Pink Floyd, se si riunissero, sceglierebbero di nuovo Venezia o Pompei. Per Dylan il luogo meno battuto è una sorta di ulteriore "punizione" al proprio ruolo di mito. Bob Dylan si mostra - di continuo - per non mostrarsi, per allontanarsi dall'idea cristallizzata che gli altri hanno di lui, quella del Profeta che predisse la pioggia acida. Quel Dylan è morto a Woodstock il 29 luglio 1966, quando un banale incidente motociclistico coincise con una decisiva pausa sabbatica. Disse di avere rischiato la vita, non aveva nemmeno chiamato l'ambulanza. Per un po' si nascose negli scantinati a suonare con The Band. Poi, nel '68, l'anno della protesta, tornò con un disco biblico, John Wesley Harding.
Dylan non è mai venuto a patti con la propria identità. Si è cancellato il vecchio nome all'anagrafe, se trova un opuscolo con scritto «Robert Allen Zimmerman» è capace di cancellare il concerto. In Pat Garrett e Billy The Kid, per cui scrisse Knockin' on Heaven's Door, interpretava un bandito dal nome emblematico, Alias. E la fine dei Settanta l'ha vissuta da «rinato cristiano»: lui era l'apostolo, i concerti «un lungo calvario». Ora il calvario è diventato altro: sovraesposizione minimale, anelito alla normalità. Sul palco sale con un cappello che ne nasconde il volto, ormai centrifugato dalle rughe. La voce, un tempo di sabbia e catrame, è ormai carta vetrata. I concerti quando va bene sono piacevoli, quando va male orribili. I set acustici li lascia per i brani che conosce solo lui, quelli elettrici per punire i successi lontani (ieri ha letteralmente devastato All along the watchtower). Garantisce che «quella attuale è la mia migliore band»: due chitarre, basso, batteria, violino, e lui che passa dall'armonica alla tastiera. Ha abbattuto anche il rituale delle prove, nessuno tranne lui conosce la scaletta: «Provare una canzone vuol dire semplicemente saperne titolo e tonalità».
Sul palco non concede nulla. Due ore scarse di blues e r'n'r quasi scolastico, col pubblico che spera nel grande classico e alla fine ci rimane male. Colleziona ancora paranoie. A Bergamo si è imbufalito quando ha visto la sua immagine su una mongolfiera che pubblicizzava un festival con i Pankreas in cartellone. Ha alloggiato nell'hotel più lussuoso di Saint Vincent (il Grand Hotel Billia, a due passi dal Casinò) e chiesto un Suv con vetri oscurati. Ha l'incubo delle riprese, odia i videofonini, dice che le macchine fotografiche «immortalano spettri». Ha mandato il suo staff a comprare pesce fresco ad Aosta, chiedendo 100 chili di ghiaccio per mantenere inalterato il cibo a colazione, pranzo e cena.
La cosa più semplice sarebbe liquidare Dylan al ruolo di postumo di se stesso, ma la sua arte ha costantemente dato segno di sé ben oltre i Sessanta, da Blood on the tracks a Oh Mercy. «Provate a immaginare un posto dall'aria calda e sicura», cantava in Shelter from the storm (Riparo dalla tempesta). Qualcosa che protegga dalla «morte che ha occhi d'acciaio», «dalle corone di spine», «dalle informi creature». Questo è per lui il palco: riparo dalla tempesta. Più ancora, da se stessi.
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