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Perfidie di Stefano Torossi

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Messaggi di Aprile 2014

Natale di Roma

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   28 aprile 2014

   NATALE DI ROMA

                       

Natale di Roma. Lunedì ventuno aprile. Attraverso il foro al centro della maestosa cupola del Pantheon, ogni anno a mezzogiorno preciso di questo fatidico giorno il sole scende a colpire il portone d'ingresso, illuminando come un riflettore da un milione di watt l'imperatore che entra nel suo tempio, e con questo gesto diventa Dio. Noi eravamo lì, e siamo idealmente ascesi su questo raggio di luce al più alto dei cieli, accolti nella gloria della Città Eterna.

Seh! Questo ci sarebbe piaciuto raccontare. Invece...


La parte astronomica è precisa; la descrizione dell'evento va modificata come segue: intanto ci siamo dovuti ricordare che c'è l'ora legale, quindi mezzogiorno in realtà è l'una. Arrivati al pronao del Panteon lo troviamo formicolante di turisti chiassosi, e anche questo è logico. Ci mettiamo pazienti in fila per entrare a vedere il famoso raggio.

Davanti al colonnato, oltre ai soliti centurioni con la spada di latta, cinque carrozzelle i cui cinque cavalli la mollano abbondantissima sul selciato che è in discesa verso l'ingresso. I volenterosi vetturini pensano di far bene rovesciandoci sopra grandi secchi d'acqua attinta alla fontana barocca lì davanti, e ci inondano le scarpe. Intanto un'altra carovana fende la folla strombazzando con esagerati claxon da autocorriera montati sulle carrozzelle. I pellegrini ridono: "Molto pitoresko!" In mezzo alla piazza una violoncellista amplificata suona a tutto volume la morte del cigno. Accovacciato alla base di una colonna, in mezzo ai piedi della gente, un fagotto subumano mendica con la solita cantilena: "Fame! Bambini!" mentre uno sciancato ci sguscia fra le gambe a bordo di un carrettino montato su cuscinetti a sfere. Terzo mondo? Quinto!

Finalmente riusciamo a entrare. Certo un silenzioso raccoglimento sarebbe meglio del brusio da stadio che serpeggia. Non siamo senatori SPQR, ma anche noi turisti come gli altri, quindi va bene così.

Il momento si avvicina, il raggio comincia a sfiorare la sua inquadratura finale. Siamo tutti attenti, e bisogna dire che nell'aria vibra una grandissima magia.

Proprio nel momento in cui il rispetto dell'evento vorrebbe il silenzio, dagli altoparlanti rimbomba una voce imperiosa: "La chiesa chiude. Si prega di uscire".  La chiesa chiude? Succede una sola volta in un anno, e quelli, probabilmente a causa di beghe sindacali o straordinari da pagare, ci cacciano! A stento riusciamo a rimanere fino al momento in cui il sole centra l'ingresso con precisione astrale. Ed è molto più emozionante di quanto ci aspettavamo.

Però, non siamo mica qui per divertirci! Il minuto successivo, tutti fuori come pecore e il portone sbarrato in un baleno. Non male per una città a vocazione turistica. E sembra che questa sia una simpatica abitudine del locale.

Ecco una notiziola dai giornali di qualche mese fa: "Roma - Il Pantheon chiude. Concerto interrotto dalla custode. Quattro minuti di troppo e il concerto al Pantheon viene bruscamente interrotto, perché il monumento chiude tassativamente alle 18. E' accaduto domenica 28 febbraio a Roma, dove il quintetto russo Bach Consort si apprestava a eseguire l'ultimo movimento di Vivaldi quando è stato interrotto dalla custode della struttura che ha fatto cenno di fermare la musica. «Vergognatevi!» hanno urlato le 500 persone che stavano ascoltando e filmando il concerto, quando la voce dall'altoparlante ha invitato tutti a uscire velocemente per la chiusura".

 

La festa non finisce qui. Pare che ci siano rievocazioni storiche per tutto il centro. Ci avviamo di buon passo, ma a Via dei Fori Imperiali vediamo solo ambulanti, caricaturisti, indiani in levitazione (con la tunica gialla con sotto il palo che li tiene seduti a mezz'aria) e quella che ormai è la rievocazione più arcaica di tutte, ancora più di Romolo e Remo: gli Inti Illimani. Non certo loro personalmente, ma i loro sostituti, i quali, implacabili con flauti andini, tamburi, ponchos e lunghe chiome corvine eseguono per la milionesima volta "El condor pasa".

Finalmente al sole del Circo Massimo li troviamo tutti: latini, etruschi, daci, galli indaffarati a rifare sul prato (arbitrariamente? Forse, ma che ce ne importa) cerimonie di ogni tipo. Sembra una di quelle ammucchiate un po' imprecise di comparse di Cinecittà. Truci traci con moderni Rayban sul naso, unni avvolti in pelli di lupo molto sintetiche, bionde etère con lo Swatch al polso. Si sentono molti "Da" e "Nyet". Sta a vedere che vengono davvero dalle province danubiane dell'impero (che adesso sarebbero Romania, Bulgaria, Serbia).

La colonna sonora è la solita, vagamente esotica che all'orecchio del pubblico evoca per definizione l'antichità.

L'organico: arpe, pifferi, tamburi e cori di vergini vestali.



                                         

 

 
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Il Negroni

 

  IL CAVALIER SERPENTE

  Perfidie di Stefano Torossi

   21 aprile 2014

   IL NEGRONI

                 

Sufi Ensemble. Sabato 12 alla Sala Petrassi, Parco della Musica. Pejman Tadayon, un simpatico musicista persiano, furbissimo conduttore della serata, ci ha fatto ascoltare la musica di casa sua, ci ha fatto cantare tutti, insieme a lui, "la ilaha illa allah", ci ha fatto guardare un gruppo di volenterose ma non proprio provette ballerine che facevano le dervisce ruotanti, e avrebbe voluto farci applaudire anche il coro Naghshbandi se non che quest'ultimo, per una ragione che non ha ritenuto di comunicarci, ha dato buca al concerto.

Ecco una circostanza in cui il Negroni è indispensabile per il suo garantito effetto rasserenante. Dopo un bicchiere, va bene tutto. Non che la faccenda non fosse gradevole, ma certo poco di più. I suonatori in bianco, come le ballerine, erano belli da vedere, forse anche bravi (non ne siamo del tutto sicuri), il tamburo illuminato dall'interno, suggestivo. Pejman, come già detto, astuto intrattenitore con il suo pittoresco accento ha tradotto per noi alcuni dei testi cantati, che, forse perché non nella lingua originale, risultavano banalissimamente pieni di cuori, amori e occhi assassini, come a Sanremo, insomma; mentre i ghirigori decorativi proiettati per accompagnare l'esecuzione ricordavano molto, troppo, i centrini della nonna.

Non mettiamo in discussione la validità della filosofia sufi, l'importanza della preghiera che si fa musica e della musica che si fa preghiera, o la capacità di raggiungere stati estatici durante queste pratiche artistiche; tanto meno il potere ipnotico di un insieme di suoni che gira intorno a un pedale fisso (in questo caso modernamente prodotto da una tastiera) senza limiti di durata né promesse di sviluppo. Il fatto è che noi poveri spettatori normali, viziati da Mozart e da Strawinskji, anche se ce la mettiamo tutta per essere politically and artistically correct, una serata come questa, davvero, se non ci fosse stato il Negroni...


Incontro con Maria Luisa Spaziani. La voglia di conoscere di persona l'ultima grande poetessa italiana, ormai novantenne: Maria Luisa Spaziani, ci ha fatti abboccare all'amo, lunedì 14 aprile, ore 16, all'Istituto Statale per i Beni Sonori e Audiovisivi di Roma, nuovo pomposo nome della Discoteca di Stato.

Saletta semivuota. Per forza, con questo orario scemo, aggravato dal consueto ritardo romanesco (mezz'ora), e vincolato da scadenza sindacale per chiusura locali (alle diciotto).

Arriva la signora Spaziani, con passo malfermo ma intelletto saldissimo. Le vengono presentate un paio di ragazze che reciteranno per noi, e lei le ammonisce: "Leggere una poesia, per un attore è un fatto di castità: bisogna mettere da parte ogni emozione". Geniale precetto, in seguito puntualmente disatteso dalle due.

L'organizzatore sul palco sbircia continuamente l'orologio mentre ognuno dei comprimari parla e parla, rubando tempo e spazio alla star (e a noi). Le ragazze recitano a implacabili intervalli, e tutti fanno finta di interessarsi dell'ospite, ma è solo apparenza, perché, dopo uno sbrigativo omaggio al di Lei riverito nome, passano subito a raccontare quanto spesso La frequentano, com'è privilegiato il loro rapporto con Lei, e quanto Lei tiene alla loro opinione.

Manca una regia (anche una presentazione è spettacolo), quindi la faccenda si trascina faticosa e dilettantesca. Comunque la Spaziani, da vera regina, appena le mosche cortigiane che le ronzano intorno si posano un attimo, apre bocca e dice qualcosa di intelligente. Nell'insieme riusciamo a racimolare bei pensieri e osservazioni puntuali.

Peccato avere sprecato buona parte del tempo disponibile. Fortunatamente il cervello tende a cancellare le impressioni negative e a salvare quelle buone. E allora, in fondo, anche di questo pomeriggio sgangherato riusciamo a portarci a casa un bel ricordo.

 

Ruderi e aerei. Venerdì 18, invitati dalla giornata scintillante, ci facciamo la prima archeogita della stagione. A Ostia Antica. La brezza fa frusciare i pini e la mentuccia stuzzica il naso. Sopra questa distesa di mattoni rossi e marmi consumati si abbassano con un rombo soffice le miracolose macchine volanti che vanno a posarsi all'aeroporto. Sono meravigliose anche viste da sotto (ma come fanno a non cadere?). Giocattoloni con i motori e le code dipinti di rosso e le ruote già fuori per la pista.

Sul decumano massimo di Ostia il selciato è segnato dalle cicatrici dei carri di duemila anni fa, i mosaici spuntano dall'erba e l'edera si arrampica su ogni muro. Tutto molto quotidiano, poco monumentale, ancora quasi vivo. Ci piace così.



                                           

 
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Il grande narciso

Post n°273 pubblicato il 13 Aprile 2014 da torossis

 

  IL CAVALIER SERPENTE

   Perfidie di Stefano Torossi

     14 aprile 2014

    IL GRANDE NARCISO

 

E' Eugenio Scalfari, di cui siamo andati a festeggiare i novant'anni lunedì 7 aprile al Teatro Argentina. Evento preparato da una serie di articoli su La Repubblica, Il Venerdì, e tutti gli altri araldi baronali del regno di cui lui è re. Lunga fila fuori del teatro; una volta dentro e dopo tre quarti d'ora di baci abbracci e saluti di Veltroni e Sorrentino e Paola Fracci e Benigni ha inizio la cerimonia. Che, essendo il compleanno di un novantenne famoso ha le sue formalità e i suoi tempi. Sullo schermo si inseguono foto sue insieme a tutti, ma tutti davvero. Una galleria di chiunque abbia contato qualcosa nel secolo.

La faccenda è condotta da Antonio Gnoli; brani vari dai libri del festeggiato sono letti da Silvio Orlando, il cui microfono, tanto per non smentire l'efficienza nazionale, gracchia e sputazza un bel po' prima di stabilizzarsi (siamo all'Argentina, il primo teatro di Roma, e per un evento di una certa importanza; ma siamo anche in Italia). Cinque amici/collaboratori, dopo aver presentato garanzie di antiretorica e di antipatos, raccontano, ma leggendo, quindi con un bell'effetto imbalsamato, omaggi, aneddoti, ricordi sul filo di cinque argomenti: viaggio, conoscenza, persone, amicizie, sfide. Fra costoro brilla, si fa per dire, Alberto Asor Rosa, che con il suo parlare noiosissimo e sonnolento da il colpo di grazia al pubblico. Raccontando dell'amicizia fra Scalfari e Calvino cita dalle Lezioni Americane la parola "rapidità", e poi (ci viene ancora da ridere) piomba in una pausa talmente lunga da far temere un coma irreversibile.

E' chiaro che non ci aspettavamo la torta con dentro la ballerina, ma tempi un po' più teatrali forse sì, visto dove siamo. Per fortuna appena il protagonista sale sul palco possiamo finalmente apprezzarne lo spirito, la proprietà di linguaggio, la chiarezza di idee, e la prontezza (sempre saldo sul suo piedistallo di magnifico narciso, intendiamoci). Dall'alto del quale riferisce le telefonate di auguri del Presidente del Consiglio, del Papa, del Presidente della Repubblica che, ci racconta con civetteria palese e modestia malcelata, avrebbe voluto venire a salutarlo, ma lui ha preferito di no per evitare troppa emozione. Arguto e instancabile, come sono spesso i vegliardi quando hanno un pubblico e parlano della loro vita, pilota con timone saldo la nave dei festeggiamenti.

Ahimè, a un certo punto della rotta il magnifico vascello di capitan Scalfari incontra un pericolosissimo scoglio e finisce col naufragare come se al comando ci fosse uno Schettino qualsiasi. Succede che il saggio, distaccato, ironico, cinico giornalista a un certo punto annuncia che ci leggerà alcune sue poesie, perché, sì, in tarda età ha scoperto di essere anche poeta. Tira fuori un fascio di fogli e attacca. Ed ecco che l'acuto polemista, il dissacratore di uomini e idee, ci diventa un paroliere da Sanremo.

Versi pieni di spiagge, di mare, stelle, brezze, perfino angeli. Ma come, da novant'anni stiamo in reverente ammirazione di quelle mura mantenute inviolabili da uno stratega emerito; e senza preavviso, da dietro il ponte levatoio, fa capolino il menestrello!

Di colpo, al posto del pilastro di saggezza e ironia che conoscevamo, abbiamo visto un nonno un po' andato a cui i fogli tremavano in mano per un inizio di Parkinson; che a un certo punto si era persa l'ultima poesia e continuava a cercarla fra l'imbarazzo di molti. E quando l'ha trovata, ha anche voluto leggerla.

Incrociatore affondato da questo siluro senile. Peccato.


Accendere la luce. La parola d'ordine della conferenza stampa del Festival Internazionale di Villa Adriana, venerdì mattina. Basterebbe far scattare l'interruttore per indirizzare l'attenzione sugli innumerevoli coaguli di bellezza e d'arte che abbiamo dalle nostre parti e che lasciamo stupidamente al buio. E l'Italia diventerebbe all'improvviso un paese ricco, ammirato, ricercato, non dalle forze dell'ordine, tanto per cambiare, ma dal mondo. 

La cerimonia, presenti Zingaretti, Regina e Fuortes, è introdotta dall'Assessore alla Cultura del Lazio, Lidia Ravera, la quale, come sanno quelli che leggono, scrive bene, ma bisogna ascoltarla per rendersi conto che parla ancora meglio. Poche parole, quelle che servono (come rispose Mozart all'Elettore di Sassonia che lo rimproverava: "Troppe note, maestro!", "Quelle che servono, maestà") chiare e coi tempi giusti. E sempre con una minima, efficace notazione di colore. Nella fattispecie, la difficoltà di trovarla, questa Villa Adriana, una meraviglia che dovrebbe essere segnalata fin dall'arrivo all'aeroporto di Fiumicino, e invece, bisogna andare a cercarsi un viottolo che incrocia la Tiburtina alle porte di Tivoli: la direzione è quella. Segue un garbuglio di sensi unici, e poi, con l'aiuto di Sant'Indiana Jones si arriva, ma non si può fare a meno di chiedersi il perché di questo andazzo cialtrone, quasi omertoso. Comunque stupido.


 

                                         


 

 
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Impressionisti danesi

 

  IL CAVALIER SERPENTE

 Perfidie di Stefano Torossi

 7 aprile 2014

    IMPRESSIONISTI DANESI

          

Impressionisti danesi. Pensavamo di sapere tutto di questa città. Invece oggi, lunedì 31 marzo ci si materializza dal nulla il Museo Hendrik Christian Andersen grazie a un invito all'inaugurazione della mostra "Impressionisti danesi in Abruzzo". Il nostro stupore non ha più confini. Impressionisti danesi? E chi mai ne aveva sentito parlare. E in più, dopo aver scoperto la settimana scorsa l'esistenza della JAA, Japan Abruzzo Association, sta a vedere che adesso questa nostra gloriosa regione si gemella anche con la Danimarca.

Così è. La Fondazione Pescarabruzzo, insieme con la Reale Ambasciata di Danimarca, si è fatta prestare per la mostra lo studio, ora museo, del maestro Andersen, scultore norvegese della prima metà del novecento (niente a che fare con Hans Christian, quello delle favole), il quale, una volta scoperta Roma, come molti scandinavi ci aveva messo su casa e non se n'era più andato.

Sarà bene chiarire subito la ragione per cui secondo noi la scuola impressionista danese è sconosciuta. E' esposta al piano superiore, questa ragione, in quella che era l'abitazione dell'artista: una bella quantità di quadretti, quadroni e quadrucci: paesaggi montani, pastorelli, contadini e mucche al pascolo. Non ce n'è uno che meriti di entrare nella storia dell'arte. Neanche uno.

Invece villa Andersen, appena fuori Porta del Popolo, è splendida. Grande terrazza con gazebo al primo piano; e al terreno due enormi studi, uno per lavorare, l'altro per esporre le opere: gessi e bronzi immensi, con marcata preferenza per nerboruti maschioni, turgide poppe e cavalli impennati (vedi foto), che l'artista non riuscì mai a esporre ufficialmente, né, ricco, si curò di vendere.

Opere che forse non possiamo definire capolavori, ma sono grandi, ben fatte, molto accademiche e molto autoritarie. E che soprattutto ci guadagnano dal confronto con i connazionali scandinavi, i famosi impressionisti danesi in Abruzzo.


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Sacre melodie e porchetta. Tutta la giornata di mercoledì 2 è dedicata da Musicaimmagine e IISM a Giacomo Carissimi. Approdiamo in tarda mattinata al Pontificio Istituto di Musica Sacra, sede dell'incontro. Bella la Sala Accademica, con un grande organo in fondo; una volta tanto la temperatura è giusta e le sedie comode.

Certo gli argomenti del convegno sono davvero ultraspecialistici: "Le cantate su testi di Sebastiano Baldini" (apprendiamo, con maligno compiacimento, che talvolta i testi, sacri e non, erano definiti "ordinaria rimeria") o "Giovanni Battista Mocchi, sirena del paradiso", e altre simili preziosità. Ci si sente precari a volare a queste altezze.

Per fortuna, insieme alla notizia per noi inedita che Carissimi, originario di Marino nei Castelli Romani, oltre a oratori produceva anche ottimo vino che aveva l'abitudine di servire ben fresco ai suoi musici, arriva a un certo punto l'annuncio di uno spuntino a base di prodotti tipici della zona, offerto appunto dal comune di Marino. Questo ci permette di perdere quota e di scendere al nostro rassicurante livello abituale, cioè a terra. Porchetta, prosciutto e vino bianco. Ci sono perfino le ormai introvabili coppiette, striscioline di carne secca, salata e piccante: una leccornia.

I primi minuti di ripresa pomeridiana sono un po' sonnacchiosi, poi l'attenzione ritorna, anche se lentamente, malgrado la mancanza di verve di alcuni relatori. Ok, è vero che il loro mestiere è la ricerca, e non l'esposizione, però, dato che il bello di qualsiasi piatto è anche nella sua presentazione, prima di parlare sarebbe consigliabile, per chi ne ha bisogno, un breve esercizio di retorica, di dizione o (riducendo al minimo le pretese) almeno di gestione di microfono e proiettore.

Finale in gloria con l'intervento, come sempre brillante per intelligenza, di Claudio Strinati che conclude con una saporita descrizione dell'oratorio del SS Crocefisso e dei suoi affreschi (Pomarancio e colleghi minori) postazione, per lunghi anni, dell'attività di Carissimi.


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Una trovata anni '60. Giovedì 3 a Piazza Pasquino 70, "Art is Real - Una collezione impermanente". Siamo in un palazzetto alto e stretto, svuotato dei suoi inquilini, e in attesa del cantiere che probabilmente lo trasformerà in un B & B. Rimane aperto solo oggi come galleria d'arte provvisoria per tutti quelli che hanno voglia di arrampicarsi su fino al quinto piano. Sculturine, spennelate di colore, giochetti di luci. Chissà come mai stavolta le scale ci sembrano molto più ripide di cinquant'anni fa, le stanze più anguste, le opere d'arte parecchio meno interessanti e l'evento piuttosto noioso. Dev'essere cambiato qualcosa da allora, ma ci sfugge cosa.





 

 
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