Creato da sottoilsette il 24/03/2005

sottoilsette

Uno sguardo tra tanti

 

 

Riflessi condizionati

Post n°166 pubblicato il 13 Maggio 2013 da sottoilsette
 
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Non so da quanto tempo sono fermo a questo semaforo.

Credo di aver perso completamente la cognizione del tempo di questa giornata.

Osservo senza rendermene conto l’albero alla mia destra. Il marciapiede d’asfalto sollevato dalle sue radici, il bordo in marmo scardinato dalla sua forza. Poi lo guardo meglio e mi rendo conto che quel grande albero, probabilmente, è secco. Nero, nodoso, i rami senza foglie. Dove è stato potato, è scuro.

Da giovane, nulla ha potuto resistere al suo impeto, ed ora eccolo lì. Morto, e ancora non lo sa.

Non posso fare a meno di reprimere un sorriso amaro mentre faccio questi pensieri tristi.

All’improvviso, un suono fastidioso erutta dietro di me.

Un clacson. Persistente, prepotente, Prolungato. La versione metallizzata di un mammut. Senza rendermene conto, il mio piede entra in modalità “on” un microsecondo prima che la testa si sia voltata completamente.

Maledetti riflessi condizionati. Il solito imbecille frettoloso ha suonato appena il semaforo è diventato verde, non un secondo più tardi, e io, come un idiota, ho tamponato la macchina davanti a me.

Scendo rapidamente per vedere se chi è davanti a me si è fatto male. Tanto è inutile stare a discutere, la colpa è mia, anche se posso ringraziare il conducente del mammut. Che sorpassa tranquillamente scartando alla mia destra. Osservo con la coda dell’occhio che rischia in diretta di causare un altro incidente. Per fortuna chi viaggia sulla corsia di destra si rende conto che Tarzan va di fretta e preferisce lasciarlo passare.

Sembra non sia successo niente di grave, per fortuna. Vedo però che i rispettivi parafanghi (e probabilmente qualcos’altro sono da rifare). Pazienza. Tanto ho problemi più seri alla mia, di carrozzeria.

Mi avvicino allo sportello. C’è una ragazza. Sembra spaventata. L’airbag è scattato e la stringe tra volante e sedile.

-         Sta bene? – le faccio.

-         Sì. No. Cioè… che è successo?

Evito di raccontarle di Tarzan e dell’albero e passo direttamente a tranquillizzarla. Meglio.

-         Colpa mia, sono partito appena scattato il verde e temo di averla tamponata. Mi dispiace. Pensa di avere qualcosa di rotto?

-         No. No, credo di no. Mi può aiutare con questo …coso, prima che mi metta ad urlare?

-         Penso proprio di sì. Non si muova.

Realizzo a metà tra la mia macchina e la sua quanto è incredibilmente idiota quello che ho detto. Ma ormai è tardi. Apro il cassettino sotto il volante e prendo il milleusi. Apro le forbici e rapidamente conficco la parte appuntita nel sacco. Che, per fortuna, si sgonfia rapidamente.   

-         Grazie.

-         Non mi ringrazi, se non era per me non avrebbe avuto il problema.

-         La ringrazio lo stesso. Il gesto di prima non l’ha fatto apposta, questo sì.

Rimango interdetto dalla risposta. In genere, in casi come questo, prima partono gli accidenti e dopo, forse, si passa al ragionare.

-         Mi fa scendere, per favore?

-         Non credo sia il caso. Meglio aspettare che arrivi qualcuno di esperto. Non vogliamo rischiare che mi svenga sulla strada, no?

-         La prego.

Fortunatamente non devo insistere. Sento il suono di una sirena avvicinarsi.

-                     Visto? Adesso starà in mani migliori delle mie.

-         O almeno in piedi migliori – mi fa lei sforzandosi di sorridere.

-         Se le va di scherzare, sicuramente vuol dire che troppo male non sta.

-         Ne riparleremo dal meccanico del mio stato di salute… quando mi farà vedere il conto.

Non faccio in tempo a proseguire la schermaglia verbale che mi sento tirare il braccio. In men che non si dica, la cortesia di un pizzardone romano (molto romano) mi fa capire che devo allontanarmi dal “luogo dell’incidente” e “lasciare fare a chi fa il suo mestiere”, visto che “ho già fatto abbastanza”. Credo almeno che si sia espresso in questa forma, se ben ricordo e se ho ben tradotto.

Cerco di prestare attenzione a ciò che sta venendo verbalizzato, mentre con la coda dell’occhio continuo a cercare di capire se la mia “vittima” stia bene, mentre dei ragazzi scesi con l’ambulanza la fanno scendere delicatamente e la controllano con attenzione. Credo che sia andato tutto bene, per fortuna. La mia assicurazione penserà al resto.

Tanto, probabilmente, non pagherò l’aumento del premio l’anno prossimo. A pensarci, quasi sbotto a ridere in faccia a questo simpaticone in divisa che mi sta redarguendo, pensando che io sia un irresponsabile. Rinuncio a raccontare anche a lui la storia di Tarzan, tanto penserebbe ad una balla. Annuisco distrattamente cercando di non sghignazzare, e osservo la ragazza mentre gli infermieri cercano di farla camminare per vedere se è in equilibrio.

E all’improvviso la scena sembra rallentare. Un vento improvviso solleva una nuvola di petali rosa intorno alla sua figura.

Saranno petali di pesca o di mandorlo? Non ho mai capito la differenza.

Lei rotea su se stessa quasi per difendersi da quel piccolo vortice, ma nella luce sembra quasi una danza primaverile, con la sua gonna chiara e i suoi capelli lunghi a fare da contraltare a quella pioggia benevola.

E’ bella.

Cosa non darei per una macchina fotografica.

Ma l’attimo passa, la macchina non ce l’ho e osservo la ragazza che mi saluta con una mano mentre la portano via per accertamenti.

Alzo la mano anche io, e mi ritrovo con un pezzo di carta in mano.

-                     Ma …cos’è?

-         Visto che nun ascorti, armeno leggi.

Una multa. Che simpatia.

Più tardi, a casa, leggerò. Ma prima qualche cosa di forte e un film scacciapensieri. Con pizza rigorosamente ordinata.

Visto l’articolo numero… bla bla bla… il conducente… bla bla bla… 65 euro.

Un tiro da tre punti nel lavandino della cucina, dove ci sono i piatti sporchi di tre giorni, accoglie gli auguri di pronta guarigione del comune di Roma. Roma Capitale, per la precisione.

Come se fino a cinque anni fa il Quirinale fosse stato a Pescara, aggiungo. Mah.

Il suono del telefono mi risveglia da quei pensieri oziosi a metà tra una sbronza leggera ed un sano abbiocco.

Non ci sono più abituato, penso. Ma chi sarà mai a quest’ora?

-         Pronto?

-         Ciao, Andrea. Sei tu, vero?

-         Sì, sono io – faccio esitante – ma..?

-         Non mi riconosci, vero? Non speravo di beccarti. Ho ritrovato il numero di casa tua su una agendina vecchissima e non ero sicura che vivessi ancora lì. Del resto, dopo tutti questi anni, potevi ancora vivere con i tuoi?

-         I miei purtroppo non ci sono più. Ci sono solo io. Ma …chi sei?

-         Eppure ci siamo visti solo poche ore fa…

-         Sei la ragazza dell’incidente? Ma… come fai a conoscermi?

-         Andrea, andavamo a scuola insieme fino alle medie. Cambiano tante cose, ma non gli occhi. Sono Sabrina. Unite ai tuoi modi, ti ho riconosciuto subito. Nonostante la botta.

Sabrina? Sabrina chi?

Come mi avesse letto tra i pensieri, aggiunge:

-                     Sabrina Toro – e, dopo una lunga pausa - Scemo.

Dio ama le coincidenze, evidentemente.

-         Non posso crederci.

-         Non farlo, allora. Comunque, volevo ringraziarti. Sei stato molto gentile e premuroso. Ho visto che fino all’ultimo ti sei assicurato che stessi bene.

-         Non ho fatto niente di speciale, ti giuro.

-         Avevo ragione, non sei cambiato affatto. Senti, ti sto chiamando dal Pertini. Volevo tranquillizzarti, non è niente di grave. Come pensavo, sta peggio la macchina.

-         Sono contento. Tra quanto esci?

-         Se va tutto bene, domani mattina mi lasciano libera.

-         Se non hai nessuno che ti venga a prendere, ti posso dare un passaggio io.

-         Non ti disturbare, non ce n’è bisogno.

-         Tranquilla, passavo comunque da quelle parti domani mattina.

-         Le coincidenze.

-         Già.

-         Buona notte.

-         Notte.

Attacco il telefono e bevo l’ultimo goccio di… qualcosa. Metto la sveglia sul telefonino e reclino la testa sullo schienale. Il buio arriva presto.

 

 

 
 
 

Star Trek - Seconde possibilità

Post n°165 pubblicato il 08 Aprile 2013 da sottoilsette
 
Foto di sottoilsette

Quella sciarada stava finalmente per finire. Questo era l'unico pensiero del capitano Harriman, mentre furiosamente lottava con Kirrn sul suolo del pianeta. Gli era costato molto aspettare fino all'ultimo minuto per assaltare la sua squadra di terroristi Klingon, ma sapeva che contro dei guerrieri esperti doveva usare il cervello, e non l'istinto.

Adesso, finalmente, sapeva che non doveva più trattenersi. Aveva dovuto pazientare mentre Kirrn e i suoi avevano vigliaccamente abbordato l'Enterprise alla cerimonia per il quinto anno dell'anniversario dell'accordo di Khitomer, mentre la maggior parte dell’equipaggio - lui compreso - stazionava sulla superficie, e l’aveva diretta verso quel pianeta proibito persino alle navi federali.

Aveva dovuto pazientare due - ben due giorni - a bordo della USS Excelsior, in orbita opposta dietro il pianeta, mentre Kirrn si faceva beffe dei codici di sicurezza della Federazione per sbarcare davanti al Guardiano dell’Eternità, minacciando di schiantarsi con tutta la nave su quello che aveva definito beffardamente "un vecchio pezzo di roccia" se avessero interferito con i suoi piani. La minaccia aveva sortito il suo effetto: nessuna nave della flotta si era avvicinata al pianeta. Ed era logico. L’Enterprise poteva resistere a un assalto abbastanza a lungo per tracciare una rotta di collisione con l’antico manufatto.

Giocare col continuum spazio-temporale, però, era una cosa pericolosa, come il consiglio della Federazione sapeva bene. Per questo Harriman era stato autorizzato a compiere qualunque azione avesse ritenuto necessaria.

Il piano di Kirrn era molto semplice: entrare nel Guardiano cercando di emergere prima dell’esplosione di Praxis, il pianeta principale fornitore di risorse dell’Impero Klingon, e prevenirla. L’Impero non avrebbe mai stipulato la pace con la Federazione e i terrestri, sotto la guida di un condottiero come lui, sarebbero stati annullati.

Il piano di Harriman era ancora più semplice: fermarlo ad ogni costo.

Alla guida di un commando di specialisti formato in parte dal suo equipaggio e in parte da quello dell’Excelsior, la stava avendo vinta con facilità, fino a quando Kirrn non aveva esitato a far esplodere una bomba sonica che aveva spazzato via più della metà dei combattenti Klingon e federali.

E adesso, circondati da corpi vivi e morti, solo lui e Harriman stavano combattendo, scambiandosi velenose parole e feroci colpi.

-          Arrenditi…. È finita, Kirrn…

-          Patetico terrestre… non… sei degno di un guerriero Klingon…

-          Arrenditi… ho detto…

-          Ahhh… non sei altro che una patetica imitazione… di un guerriero…

Dietro di loro, mentre intorno cominciava ad alzarsi il vento, un turbinio di colori proveniva dal Guardiano dell’eternità. Una voce limpida esclamò improvvisamente:

-          Qual'è la tua domanda?

-          Finalmente!!! - esclamò Kirrn, divincolandosi quel tanto che bastava per allontanare Harriman.

-          Noooo!

Kirrn colpì Harriman con un potente calcio, alzandosi in piedi e avvicinandosi al Guardiano. In piedi di fronte alla roccia, estasiato dai colori e dalle rapide immagini in successione, Kirrn si fermò, prima di  fare la sua domanda.

-          Troppo tardi, terrestre… Guardiano! Voglio….

Non finì mai la frase. Un coltello Klingon gli trapassò la gola, interrompendo le sue parole.

-          Non avrei voluto, Kirrn. Mi ci hai portato tu. - Furono le parole di Harriman mentre ancora aveva il braccio teso nella direzione del colpo mortale che aveva dovuto sferrare. Si diresse a esaminare il cadavere, quando si rese conto che il vento non accennava minimamente a cessare. E a quel punto accadde una cosa ancora più strana. Il Guardiano parlò di nuovo.

-          Ti ripeto: qual'è la tua domanda?

Da quello che Harriman sapeva, era un evento raro vedere il guardiano rivolgersi a qualcuno. Per anni gli scienziati della federazione avevano cercato di stabilire un contatto con quel “vecchio pezzo di roccia”, non essendo ancora riusciti a stabilire se fosse un sofisticatissimo computer o una forma di vita. Si sapeva che era antichissima, forse addirittura antecedente alla formazione del sistema solare terrestre.

Quello che era certo è che era un meccanismo potente di trasporto spazio-temporale, in grado, apparentemente a suo piacimento, di portare dei viaggiatori dove volessero nello spazio e nel tempo. Ma nessuno aveva mai capito come usarlo.

Ed ora aveva parlato. Dopo almeno dieci anni. E il John Harriman, capitano della USS Enterprise NCC-1701-B, aveva realizzato che non stava parlando con Kirrn, ma con lui.

E, forse, aveva capito anche quale era il motivo. Senza parlare, si incamminò verso il guardiano, attraversando la sua apertura luminescente.

Fu una sensazione strana. Gli sembrava di essersi svegliato dopo un lungo sonno. Era seduto sulla radice di un grande albero, sotto un caldo sole primaverile. Ricordava vagamente di aver attraversato un paesino, la notte prima, e di aver immaginato che fosse Natale, perché all’interno delle case alcune famiglie si stavano scambiando doni intorno al fuoco, ma ora non ne era più così sicuro. Alzò lo sguardo al cielo, riparandosi gli occhi con una mano. Senza una ragione apparente, si alzò e si incamminò. In qualche modo, sapeva dove andare.

Dopo poco tempo (minuti? Ore?) arrivò al perimetro esterno di una fattoria. In lontananza, un  cavalli stava galoppando in quella direzione. Con sopra un uomo e una donna.

Alzò una mano per salutarli. Era arrivato esattamente dove voleva, dove doveva arrivare. Aveva finalmente compiuto la sua missione.

E fu a quel punto che una mano si posò sulla sua spalla. Gentilmente, ma con fermezza.

Harriman si voltò lentamente.

Una donna di colore lo guardava con occhi che emanavano saggezza e rispetto. Aveva un’aria in qualche modo familiare. Forse si conoscevano? Sembrava giovane, ma in qualche modo sapeva che aveva molti più degli anni che dimostrava.

-          Non dovresti essere qui - lo ammonì semplicemente.

-          Perché?

-          Quello che vorresti fare è sbagliato.

Harriman non capiva. Dopo tutta quella strada, non poteva fermarsi quando era così vicino a realizzare quello che aveva segretamente desiderato ogni giorno della sua vita negli ultimi quattro anni. E finalmente disse quello che forse qualcuno aveva immaginato, ma che nessuno aveva mai udito dalla sua bocca.

-          Dovrei essere io qui, non lui. Ha sacrificato la sua vita al mio posto, quando era compito mio proteggere i miei uomini. E invece se ne è andato via, così…

Abbassò lo sguardo. Provava vergogna e dispiacere, e un lacerante senso di sconfitta che in tanti anni di comando non aveva mai voluto ammettere. Si ricordò la frase “Solo un rapido giro del sistema….”

-          Sapeva quello che faceva, come sempre. Se ne è andato come ha vissuto. E sapeva anche che lei doveva crescere, maturare, come uomo e come capitano. Cosa che sta facendo con onore e merito.

-          Ma come faccio ad accettare che quell’uomo ne abbia pagato il prezzo al posto mio?

La donna lo guardò e sorrise.

-          Col tempo. Amico mio. Col tempo.

La voce gracchiante e disturbata lo richiamò di colpo ad un altro tempo, ad un’altra realtà.

-          Mi sente, capitano? La prego, risponda!

John Harriman sbatté gli occhi, stupito di doversi riabituare di colpo alla luce opaca del pianeta e alla polvere sferzante tutt’intorno a lui. Posò una mano sul comunicatore.

-          Qui Harriman.

-          Grazie al cielo… capitano, sono Tuchinski. Avevamo perso le sue coordinate, ma ora la abbiamo di nuovo. La nave è nuovamente sotto il nostro controllo, e i feriti sono stati portati direttamente in infermeria sull’Excelsior. Come si sente?

Sbattè gli occhi per un istante, guardando in alto verso la poderosa sagoma della nave. La sua nave.

-          Meglio, tenente. Direi molto meglio, adesso.

-          Come, Signore?

Si voltò verso il Guardiano, scorgendo ancora delle scintille provenire dalla sua soglia.

-          Nulla, tenente, nulla. Si prepari a farmi tornare su.

 
 
 

Latte

Post n°163 pubblicato il 02 Aprile 2013 da sottoilsette
 

Girando la chiave nella toppa, Alessandro si rese conto di quanto era stanco. Forse dovrei smetterla con questi turni, si disse mentalmente. Concordo col capo dei nuovi orari, e mi godo un po’ la vita. Magari mi sparo una settimana di ferie e ce ne scappiamo in campagna. Affidiamo la piccola alla nonna e ce ne andiamo in qualche posto che non abbiamo mai visto. In fondo, uno che sgobba come me gli conviene tenerselo buono. Ma prima di tutto, una bella tazza di latte e poi a nanna. Al resto, ci pensiamo domani.

Entrò piano, come faceva sempre quando entrava a quell’ora. Si tolse le scarpe per non svegliare la bambina e si diresse verso la cucina. La luce era accesa. Maria era seduta, e stava bevendo una di quelle cose che lui non riusciva nemmeno a pronunciare, figuriamoci berle. Si avvicinò e la baciò leggermente sui capelli.

-          Ciao, lavoratore. Ti ho lasciato un po’ di ciambellone di mia madre. Col latte ci sta bene.

-          Ehi… ancora alzata? Non sei stanca?

Maria fece spallucce con una espressione indecifrabile, mentre Alessandro metteva la tazza con il latte nel forno a microonde per riscaldarlo.

-          Mhhh… non è che la bambina sta poco bene? E tu… come stai?

Maria alzò una mano e la scosse, un po’ come per calmarlo e contemporaneamente per tacitarlo. Alessandro prese il suo latte e si accomodò vicino a lei al tavolo. Solo allora notò il cordless sul tavolo. Lei aspettò che si fosse seduto per parlare.

-          Alessandro, dobbiamo parlare.

Alessandro sentì il sangue gelare. Frasi del genere, si sa, non portano mai nulla di buono. Maria prese il telefono in mano e premette il tasto ‘play’ per fargli ascoltare un messaggio. La voce di un uomo, molto disturbata, crepitò nel silenzio della cucina. Il tono era incerto, tipico di chi non sa se sta facendo una cosa buona o meno nel fare una telefonata. Piena di pause e di incertezze.

-          Maria… scusami. Non… non avrei mai voluto chiamarti. Anzi… so che non avrei dovuto. Ma… ho un problema. Un problema serio… e davvero… non so cosa fare. Devo prendere una decisione… e temo che una decisione sbagliata possa… avere conseguenze disastrose… per me e per molte persone. So che… eravamo d’accordo che non ci saremmo sentiti mai più. Ma… qualche giorno fa… in una strana circostanza… ho trovato un tuo biglietto. …Ci ho pensato a lungo, credimi. E… ho bisogno di aiuto, Maria. Ma…in fondo… sono felice che tu non mi abbia risposto. Probabilmente… era destino. Bè… ciao. Scusa. Fai come se… non ti avessi mai cercato. In bocca al lupo. Per ogni cosa.

Alessandro non aveva bevuto un goccio di latte. Osservava quel telefono come se ne dovesse uscire un mostro o chissà che cosa.

-          Ma… che significa tutto questo?

-          Alessandro, è Massimo. Non lo hai riconosciuto?

-          Massimo? Quel Massimo?

Maria annuì con una smorfia.

-          Proprio lui.

-          Ma se mi hai detto che non l’hai più sentito da…

-          Ricordo bene quello che ti ho detto. E’ esattamente così.

-          E quanti anni sono passati?

-          Parecchi. Direi proprio parecchi.

Stettero un po’ di tempo senza parlare. Alessandro si portò la tazza alla bocca. Il latte era gelido. Fece una smorfia, e lo rimise nel microonde. 

-          Alessandro, conosco Massimo. Non mi avrebbe mai richiamato. Fidati. Lo so.

-          E allora?

-          Allora ha un problema serio. Un problema vero.

-          Un problema suo – puntualizzò Alessandro.

-          E’ vero – fece lei abbassando lo sguardo.

-          Ma…?

-          Ale, credo di aver capito a quale biglietto si riferisse Massimo.

-          E…?

-          In quel biglietto ci facemmo una promessa solenne. Ci promettemmo che qualsiasi cosa fosse avvenuta fra noi, non ci saremmo tirati indietro se uno di noi due avesse avuto bisogno l’umo dell’altro. Ci saremmo stati davvero. In qualunque circostanza.

Alessandro prese la tazza e bevve, cercando di immaginare che quella conversazione non stesse avvenendo. Il latte bollente gli ricordò che non stava vivendo un incubo.

-          Stai scherzando, vero?

-          Ale, ascolta. Sono seria. Non ti sto prendendo in giro. Sai chi è stato Massimo per me, e come non sia assolutamente niente per me adesso. E perché. Ma è anche una persona che non sa minimamente che cosa significhi chiedere aiuto al prossimo, per nessuna ragione. Piuttosto che farlo, si taglierebbe un braccio, te lo assicuro. E’ convinto che qualunque cosa che posa accadergli, lui possa farcela da solo. Piuttosto che chiamarmi, si sarebbe buttato al fiume. E’ per questo che sono stupita quanto te e ti ho voluto fare ascoltare questa telefonata.

Alessandro non credeva alle sue orecchie.

-          E’ uno stupido pezzo di carta, per Dio!

-          Ale, è ciò che mi rende… me. Da che mi conosci, io non ho mai mancato a una promessa. Mai. Anche nei confronti di chi ha mostrato di non meritarselo, e lo sai.

-          Ma lui…

-          Lui è zero. Ma io non potrei vivere sapendo che, mentre qualcuno che aveva bisogno del mio aiuto, io mi sono girata dall’altra parte e…

Maria non riuscì a proseguire la frase. Alessandro sapeva a cosa lei si riferisse.

Posò la tazza. Andò a prendere le scarpe.

-          Cosa fai? – gli fece lei.

-          Anche io ho fatto una promessa, tempo fa – le rispose sforzandosi di sorridere – ti accompagno.

-          Alessandro, preferirei di no.

La faccia di lui la colpì come un maglio, per quanto doveva sentirsi ferito ascoltando quella risposta.

-          Mi chiedi davvero molto.

-          Ti chiedo di guardare il fortino – fece lei indicando la stanza della bambina.

Si avvicinò e lo carezzò dolcemente. Una lacrima le colava lungo la guancia.

-          Non ho idea del motivo per cui sto andando. Ma so per quale motivo non posso fare a meno di tornare.

Lo baciò delicatamente. Prima che lui ne fosse pienamente consapevole, la porta si era già chiusa. Fissò a lungo il telefono, poi si decise a bere il suo latte.

Freddo. 

 
 
 

Sending out an s.o.s.

Post n°162 pubblicato il 17 Febbraio 2013 da sottoilsette
 
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Adoravo mio zio.

Certo non era una cima, anzi, nel piccolo paese dove passavamo le vacanze tutte le estati sentivamo più di una persona chiamarlo “lo scemo”, mentre correvamo a cercare un po’ di refrigerio al fiume correndo in mezzo alle vecchie strade acciottolate.

Ma erano facce grigie, tristi, solitarie.

Zio era sempre allegro, una fonte inesauribile di divertimento e racconti. Il massimo per dei ragazzini di dieci anni con tre lunghissimi mesi da passare, prima di tornare alla vita di città e alla scuola. E ogni estate era bella come la precedente, fino al militare, al lavoro e alle prime timide esplorazioni del mondo, così diverse da quelle estati di allora.

La vita, insomma. Quella che ti giri un attimo e non ti accorgi che sono passati dieci anni, come cantano i Pink Floyd.

Ma, all’epoca, non sapevamo ancora niente di tutto questo.

Il mondo si divideva nell’universo estivo tanto atteso, e quella lunga parentesi di nove mesi tra una estate e l’altra.

E Zio Pino era una costante di quella vita. Tu arrivavi a metà Luglio e sapevi che era lì. Aspettava tutti noi che fuggivamo da Roma e cercavamo un’oasi.

Si mangiava tanto, e bene. Si preparavano le bottiglie di conserva di pomodoro che riportavamo in città. Si cantava e si assaggiava il vino. Si giocava a nascondino e a pallone. Ci sbucciavamo le ginocchia un giorno sì e l’altro pure. Mamma e papà erano felici, più di quando stavamo a casa. Forse anche perché si vedevano solo il fine settimana. Per farci fare due mesi al paese stavano un mese a turno lì e un mese al lavoro in città.

E noi eravamo in vacanza.

Tolta un’ora interminabile di noiose letture ed esercizi (mamma era inflessibile in questo, papà non ne parliamo) il mondo era nostro. Mio e di mio fratello Giovanni.

E il paese e tutti i suoi dintorni erano il nostro campo giochi personale.

E’ vero, zio era eccentrico. Un po’ artista, un po’ contadino, un po’ rigattiere, aveva trasformato quella casa in una specie di museo.

Tre piani e un terreno immenso di non so quanti ettari, pieno di statue strane e oggetti che non sapevamo a cosa servissero.

Se gli chiedevi di quelle cose, non ti dava mai una risposta uguale al giorno prima! E ogni volta cominciava un racconto che ti teneva inchiodato per almeno un’ora.

Noi ascoltavamo estasiati.

Niente di strano che al paese lo trattassero come un forestiero. La spesa la facevano i miei. E ogni volta guardavano anche noi come se fossimo quasi degli invasori.

Problemi loro, se non sapevano farsi quattro risate.

Io adoravo quelle estati.

Tranne l’ultima.

Avevo quindici anni, e la sensazione che qualcosa stesse per cambiare. L’estate era bella, ma le cose non mi entusiasmavano più come una volta.

A volte amavo stare da solo, e facevo lunghe passeggiate in quei boschi.

Ricordo perfettamente come fosse ieri che incontrai mio zio sulla riva del fiume.

Mi invitò a sedermi, e fu come se mi leggesse nel pensiero.

E’ per tua mamma, vero?

No. Sì. Non lo so. Forse è solo una giornata storta. E’ che… io non…

Tranquillo, Saverio. Tutti hanno giornate storte, anche io.

No, tu no. Hai sempre un sorriso pronto e la battuta in tasca.

Vero. Ma solo quando vi vedo. Quando siete qui, è facile stare in allegria. Ma quando ve ne andate se ne va anche un po’ del mio sorriso.

Era la prima volta che lo sentivo parlare così.

Vieni, ti faccio vedere una cosa.

E mi accompagnò senza parlare troppo fino ad un casino della tenuta che usavamo spesso come castello per i nostri giochi. Ma non quell’anno.

Aprì. L’odore di umido e chiuso era molto forte.

Spalancò tutte le finestre per fare arieggiare. Improvvisamente, dal centro della stanza, alcuni riflessi improvvisi mi accecarono.

Ci misi un tempo lunghissimo a vedere chiaramente. Erano tantissime bottiglie di vetro, chiuse con tappi di sughero. Tutte diverse tra di loro, per forma e colore. Ognuna aveva dei pezzi di carta arrotolati al suo interno.

Ma cosa sono?

Messaggi in bottiglia.

Messaggi in bottiglia? Ma non dovrebbero essere sulle spiagge, lanciati dai naufraghi?

Ci sono naufraghi e naufraghi. C’è chi affida i suoi pensieri al mare, e chi alla terra. E tutti finiscono da qualche parte perché qualcun altro possa trovarli.

E questi di chi sono? Perché sono tutti qui?

Perché ogni messaggio in bottiglia cerca un destinatario, e intanto fa un lungo giro. Spesso passano di qua, prima di trovarlo. E io le ospito volentieri.

Rimasi un tempo lunghissimo a guardare quello strano arcobaleno. Volevo tuffarmi sulla prima bottiglia che avevo visto, uno strano fiaschetto verde sopra una credenza, ma qualcosa mi trattenne.

Zio Pino capì e mi lasciò stare.

Sarà quando sarà destino, sentenziò.

Chiuse la porta e tornammo a casa.

Era l’ultimo giorno di quella strana, diversa estate. Ancora non lo sapevo che sarebbe stata l’ultima per lungo tempo.

Capitò quello che capitò.

E non tornai più al paese se non per piccole fughe dalla vita di città. Il vento mi aveva portato altrove, e quel particolare episodio, come tanti altri, fu dimenticato.

Mi allontanai da zio Pino senza accorgermene, come cambiano tante cose quando cresci. In fondo era normale.

Me ne resi conto appieno solo quando se ne andò anche lui. E la casa del paese, come tante altre cose, passò nelle mie mani e in quelle di mio fratello. L’avremmo usata per portarci i nostri figli in vacanza, seguendo la ruota che gira.

Poi capitò quello che capitò, e a portarci i figli fu solo lui.

Ma cominciai ad andarci lo stesso. il posto, in fondo, mi piaceva e aveva un sacco di ricordi belli. Era il mio nido quando l’aria si faceva pesante, la mia oasi dalla routine quotidiana.

Era un bel giorno di settembre quando mi ritrovai a fare una passeggiata che mi riportò al vecchio casino vicino al fiume. E mi venne la curiosità di vedere se aveva bisogno di essere risistemato, possibilmente prima che le piogge di ottobre lo massacrassero.

Lungo il vialetto inciampai.

Abbassai lo sguardo verso il basso e vidi una bottiglia.

Una bottiglia con un messaggio, che spuntava dal terreno.

La raccolsi.

Rialzandomi con la bottiglia in mano mi ritrovai con il sole in faccia. Girandomi, lo ritrovai in faccia lo stesso.

Ma da dove veniva quella luce?

Coprendomi la faccia osservai una scena stranissima che mi colpì come un pugno.

Decine, no… centinaia di bottiglie spuntavano dal terreno come funghi, riflettendo il sole basso che annunciava il tramonto.

Una scena surreale che risvegliò i miei ricordi come un secchio di acqua gelata.

Mi avvicinai al casino.

Aprii la porta senza difficoltà, aspettandomi di rivedere la stessa scena di tanti anni prima.

Ma non avvenne.

Il casino era vuoto. Abbastanza pulito ed ordinato, tutto sommato, ma era come se le bottiglie se ne fossero andate.

Uscii. Mi sedetti su di un tronco che spesso aveva funto da panchina durante le mie estati di tanti anni fa.

Guardavo la bottiglia, diffidente. Ma sapevo benissimo quello che avrei fatto.

 

Era impossibile. Semplicemente.

Non c’era una spiegazione logica per quello che vedevo. Forse stavo sognando, e quello che osservavo era il frutto di una fantasia figlia di tutto quello che avevo passato di recente.

Mi pizzicai.

Faceva male.

Per essere ancora più sicuro mi diedi uno schiaffo.

Faceva male anche quello.

Rilessi non so quante volte ciò che avevo estratto da quella bottiglia sulla quale ero inciampato. E continuavo a trovarlo impossibile.

Da quanto era lì, quella bottiglia?

Per quanto potevo immaginare, forse anni. La carta era indubbiamente rovinata.

Eppure quel pezzo di carta raccontava per filo e per segno quello che era avvenuto pochi istanti prima.

La mia storia.

Di me, che dopo tante estati passate al paese lo lasciavo, tornavo, trovavo una bottiglia, e decidevo di aprirla.

Esattamente nel modo in cui avrei raccontato questa storia a qualcun altro.

Guardai le bottiglie con timore.

Mi allontanai dal casino con passo felpato, quasi come se dovessi evitare degli animali feroci.

Tornai a casa con una strana inquietudine.

Quella notte non chiusi occhio.

 

 

 

 

 

 

 
 
 

Grandi speranze

Post n°161 pubblicato il 12 Febbraio 2013 da sottoilsette
 
Foto di sottoilsette

Guardavo quella maschera bianca nello specchio. Ormai la detestavo... Andavamo avanti da talmente tanto tempo, senza vedere la fine, che in certi momenti temevo di non riuscire a ricordarmi più come ero al di sotto di tutto quel trucco.

Per fortuna, anche stavolta, col tramonto, ci eravamo dovuti fermare. Per Totheroh il duro cominciava adesso, ma che diavolo, non era un problema mio. Del resto facevo l’attore, non il montatore.

A metà faccia recuperata, la puzza di sigaro che annunciava il re della California mi comunicò ufficialmente che il mio malumore era ancora lontano dallo smontare le tende.

- Ehilà, Jack – mi fece con un sorriso a quaranta denti – splendide riprese, oggi, non trovi?

- Grande capo, se sei contento tu, non possiamo che esserlo anche noi – replicai con la mia miglior faccia da poker. Lui intuì subito il mio bluff.

- Sì, sì, lo so che sei stanco, vecchio mio – disse allargando le braccia – ma stai tranquillo! Tutto questo sforzo non farà che riempirci le tasche di dollaroni sonanti… e alla fine ne sarai contento anche tu, scommetto – e concluse col solito gesto: pollice e indice che si sfregavano e occhiolino di accompagno.

- Mi arrendo sempre di fronte a George Washington – replicai alzando le braccia.

- Bravo. Perché Mack non sbaglia mai. E non ha intenzione di cominciare adesso. – e poi fece la sua solita pausa finto melodrammatica. – Vecchio mio, sono tempi duri. La gente vuole distrarsi, ridere. E chi lo glielo fa fare meglio di me?

Non ero molto convinto. Sennett era il re della commedia, era vero, ma non osava mai più di un rullo. Cinque minuti e via, come i fumetti del giornale della domenica. Ma sei rulli, quasi un’ora e mezza di film… Il “Romanzo di Tillie” stava logorando tutti. Quel metodo di lavoro, poi… tutti che facevano tutto. Recitare, riprendere, allestire le scene… tutto per ottimizzare le spese. Finchè si facevano cinque minuti di sketches, nessuno se ne accorgeva, ma in quel tempo così lungo, tutti i difetti sarebbero emersi. La truppa si divertiva. Io un po’ meno.

- Mack, lo sai che normalmente non ti dico nulla…

- Bravo. Continua così.

- …ma pensi davvero che “Tillie” sia una bomba come credi? Non è un po’ …

Mi guardava malissimo. Ma ormai avevo aperto bocca.

- …troppo lungo?

Bussò a lungo sulla mia testa.

- Zuccone, ma allora non mi ascolti.. Ma lo sai che in Europa non aspettano altro che una scusa per scannarsi come tacchini? L’aria è pesante! Se normalmente la gente vuole ridere, adesso ne ha bisogno ancora di più. E noi faremo meglio di tutti!   

Non so perché insistessi tanto. In fondo ero ben pagato e non avevo certo bisogno di inimicarmi il mio foraggiatore. Forse era la stanchezza. Così provai a rilanciare.

- E se investissimo di più su Charles, quello nuovo? Secondo me può fare grandi cose…

- Mah. Sì, ci stavo già pensando. Peccato non abbia ancora trovato una sua, come dire… identità. Se non fosse per quella macchietta del vecchio ubriacone, ancora non saprei cosa fargli fare, oltre il generico.

Secondo me sbagliava, e di brutto. Ripensai ad una conversazione avuta con Charles poco tempo prima. Mi disse:

- Sennett è convinto di essere Dio. Io ringrazio il Signore ogni giorno per averlo conosciuto, ma secondo me è limitato. Sempre le stesse scene… la bella, lo sfigato, i Keystone Cops che fanno una gran confusione… è… come dire… ripetitivo. Non può durare. Se guardi gli altri registi, al di là delle imperfezioni tecniche, non si fermano alle gag, cercano sempre di realizzare delle storie. Quando la gente si stancherà di lui, andrà a fondo come un sasso. E quel giorno io non sarò qui, te lo assicuro. Mi sarò già assicurato un futuro.

Aveva centrato il punto alla perfezione. Del resto non solo il ragazzo aveva talento, ma aveva anche cervello; in due mesi aveva preso le misure a tutti, e voleva imparare sempre tutto, dalle riprese al montaggio. Come se non bastasse, aveva un carisma notevole e la capacità di risultare simpatico a tutti. Avrebbe fatto molta strada, ne ero sicuro. Così gli dissi semplicemente:

- Buona fortuna, Charlie. Se le nostre strade si dovessero allontanare, spero non sia a lungo…

Mi strinse la mano calorosamente.

- Sono sicuro che a bordo della mia barca ci sarà sempre un posto per te, soprattutto se contribuirai a pagare il carburante – disse sghignazzando - E comunque non sto andando via. Ho ancora troppo da imparare.

- Ehi, ci sei? – dovevo essermi assentato. Mack mi stava scuotendo per una spalla. – Lascia perdere, sei stanco e lo capisco anche io quando non è il caso di esagerare. Per cui ti faccio due regali: il primo è un bel paio di giorni di riposo.

Mi diede una pacca e si alzò per andarsene, non prima di un bello sbuffo di sigaro in piena faccia. Mi stava lasciando come un cretino.

- E il secondo? – dissi prima che uscisse.

Con uno dei suoi colpi di teatro, scostò la tenda del camerino. Una cameriera in vestiti molto succinti, troppo per essere una vera cameriera, reggeva un cestello di ghiaccio con una bottiglia dentro.

- Un bel paio di bicchieri di champagne da bere alla mia salute. Anzi – fece replicando il gesto del dollaro – alla NOSTRA salute.

Sospirai. Tipico di Sennett passare sopra gli ostacoli con tutta l’automobile. Guardai lo splendido panorama e la invitai a sedersi accanto a me. Sembrava Betty Boop materializzata in carne ed ossa. Caschetto nero, vestitino corto, calze autoreggenti. Difficile dedicarsi allo struccarsi, ma ero davvero stanco e in quella strana giornata non desideravo altro che riacquistare l’altra mia mezza faccia, farmi una doccia e andare a dormire, il più possibile lontano dagli studi.

- Versati un bicchiere, se vuoi – le dissi mentre cercavo di guardare lo specchio. Non senza difficoltà.

- Lei non vuole nulla?

- Magari appena finisco ci facciamo un bicchiere insieme.

- Sì, ma… non mi piace bere… da sola – mi disse accavallando le gambe e slacciando un bottone della camicetta. Al diavolo. Un bicchiere, alla fine, me lo potevo anche permettere. A voler essere onesti, il resto forse no. Ma non era necessario far sentire una seria professionista così poco apprezzata con cose banali come la verità.

Riempì due bicchieri. Brindammo. Trangugiai il mio sorridendo.

Poi avvertii come una fitta e cominciai a vedere sfuocato.

Dovetti appoggiarmi allo schienale per non cadere.

La ragazza mi guardò con un sorriso strano.

- Grande attore, cosa c’è? Ti senti male?

- Che cosa hai fatto? – biascicai – chi sei?

- Non mi riconosci?

- Non so. Dovrei? – la vedevo a malapena.

Il caschetto finì tra le sue mani mentre la sua testa finiva per sfoggiare una cascata di capelli biondi.

- Mi hai promesso di presentarmi Sennett, bastardo. Di farmi entrare nel mondo del cinema!

- Veramente io… - non riuscivo ad articolare bene le frasi. Per la verità non ero nemmeno sicuro di avere detto qualcosa. La ragazza non mi ricordava nessuno, se non una delle tante ragazze tutte uguali a cui si dice qualcosa alle feste per fare colpo su di loro. E spesso per passare la notte con loro. Chissà se con lei lo avevo fatto.

L’ultima cosa che mi sembra di ricordare è un’ombra sfocata che prende qualcosa di appuntito dal cestello del ghiaccio, una specie di puntura e una sensazione di appiccicaticcio sulle mie mani dopo che si sono toccate la pancia.

E questo è tutto.

Sono passati tanti anni da allora.

Ora passo gran parte del mio tempo su questa sedia, all’interno del grande salone di casa mia, davanti alla mia finestra preferita, quella che guarda verso la collina con la grande scritta.

Gli affari vanno bene. Sono entrato in società con Charlie, e la United Artists va a gonfie vele. I soldi certamente non mi mancano.

Peccato non poter fare quattro passi all’aria aperta. E’ la cosa di cui più sento nostalgia in questo periodo dell’anno. Ma quando le gambe sono solo due zavorre, non è che si possa fare più di tanto. Diciamoci la verità, avere qualcuno che ti spinge non è proprio la stessa cosa.

E quando il sole tramonta, ogni tanto, ripenso a quella giornata che mi ha cambiato la vita, nel bene e nel male.

E mi rendo conto che non ho mai saputo che fine abbia fatto quella ragazza.

O come si chiamasse.

 
 
 
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